Dopo un anno siamo tornati nel Donbass. Mentre scriviamo è notte ma il cielo sopra il distretto di Petrovs’kyi è illuminato a giorno dai lampi delle artiglierie. Presto saremo al fronte per raccontare una guerra nel cuore d’Europa dimenticata da tutti.
Una colonna di TIR aspetta in fila alla dogana. Sono decine. Qualcuno ogni tanto riparte per pochi metri e sbuffa, come un alce assonnato.
I russi controllano i nostri passaporti con uno smartphone. La fretta non abita qui. Dopo 4 ore di attesa si passa.
Sul lato del Donbass ci si sbriga subito. Il più è fatto: ufficialmente la regione di Rostov e Santa Madre Russia sono alle spalle; davanti, c’è solo la strada per Donetsk.
Uniformi verde vegetate e sguardi uguali ci fanno da guida tra betulle e asfalto umido. Siamo in Ucraina o forse no… Per le zanzare arrivate con le intense piogge di questi giorni non è importante; loro non hanno frontiere, rompono e basta.
È una stagione eccezionalmente umida questa, ma il clima mite di giugno rende tutto più dolce. Un verde immenso fa breccia nel grigio brullo dei resti dell’inverno appena passato. Tra gli alberi alti si apre la pianura che porta verso ovest, verso Donetsk.
In un anno sono cambiate tante cose nell’Ucraina filorussa: le strade sono state riasfaltate e tutto sembra normale; adesso c’è perfino un corpo di polizia per l’ordine pubblico.
Donetsk è tornata ad essere la città delle mille rose, come era una volta. Le piantano ovunque: aiuole spartitraffico, giardini, parchi pubblici. Un anno fa c’erano solo soldati. Ora si vedono parecchi giardinieri…
A prima vista sembra passato un secolo. Le strade sono affollate e in superficie la vita scorre come se nulla fosse accaduto. Nel centro non c’è traccia della guerra; tutto rimosso, tutto come prima.
Ma dietro l’apparenza, c’è ancora morte e paura. Basta che arrivi la notte, quando con l’ora di Mosca cala il buio e tutto tace. Un rombo lontano ricorda le fresche piogge estive di queste parti. In realtà sono le artiglierie che continuano a tirare senza riposo. I lampi arrivano dal distretto di Petrovs’kyi, periferia sud ovest. Per il momento è l’unico modo per capire che la prima linea è vicina, più di quanto si creda.
Muoviamo verso nord, tra i palazzi e gli snodi dei sobborghi. La zona che precede l’aeroporto, uno dei simboli della guerra in Ucraina, è martoriata dai segni delle bombe. Fra i filari di betulle fanno capolino i blocchi di case in stile sovietico sfregiati da schegge di granata. Sembra sia passato un uragano grigio. Il rombo delle artiglierie si fa più forte e più frequente. La linea dei combattimenti è vicinissima.
Incontriamo Spartaco, volontario italiano tra le fila dei filorussi. È un arruolato della prima ora; praticamente è qui da quando è iniziato il dramma.
Spartaco in Italia era un parà della Folgore e il basco amaranto non se lo toglie mai. Stacca col verde vegetato della mimetica russa che indossa. Sulla spalla ha il patch con la scritta in cirillico DNR, la sigla della Repubblica del Donbass.
Ferito tre volte, di cui due nel giro di soli dieci giorni, qui è stimato da tutti e non ne vuole sapere di tornare. È stato anche decorato, ma l’umiltà prevale e cambia subito discorso. Ha gli occhi buoni, velati appena da una nota di malinconia. La guerra, anche quando è una scelta, lascia una traccia indelebile nello sguardo.
Ci dice che nonostante l’apparente normalità gli scontri continuano con gravi perdite da entrambi i lati: esercito ucraino da una parte; esercito del Donbass dall’altro. In Occidente non se ne parla da mesi, ma la tragedia continua senza sosta.
C’è molta tensione. Non bisogna andare lontano per capirlo. A uno sputo da Donetsk, proprio oltre l’aeroporto, c’è la città di Avdiivka dove si combatte casa per casa. Il numero dei feriti e dei caduti aumenta di giorno in giorno nel silenzio totale dei media.
Spartaco ci dice che il nodo del contendere è uno svincolo autostradale d’importanza strategica.
Anche lui ha combattuto ad Avdiivka insieme al 1° Battaglione, composto da volontari con almeno un anno e mezzo di esperienza di al fronte. Qui non si scherza e si parla poco. La guerra è una cosa seria e soprattutto vera.
Sorridendo lascia passare un refolo breve di nostalgia che gli addolcisce il viso. Ci dice che ha appena incontrato un suo compaesano venuto dall’Italia per portargli i formaggi dalle sue valli ed i saluti da casa, oltre ad aiuti umanitari per i civili.
Lo salutiamo, ripromettendoci di incontrarlo ancora. Per questioni di sicurezza non ci dice dove e per quanto, ma sta per raggiungere un anonimo punto della prima linea.
Per andare al fronte ci vuole l’accredito stampa militare e al Press Center bisogna aspettare un po’. Il ritorno alla normalità ha comportato anche un aumento di burocrazia…
Con l’accredito civile oltre una certa zona non si può andare. Appena imbocchiamo per l’aeroporto ci fermano e ci portano in una caserma del battaglione Vostok per accertamenti.
Il Vostok è formato da volontari russi, ceceni e della Crimea. Sono tutti veterani addestrati con uno standard da forze speciali.
Nella sala interrogatori ce la caviamo rapidamente ma capiamo quanto sia seria la questione. Per raggiungere Avdiivka ci vuole l’accredito militare, non c’è altro modo. Spartaco ci ha avvisati del rischio che si corre laggiù, ma aspettiamo per poterci muovere nei prossimi giorni.
Intanto, senza fretta, il tempo scorre e cambia la luce del giorno.
Betulle alte, cielo grigio, due bambini che ci guardano, un’auto che passa sfregando l’umido dell’asfalto. Siamo in Europa. Un’Europa lacerata da una guerra dimenticata da tutti.
(continua)
(foto: Giorgio Bianchi)