Siria. Il ruolo chiave della Turchia per la soluzione del conflitto

(di Giampiero Venturi)
05/09/16

Nell’apparentemente inestricabile groviglio siriano, una cosa in queste ore appare certa: ogni evoluzione del quadro per mettere la parola fine a sei anni di guerra passerà attraverso il ruolo che la Turchia ha deciso di giocare.

Negli ultimi 60 giorni il dinamismo diplomatico di Ankara ha lasciato sul posto molti osservatori, in un mix di azzardi politici e calcoli cinici.

Facciamo il punto.

L’operazione Euphrate Shield era nel cassetto da due anni. Come già sostenuto nessun momento poteva essere più propizio per varcare la frontiera siriana. La scintilla è stata la presa della città di Manbij da parte delle milizie curde ai danni dello Stato Islamico. Manbij è 40 km dentro il territorio siriano e a circa 30 dalle sponde occidentali dell’Eufrate. Come centro importante del Governatorato di Aleppo, rappresentava un nodo strategico per il Califfato, arroccato ad Al Bab e ormai alle corde nelle provincie settentrionali della Siria. Lasciare l’offensiva ai curdi blanditi dall’Occidente, avrebbe significato accettare lo status quo di una regione intera praticamente autonoma a ridosso della propria frontiera: militarmente avrebbe dato accesso al link fra curdi siriani e miliziani del PKK loro cugini; sotto il profilo politico sarebbe stato la consacrazione del fallimento turco in Medio Oriente da dieci anni a questa parte.

Al centro delle polemiche per l’appoggio alle milizie jihadiste e accusata di chiudere un occhio (anzi due) sui rifornimenti che dal suo territorio raggiungevano l’ISIS, Ankara ha raggiunto il suo massimo isolamento internazionale in primavera. Tre i fattori chiave: i rapporti con Mosca, ai minimi storici dopo l’abbattimento del caccia russo di novembre; l’allontanamento da Israele, partner tradizionale nella regione; l’ostilità aperta dell’Egitto di Al Sisi, nemico giurato della Fratellanza Musulmana, sponsorizzata in primis proprio dal presidente turco Erdogan.

La sterzata d’estate della Turchia è nata dalla necessità di allentare lo strangolamento e fa parte di un preciso calcolo strategico.

A spiegarlo senza mezzi termini è il primo ministro Binali Yildirim, in un’intervista alla tv di Stato. 

Ankara, con una capacità tutta bizantina (!!!) di gestire le relazioni internazionali, ha dapprima chiarito la posizione con Mosca, presentandosi col cappello in mano e una lettera di scuse. Ha poi riallacciato le relazioni con Israele, indipendentemente dai desideri degli Stati uniti. Ha mandato poi segnali al Cairo per chiarire le opposte posizioni in Libia dove Egitto e Turchia si trovano su fronti contrapposti: l’Egitto appoggia la “ribelle” Tobruk; la Turchia è il grande fratello della fazione di Tripoli, riconosciuta anche dalla comunità internazionale. Altrettanto importanti sono state infine le dichiarazioni del governo turco di maggio, con cui si è sostenuta “l’inesistenza di problemi coi vicini”. Le dichiarazioni hanno fatto somma con quelle secondo cui il presidente Assad “è un interlocutore essenziale per uscire dalla crisi siriana…” rilasciate dallo stesso Yildirim. Per 5 anni la rimozione di Assad era stata un punto fermo nella gestione turca della crisi siriana. Perché tanta disponibilità?

Erdogan si è trovato costretto a fare di necessità virtù. Intenzionato ad alzare la posta con l’Occidente che tiene in pugno per il problema profughi e per il ruolo preminente nella NATO, si è affrettato a risolvere i problemi contingenti sul territorio. Consapevole che la politica di appoggio in sordina alle milizie islamiste in Siria ha creato più rogne di quanto ne abbia risolte, ha deciso di agire direttamente, prima che l’appoggio USA all’YPG agitasse l’unico vero grande spauracchio della Turchia: la nascita di una nazione curda.

L’abilità di Ankara è stato attaccare allo stesso tempo l’ISIS e le milizie curde dell’YPG, così da evitare una totale condanna internazionale. Le proteste ufficiali di Damasco per la violazione della propria sovranità fanno parte di un rituale diplomatico. Come sosteniamo da tempo su questa rubrica, Siria e Turchia erano destinate a dialogare di nuovo per risolvere i problemi comuni.

Il doppio o triplo gioco turco lascia intendere orizzonti in apparenza privi di certezze. In realtà la questione potrebbe essere più semplice di quanto sembri. Nelle prossime settimane potremmo aspettarci questo tipo di quadro:

  • la Turchia bonificherà direttamente la terra siriana compresa tra Aleppo e il fiume Eufrate. Probabile che l’esercito curdo continuerà ad occupare un cuscinetto di sicurezza previo accordo tacito con Damasco. I miliziani del redivivo Free Syrian Army che partecipano a Scudo sull’Eufrate saranno abbandonati al loro destino quando l’obiettivo turco (ridimensionamento dei curdi) sarà raggiunto. La questione a quel punto sarà un problema interno di Damasco;
  • i curdi verranno abbandonati da Washington, obbligata ad assecondare i disegni di Erdogan, dopo averne fallito il siluramento;
  • la ritirata del Califfato, ormai inutile a tutti, continuerà progressivamente verso sud.

Quanto alla guerra degli islamisti nel Governatorato di Idlib e alla battaglia di Aleppo, tutto dipenderà dall’appoggio che la Turchia continuerà a dare ai miliziani jihadisti e alla posizione dell’Iran, sponsor di Hezbollah e attivo indirettamente nell’area. Il portavoce del Ministero degli Esteri di Teheran Qassemi a questo proposito ha affermato che ”Ankara è tenuta a coordinarsi con i vicini per poter operare in Siria”. Se non sono prove di dialogo, quanto meno non sono dichiarazioni di guerra.

Stando così le cose, potremmo ipotizzare un futuro con una Siria senza più ISIS, ma con un cuscino di protezione turco lungo il confine centro orientale. Con Assad al potere in un Paese più piccolo, tutti sarebbero vincitori tranne i curdi del Rojava e gli USA. Su quest’ultimo punto però è lecito aspettarsi colpi di coda.

(foto: Türk Kara Kuvvetleri/Alalam)