Nel viaggio di ritorno a Damasco sul sedile a fianco c’è un militare. Si chiama A. e viene da un piccolo villaggio del centro. Torna in servizio dopo una breve licenza. Accartocciato nella sua woodland racconta quanto gli è capitato tre anni fa.
Era di leva, in servizio a Yabroud, una cittadina tra Homs e Damasco. Come addetto ai rifornimenti invece del fucile usava la pistola: quella della pompa di benzina. Un pomeriggio riceve una chiamata del suo comandante che gli ordina di raggiungerlo in un certo posto in periferia. Lui obbedisce. All'arrivo, del comandante non c'è traccia. Lo chiama al telefono ma in quell'istante preciso viene assalito, incappucciato e portato via.
Riconosce le bandiere nere appese ai muri: si trova in un covo di miliziani di Al Nusra. È prigioniero assieme al suo comandante e ad altri soldati. Sono caduti tutti nella stessa trappola che evidentemente funziona. In breve arrivano altri colleghi fino a raggiungere il numero di 7.
I carcerieri sono egiziani, sauditi e siriani del posto. Non c'è troppo tempo per riflettere: vengono gonfiati di botte per settimane. Vengono nutriti con legumi provenienti da un magazzino dell'UNHCR dove i terroristi sono di casa. Lui e gli altri sono tenuti legati nello stesso ambiente.
Ogni tanto qualcuno viene portato in un’altra stanza per essere torturato o lasciato appeso ore intere per le mani. “Non credevo assolutamente che sarei sopravvissuto!” dice A. mentre rallentiamo per un controllo.
L’autostrada che collega Damasco col nord del Paese potrebbe fare invidia alle nostre se non fosse per i continui posti di blocco e per i lavori non segnalati. Sul tratto che attraversiamo due anni fa c’erano bande di terroristi… Ora tutto è quasi normale.
Passa una moto con 4 ragazzini sopra. L’unico che non ride è quello dietro, scomodo come la guerra che ci gira intorno. A. li vede, sorride e poi mostra sul cellulare il video di youtube dove si vede prigioniero. Più volte gli hanno fatto scavare la tomba annunciandogli l’esecuzione.
Quando ormai si dava per morto arriva la notizia che la famiglia ha pagato il riscatto. Altri come lui riescono a salvarsi. Chi non riceve soldi, viene ucciso sul posto. Tutti qui gli ideali di Al Nusra? È questa la guerra santa?
Riprendiamo a viaggiare. Mi parla del comandante. Lo hanno salvato con uno scambio di prigionieri. Se non avesse chiamato i suoi soldati sotto la minaccia della armi, lo avrebbero ucciso. Era un ufficiale ma A. non lo giudica per questo. Non tutti sono eroi in Siria. Anche qui come altrove chi recita la guerra è quasi sempre gente normale.
Passiamo un altro controllo. Nella corsia per governativi e militari i mezzi vanno veloci. I civili invece fanno la fila. Ci sono dei camion in colonna. Sono cisterne di fabbricazione russa, abbronzate dalla ruggine. Siamo nell’area desertica a ridosso di Yabroud. A. è quasi arrivato ma non si scompone. Quando parla guarda fisso negli occhi. Dice di non aver paura ormai. Vuole continuare a servire il suo Paese e ha una voglia matta di vendicarsi.
Rallentiamo. Ci sono altre macchine. Arriva un suo amico in mimetica a bordo di una piccola moto. A. il suo amico sorridono e si parlano in arabo. “Speriamo che al tuo ex comandante abbiano tolto il cellulare di servizio...” è la prima cosa che mi viene in mente scherzando. È un modo per congedarci. In fondo è un altro volto che non vedremo mai più, inghiottito dalla guerra e dalla normalità che tornerà ancora.
Lui e l’altro soldato se ne vanno fumando una sigaretta. Sorridono come ragazzi qualunque. Noi ripartiamo, fra puzza di benzina e il sole che muore. Pochi km dopo a est, sulla sinistra dell’autostrada, vediamo esplosioni. Non sono distanti. I boati sono cupi, fortissimi, uno dopo l’altro. Il traffico viene subito deviato. Cecchini sparano sull’autostrada e l’esercito bonifica l’area. Dopo soli 200 metri siamo incolonnati ad un check point mentre i tuoni dell’artiglieria continuano, abbastanza vicini. Non c’è panico. La guerra per questa gente è diventata normale, ma a noi ancora manca qualcosa. I soldati fanno scendere tutti e controllano borse e documenti. Basterebbe un colpo per far saltare tutte le macchine in fila. Non c’è logica, non c’è ragione. I militari non sono abituati ai reporter occidentali. Sorridono quasi felici e lasciano andare.
Ripartiamo verso sud con le macchine dietro ancora in fila e un’eco roca di tuoni sullo sfondo. Con lo sguardo alle spalle, pensiamo a quanto succede. Tutto è normale, tutto è follia. Nemmeno il tempo di pensarci e arriva la periferia nord di Damasco.
(foto: Difesa Online)