Dando seguito alle parole del Presidente degli Stati Uniti Obama, sarebbe confermata la notizia del dispiegamento di 150 soldati americani in Siria e precisamente nella città del Nordest Rumaylan, sotto controllo curdo.
Sulla carta i militari sarebbero indirizzati a funzione di addestramento delle milizie curde SDF (Forze Democratiche Siriane) consorelle delle più gettonate YPG, attive su tutto il fronte nordorientale. Un’ulteriore specifica di Washington lascerebbe intendere che le forze speciali presenti nel contingente sarebbero necessarie per contrastare più efficacemente lo Stato Islamico.
Il governo siriano ha immediatamente dichiarato illegittima la presenza di truppe straniere non “invitate” sul proprio territorio, da considerare quindi a tutti gli effetti alla stregua di una forza d’invasione.
Nonostante la Casa Bianca abbia scongiurato più volte l’utilizzo di truppe di terra in Siria, le forze USA sarebbero arrivate già a 300 unità. Dire che l’evento non aiuta a gettare acqua sul fuoco nel panorama siriano è un eufemismo.
Rumaylan dista quasi 400 km da Raqqa, ma solo 60 da Qamishili, enclave governativa in una regione completamente curda. Il confine turco a nord e quello iracheno a sud sono rispettivamente a 15 km dalla città sempre più al centro di un’area ormai di fatto indipendente da Damasco.
Perché gli USA si sarebbero decisi ad un coinvolgimento a terra proprio ora e perché proprio in quell’area?
La guerra contro il Califfato ha avuto momenti decisamente più drammatici. Basti pensare ad un anno fa quando i miliziani ISIS entrarono a Palmira. In quei giorni nessuno in Occidente andò oltre la semplice indignazione e di interventi diretti contro l’allora fortissimo Stato Islamico si rinunciò perfino a parlare.
L’interpretazione più plausibile è che la scelta di Washington sia quella di puntare ad un deterioramento soft del potere centrale di Damasco, ponendolo davanti al fatto compiuto una volta che la guerra sarà finita. Nonostante i successi delle Forze Armate siriane e la liberazione di almeno un terzo del territorio in mano agli islamisti, molto rimane ancora da fare e muoversi per tempo, secondo la Casa Bianca, sarebbe necessario a meno di evitare una débacle totale nel quadrante Siria.
Soprattutto a nord est, l’autoproclamato statuto federale del Rojava lascia intendere che proprio i curdi, alleati fino a ieri di Assad in funzione anti-islamista, stiano diventando in realtà suoi nemici conclamati. Quando il vaso fondamentalista sarà svuotato, a battere cassa in Siria ci saranno infatti innanzitutto i curdi del nord, decisi a incassare il credito maturato in anni di guerra e indiretto appoggio al governo di Damasco.
Non è un caso quindi che gli americani abbiano deciso di essere presenti proprio lì, a ridosso degli scontri fra forze curde e truppe paramilitari lealiste.
Fonti militari darebbero il contingente americano già operativo in direzione dell’area nord del Governatorato di Raqqa, non lontano da concentramenti di truppe ISIS. Il dato non sposta di una virgola l’obiettivo strategico USA. Anche combattendo il Califfato (avrebbero potuto farlo prima e meglio), lo scopo vero della presenza americana è impedire una piena vittoria siriana (e russa). Da una parte partecipando alla campagna militare in modo visibile; dall’altra impedendo ai curdi di collassare, così da mantenere alto il potere contrattuale nei confronti di Damasco e preparare il terreno a un federalismo lasco.
Probabile che la scelta obbligata di Obama oltre a lasciare una castagna sul fuoco al futuro inquilino della Casa Bianca, crei attriti con la Turchia. Accettare la presenza di un’entità curda autonoma ai propri confini meridionali sarebbe per Ankara l’ammissione di una totale sconfitta nella gestione della questione siriana. Dopo 5 anni di intrighi e coinvolgimenti più o meno diretti si troverebbe Assad ancora a Damasco e il peggiore nemico di sempre alle porte, con un grado d’indipendenza mai avuto prima.
Le prossime ore in questo senso saranno decisive.
(foto: Al Jazeera)