Dopo difficoltà di ogni tipo, si prende l’iniziativa. Con la maršrutka andiamo a Yasenavataia, il paese a ridosso della linea del fronte. A nessuno verrebbe in mente di fermare un autobus di babuskhe e pendolari; con 25 rubli passiamo indenni tutti i check point. Un’ora e mezza tra miniere abbandonate e orti coltivati.
Sul bus gesti, sguardi e sorrisi sono la chiave per un discorso surreale. A volte serve, a volte meno: appena arrivati, invece di accompagnarci alla Doma Administrazia ci consegnano a tre militari col kalashnikov...
Controllati i documenti ci accompagnano al municipio: saluti, sorrisi, sguardi increduli… vestiti da Babbo Natale avremmo destato meno sorpresa.
A Yasenavataia prende solo Feniks, la compagnia telefonica della DNR. Ci viene fornita la password di accesso al wi fi della struttura. Dopo un po’ arriva anche l’insegnante d’inglese della città che fa da interprete.
Veniamo introdotti nella stanza del sindaco; corporatura robusta, sguardo che non ammette repliche e un tatuaggio sull’avambraccio. Estrae dal cassetto una calibro 9 e scarrella… È un modo sintetico per spiegare che il Donbass è in guerra.
Il sindaco in realtà è un uomo tranquillo che vuole cogliere l’occasione per dare a Yasenavataia il giusto risalto internazionale. Qui, ci siamo solo noi.
Dopo 5 minuti abbiamo a disposizione una macchina con autista e l’insegnante di inglese come interprete.
Si fa il giro della cittadina, rilevante snodo ferroviario, terra di fabbriche di automobili e di miniere.
Case bombardate e sguardi persi di gente che ha perso tutto. È un ritornello costante.
Entrare in queste case sventrate dalla guerra è un po’ come aprire il cassetto dei ricordi di qualcun altro. Crea imbarazzo e al tempo stesso stimola la fantasia: carte da parati a fiori, ninnoli sui mobili ancora in piedi… tutto odora di memoria. Le macerie sanno di orrore e queste donne dignitose hanno negli occhi lo sconcerto di chi non comprende. Yelena, la nostra interprete, traduce con le lacrime agli occhi.
Un soggiorno, una camera da letto con un calendario fermo al 2014 e una cucina: dentro c’è un bimbo che nella luce del mattino somiglia ad un giovane San Sebastiano. La mamma sta essiccando i fiori di tiglio usati per le tisane.
Torniamo dal sindaco: che ci propone, filtrato dallo sguardo incredulo di Yelena, di andare a Spartak, sulla linea del fronte.
Bisogna correre perché la sera è alle porte e con essa le bombe. Tante, tantissime bombe… E con loro la paura, altrettanta paura...
Il sindaco sale sulla sua X3 noi sulla Volga dell'autista…
Convoglio di guerra, con la notte che incombe e non un minuto da perdere…
Arriviamo: di fronte a noi la scultura con il nome della città ormai sepolta dalla vegetazione ricorda un totem indigeno messo all’ingresso di un villaggio nella giungla.
Il cuore batte; le gambe vacillano; gli spari riecheggiano… Non è un film, è guerra. Siamo in una vera guerra nel cuore dell’Europa,. Un orrore in diretta sottaciuto da media occidentali.
Ci muoviamo tra i viali desolati e desolanti: odore acre di polvere da sparo, suoni acuti di raffiche vicine e lontane. Un miliziano in bicicletta ci incrocia: è tutto surreale.
Ci conduce alla villetta: portico con vite, cagnolina che abbaia, finestre sfondate tappate con sacchi di sabbia, kalashnikov appoggiati alle pareti.
Era una piccola Dacia trasformata in baracca militare.
Il comandante inizia a parlare con il sindaco: poche parole alla maniera slava e poi il responso: restiamo per la notte.
prendiamo un ciai, un te, segno dell’ospitalità slava.
Il comandante della postazione ci illustra le regole:
- non si fotografa nulla che possa rivelare la posizione
- di sera niente luci all’aperto
- si esce solo accompagnati
- al primo boom si rimane lì fino a nuovo ordine
Ci mostra il bunker: sulla destra una scala conduce in uno scantinato protetto da un solaio di cemento armato.
All’interno umidità, odore di muffa, zanzare, brande, sedili di Lada divelti e trasformati in sofà, sottaceti e scatolame…
Fuori da quel luogo malsano l’odore della polvere da sparo che aleggia ovunque è quasi balsamico.
