Con il referendum del 25 settembre i serbi della Bosnia Erzegovina si sono pronunciati in modo plebiscitario e inequivocabile: il 9 gennaio sarà festa nazionale, facendo memoria del giorno del 1992 in cui provarono a staccarsi da Sarajevo, lanciata ormai sulla strada dell'indipendenza dalla ex Jugoslavia. L'esito del voto torna a dare un peso ad una data con ogni probabilità più simbolica che foriera di effetti pratici a livello istituzionale. Le vere conseguenze politiche semmai, hanno riflesso a livello internazionale.
Andiamo per gradi.
La Bosnia, nazione incastrata nei secoli tra Asburgo e Ottomani, per decenni è stato il perno delle contraddizioni etnico-culturali della ex Jugoslavia. Sotto il bastone di Tito, nessuno sapeva. Tolto il coperchio, la terza delle guerre jugoslave ha eletto proprio la Bosnia Erzegovina a teatro del più grande massacro avvenuto in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Come abbiamo già scritto nel nostro reportage (vedi in basso), gli accordi di Dayton del ’95 hanno messo solo una toppa ad una veste le cui cuciture di fondo sono fradicie da sempre.
Viviamo nell’epoca del politicamente corretto e non c’è niente di più disagevole che raccontare le cose per quelle che sono. In pochi riconoscono che la Bosnia Erzegovina è una nazione inventata e la divisione a macchia di leopardo delle etnie connotate da profonde radici culturali, religiose e linguistiche ha sempre impedito un disegno pacifico e definitivo di confini e aree d’influenza.
Una delle soluzioni più naturali emerse sul campo nella fase più cruenta della guerra civile: nell’autunno del ’93, mentre serbi, musulmani e croati si scannavano in un tutto contro tutti, Belgrado e Zagabria provarono a parlarsi per mettere fine alla mattanza e spartirsi due dei tre lembi della ex repubblica jugoslava di Bosnia: i croati della Herceg Bosna con la Croazia; i serbi della Srpska Republika con la Serbia (allora ancora formalmente Jugoslavia col rimanente Montenegro). Il terzo lembo, corrispondente più o meno ad una fetta di terra centrale di cui era parte Sarajevo, avrebbe costituito una repubblica a sé, patria dei bosgnacchi musulmani eredi della presenza turca nei Balcani.
Ufficialmente fu la distribuzione etnica non omogenea delle tre etnie a far fallire l’idea. Il piano di pace Owen-Stoltenberg, che più di tutti si avvicinava al progetto e che prevedeva anche trasferimenti di intere comunità, naufragò di conseguenza.
In realtà, più che la distribuzione “balcanizzata” delle etnie, poté la volontà della comunità internazionale che si oppose fortemente alla creazione di tre mini Stati e ancor di più all’annessione di parti di Bosnia a Croazia e Serbia. A Bruxelles e Washington serviva una Bosnia apparentemente unita da poter integrare in un futuro non troppo remoto alle nuove realtà istituzionali allora nascenti. La parola d’ordine di quei giorni fu “fermare i nazionalismi” in modo da ridurre gli ostacoli per un’omogeneizzazione europea già concepita con gli accordi di Maastricht, maturati a ridosso di quelli Dayton.
Dalla dissoluzione della Jugoslavia non dovevano nascere potenze, per regionali che fossero. Sembra un ossimoro, ma dietro l’unità apparente della Bosnia nascente si nascondeva l’idea di un Divide et impera immaginato proprio da Comunità Europea (così si chiamava) e USA. Anche se a tutto il 2016 il cammino d’ingresso di Sarajevo nella UE appare lunghissimo, all’epoca si crearono le basi per un futuro Stato debole e addomesticabile ad interessi geopolitici più grandi.
Che la guerra e i massacri dovessero finire ad ogni costo, viene da sé. Sotto questo profilo la pace nata a Dayton fu un bene assoluto. Fu viceversa un male fingere di non vedere: le frustrazioni nei Balcani hanno memoria più lunga che altrove.
Oggi le rogne tornano a galla. Il promotore del referendum serbo Dodik, dipinto dai media come un mostro anacronistico legato all’era Milosevic, non ha fatto altro che soffiare sulla cenere, sotto la quale cova un fuoco sempre vivo. La Bosnia è ufficialmente divisa in due entità politico-amministrative: la Federazione croato-musulmana e la Repubblica serba di Bosnia. Le due realtà substatali sono l’anticamera di una parcellizzazione del Paese sempre in agguato.
Le identità non si cancellano con un colpo di matita. È sufficiente girare la Bosnia in auto per rendersene conto. Soprattutto nei Balcani le culture crescono sui territori e i diktat di organismi sovranazionali non fanno presa.
Sovrapponendo una lettura geopolitica più ampia al problema della ex Jugoslavia, sembra che si faccia di tutto per tornare ai venti della guerra fredda. Giornali e tv governativi occidentali in queste ore un po’ nicchiano e un po’ si affrettano a fornire letture manichee scopiazzate dalle cronache di vent’anni fa.
La vittoria schiacciante dei sì al referendum sull’identità serba, dovrebbe spingere a riflettere, non ad agitare spauracchi.
(foto: autore)
Leggi anche il reportage dalla Bosnia diviso in tre parti:
I Balcani e la cattiva coscienza cap.1