Al di là della buona fede con cui possa essere stata messa in piedi l’Operazione Ippocrate, alcune riflessioni sembrano necessarie.
Proprio nel giorno dell’annuncio, viene confermata dalla Libia la notizia della conquista di tre importanti terminal petroliferi da parte delle forze fedeli al generale Haftar e al governo parallelo di Tobruk. Dopo Al Sedra e Ras Lanouf, i soldati della Cirenaica avrebbero messo in sicurezza il porto di Zouteitina, sottraendolo ai miliziani di guardia, contestualmente alleati del Governo di Tripoli e del suo leader Al Serraj.
Dal punto di vista militare la notizia dello strappo di Haftar non ha eco particolarmente vasta. Sotto il profilo economico e politico invece brucia moltissimo, perché mette a nudo la realtà sostanziale maturata in questi mesi di falsa pacificazione nazionale. Il Governo parallelo di Tobruk oggi controlla le infrastrutture più importanti del Paese, o comunque quelle che condizionano la possibile ripresa economica della Libia, la cui produzione di greggio complessiva è scesa a 200.000 barili al giorno (1,6 milioni ai tempi di Gheddafi).
Nonostante tutti i governi occidentali continuino a blandire Al Serraj come leader di un Governo di Unità Nazionale (il GNA riconosciuto dall’ONU), in Libia evidentemente succede tutt’altro. Fonti locali di Difesa Online, confermano quanto alcuni organi di stampa indipendenti annunciano di tanto in tanto nel torpore generale: il Governo di Al Serraj, oltre alla capitale e alle aree di Zuwarah e Sabratha a ovest, ha giurisdizione effettiva solo nell’area costiera compresa fra Misurata e Sirte, con soluzioni di continuità praticamente costanti. In sostanza meno di 300 km di costa per una profondità non calcolabile, vista la geografia del Paese.
Ma c’è di peggio. Alba Libica, la coalizione che sostiene il GNA a Tripoli, è una federazione di gruppi e sigle fra cui spiccano i miliziani di Misurata (dove prenderà corpo la nostra Operazione Ippocrate) e i Fratelli Musulmani, affiancati a loro volta da gruppi armati islamisti come i Martiri del 17 febbraio di Bengasi e la milizia di Tripoli. Tra di essi non va dimenticato Ansar Al Sharia, gruppo jihadista noto per la sua ideologia radicale.
È questa galassia di uomini e bande armate che esercita il vero potere sul territorio occidentale della Libia e che in cambio di una pace armata, permette ad Al Serraj di considerarsi rappresentante di meno di un terzo dell’intero Paese.
Oltre alla Tripolitania, più o meno sotto il GNA, la Libia conta altre tre macro aree: la Cirenaica in mano al generale Haftar, che governa dalla “mezzaluna petrolifera” della costa orientale fino all’oasi di Kufra, inferno sulla sabbia distante 1100 km da Bengasi; il Sud dove imperversano i redivivi Tubu, popolo transfrontaliero compreso fra Libia, Ciad e Niger; l’Ovest lungo i confini con la Tunisia, dove i Tuareg, liberi dai vincoli dell’era Gheddafi, hanno ripreso voce in capitolo.
Nel marasma s’insinua la “milizia del petrolio”, quella Petroleum Facilities Guard dell’enigmatico Ibrahim Jadhran, alleato ufficialmente del Governo di Unità Nazionale, ma a quanto pare non così potente (o affidabile) da impedire la conquista dei pozzi più importanti al generale Haftar.
La Libia dove stiamo sbarcando si presenta in sostanza come un Paese diviso su equilibri armati dove traffici di ogni genere continuano a prosperare senza ritegno. Oltre al petrolio, dove grazie alla guerra del 2011 Total, Exxon, BP si sono affiancate a ENI e Gazprom, tutto in Libia rientra in un tariffario: i migranti che vengono raccolti a sud; le armi che cambiano mano senza controllo; perfino i feriti da evacuare negli scontri armati…
Il dramma più grande è che a differenza di altri Paesi lacerati da guerre civili disastrose (Afghanistan e Bosnia su tutti), la radicalizzazione etnico religiosa lascia il posto ad alleanze di affari più vicine alla criminalità che alla politica. Lo stallo istituzionale libico appare irrisolvibile perché a tutti (Italia esclusa) conviene così.
Importante è non dirlo. Come sostenuto più volte, non serve tanto una Libia unita quanto far credere all’opinione pubblica che sia possibile. In questo contesto, arrivano i nostri.
(foto: AMN)
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