Due ragazzi del battaglione prendono un pallone e si mettono a palleggiare nel viale.
Un’occhiata d’intesa tra di noi ed è già partitella: Italia-Nuova Russia... Sull’asfalto duro finisce 5-2 per noi.
Uno di loro ci propone una russian shower per togliere sudore e fatica.
L’acqua prelevata da un pozzo e versata con un secchio sulla testa è puro ghiaccio siberiano.
Arriva l’ora della cena.
I militari sono precisi, ordinati, puliti meticolosi, ogni gesto è necessario… Dell’armata Brancaleone dei primi tempi non c’è più traccia: questi sono soldati veri.
Si mangia kasha, come ieri, come domani, come sempre. Cambia solo il condimento.
Dopo cena quattro di loro si ritirano in un angolo ed iniziano a giocare a dorac, tradizionale gioco di carte russo mentre il comandante Yuri s’intrattiene con noi.
Un quaderno, una penna, qualche parola facile d’inglese e tanta voglia di comunicare fanno il resto.
Il tempo passa lento scandito dal ticchettio di un orologio di Snoopy appeso alla parete, eredità tenera dei vecchi padroni di casa.
In sottofondo man mano che calano le tenebre la battaglia infuria alla faccia di chi è voltato altrove.
Le artiglierie rombano, le mitragliatrici pesanti ripetono il loro monotono ritornello.
E poi in lontananza, quasi impercettibile un doppio pum pum…. Noi si chiacchiera, di lato si gioca, dentro si dorme.
E poi due fischi veloci come un rapace in picchiata; striduli come unghie sulla lavagna; violenti come un treno superveloce lanciato a tutta forza su un muro di cemento.
Le teste si alzano, il tempo si ferma, il cervello reagisce… Giù ventre a terra nonostante la fotocamera che pende sul petto, nonostante il pavimento di cemento, nonostante non ci sia stato il tempo di capire.
Un fischio di tre secondi e poi un boato, un flash abbagliante ed infine una pioggia di detriti ovunque.
E poi a seguire un secondo, più forte più crudele più vicino…
Non c’è tempo, il bunker, una corsa, le scale…. Nessuno ha pensato. Una sorta di intelligenza collettiva ci ha condotti nel posto giusto… La luce è saltata, siamo al buio, si sgomita… Ci si conta… Ne mancano tre che sono ancora sopra.
Ancora un fischio ancora un boato, tutto trema. L’intonaco cade dal solaio come farina, il comandante corre all’ingresso ed urla verso la casa da dove provengono voci. Poi di nuovo quel maledetto fischio e di nuovo tutti a terra… Il comandante sempre vicino all’ingresso come a voler stare con i suoi soldati rimasti in casa… E poi di nuovo quelle grida e di nuovo quelle urla da sopra.
Nel bunker qualcuno si tappa le orecchie, qualcuno prega.
Altri due fischi altri due boati…
La morte viene dal cielo e ci cerca….
È ormai chiaro che la postazione sia stata localizzata e qualcuno ad un paio di km di distanza stia semplicemente aggiustando il tiro.
Poi dieci secondi di tregua un urlo del comandante e tre figure sbucano dalle tenebre e si lanciano nel bunker…
Sono frastornati: si toccano la testa, si accucciano in posizione fetale. È terribile.
Uno di loro è in evidente stato di shock: si chiama Mahoy ed è la seconda volta che subisce un bombardamento a pochi passi dalla sua postazione.
Gira la testa attorno guarda senza vedere, si tocca come se il corpo non fosse il suo… gli occhi di bambino cresciuto troppo in fretta cercano affetti impossibili al momento… Poi ancora fischi ed ancora botti… Sempre più distanti sempre meno minacciosi, segno che il pericolo si allontana come un uragano che corre altrove.
È il momento buono per correre dentro, prendere gli elmi, i giubbotti antiproiettile e le coperte.
La notte avanza e la temperatura scende.
Le zanzare non danno tregua, il fumo delle sigarette è peggio dei gas lacrimogeni.
Le facce si rasserenano.
Quella di Mahoy no… Lui continua a tenersi la testa e a voltarsi senza capire. (Verrà rimandanto a casa dopo due giorni n.d.a.).
Passano i secondi, minuti, le ore…
I suoni di sottofondo sono sempre gli stessi, ma i boati sono oramai distanti… L’uragano non c’è più. Il comandante esce, usciamo tutti. Lui fuma l’ennesima sigaretta. Impossibile non fumare al fronte.
Sospira e poi ordina di rientrare in casa.
Si controllano i danni: due finestre saltate, vetri ovunque, sacchi di sabbia caduti, intonaco sgretolato e crepe sui muri.
Il comandante dice di appoggiarci sui letti ma tenendo le orecchie ben aperte. Si dorme poco, si dorme male ma alla fine arriva l’alba.
Arriva il silenzio, buono per capire cosa sia successo.
Lo s’intuisce dai detriti che ricoprono l’atrio prima intonso e pulito; dal cancello dove si notano i frammenti di asfalto divelto; sul primo cratere a venti passi dalla casa; lo si capisce ancora meglio sul secondo cratere perfettamente in linea col precedente.
Il piccolo è di dimensioni normali come se ne vedono tanti soprattutto a Spartak…
Il secondo genera sgomento… Largo tre metri e profondo due ha generato un’onda d’urto che ha letteralmente divelto il muretto in cemento armato di fronte.
Le schegge sono ovunque: nel terreno, nell’asfalto, sui muri e nei cancelli di metallo.
Il primo cratere è stato generato da un pezzo da 122 mm; il secondo da un pezzo da 152 dell’esercito ucraino.
Poco più in là c’è una seconda baracca, per metà distrutta e per metà rimasta in piedi.
Nella metà in piedi dormiva un ufficiale rimasto miracolosamente illeso. C’è un buco nel terreno con dentro un Grad inesploso immerso come un lombrico in un terreno arato di fresco.
Si torna alla casa.
L’adrenalina è una droga potente e quello che è passato sembra non aver lasciato tracce se non nel ritmo accelerato del cuore.
Insistiamo per rimanere una seconda notte. Il comandante ci dice che la postazione non è più sicura perché localizzata. Insistiamo e la spuntiamo. Si resta.
L’80% percento della giornata scorre lenta, lentissima. Di fatto non scorre.
L’orologio di Snoopy ticchetta, le foglie del noce sulla soglia di casa stormiscono, il polline dei pioppi aleggia nell’aria come una strana neve estiva.
La cagnolina si affaccia alla porta con un cucciolo che pigola… La violenza della guerra e la loro tenerezza stridono al punto da far scendere le lacrime.
Di sera, a turno, i soldati iniziano la pulizia quotidiana delle loro armi… La matricola dei kalashnikov parla chiaro: 79, 84, 86… Quei fucili la sanno lunga ed ora sono finiti qui, a combattere una guerra fratricida.
La sera scende il nervosismo aumenta. Armi, zaini, giubbetti antiproiettile… tutto si accatasta nel bunker…. E poi ancora provviste, cuscini e coperte… Si teme il peggio, al limite anche lo sfondamento delle linee dell’esercito ucraino, evidentemente non troppo distante.
Come se per incanto qualcuno avesse dato il via, ricominciano i rumori della guerra. È un interruttore di morte che passa da on a off e viceversa ogni sera, ogni giorno. Il ritmo della morte è costante, inflessibile, tremendo.
Ora li sentiamo anche noi i boom boom lontani. Dopo un po’ ci si convive. Boati, lampi, detriti. Tutto diventa starordinariamente familiare.
Passano le ore nel bunker; si accendono fiamelle contro le zanzare a volte più fastidiose delle granate.
Il comandante chiede se il fumo delle sigarette dia fastidio. La sua ospitalità e premura sono imbarazzanti, soprattutto in questo contesto.
Alle 4 entriamo in casa e finalmente si dorme su un letto. Il sonno, come sempre, è una delle prime vittime della guerra.
Alle 10 passa una macchina militare; il tempo di salutare e ci preleva per riportarci a Donetsk.
Ci facciamo lasciare al parco Shcherbakova.
Sporchi, puzzolenti ci addentriamo nei viali verdi affollati dalla gente del sabato.
Qualcuno fa il bagno, qualcuno si tuffa dal ponte che attraversa il laghetto, le spose fanno le foto di rito, le coppiette camminano mano nella mano.
È surreale e incredibile.
Poche ore prime eravamo nell’inferno di un’abitazione abbandonata ed ora siamo nello splendore del sole estivo di un parco in un giorno di festa.
Incrociamo lo stupore della gente. Paradossalmente noi che veniamo dall'ipocrita Europa opulenta sembriamo alieni.
C’è una sorta di porta fantastica che collega due universi paralleli: quello della normalità e quello della follia. L’abisso è dietro l’angolo: basta passare da on a off e spegnere la luce. Ogni sera, ogni giorno.
(foto: Giorgio Bianchi)