Nella storia presidenziale degli Stati Uniti d’America è sempre stata buona prassi considerare il periodo che intercorre dalle elezioni di novembre all’insediamento del nuovo Presidente, come un periodo di interregno. Una sorta di vacatio legis dove l’uomo forte uscente evita di prendere decisioni importanti, tese a complicare la strada del prossimo inquilino della Casa Bianca.
È una tradizione non scritta dettata soprattutto dal buon senso. Anche quando il passaggio di consegne non comporta un cambio di colore politico (negli ultimi 50 anni è accaduto solo tra Reagan e Bush padre), l’inizio dei lavori per il nuovo Presidente è sempre difficile, se non altro per il periodo di rodaggio necessario alla nuova squadra per entrare in confidenza con i nuovi superpoteri. Rendere le cose ancora più difficili sarebbe una caduta di stile e un atto irresponsabile verso la stabilità e la sicurezza nazionale.
Barak Obama, indicato anche in campo democratico come uno tra i peggiori presidenti di sempre in politica estera, ha rotto questa tradizione, rendendo più amara un’uscita di scena già di per sé tutt’altro che trionfale.
Come tutti i presidenti con doppio mandato, Obama non ha mai perso nei confronti elettorali: lo sta facendo però sul piano del comportamento e fatto ancor più grave, sotto il profilo dei contenuti. A pochi giorni dall’addio alla Casa Bianca compie un atto apertamente ostile a livello diplomatico, espellendo 35 funzionari russi con la gravissima accusa di compiere atti di spionaggio, mascherati dallo status di diplomatico.
La prova di forza, ennesima di un mandato poco coerente col Premio Nobel per la Pace assegnatogli preventivamente, ufficialmente serve a mettere in guardia popolo americano, Congresso e nuovo staff presidenziale sulle minacce che derivano dalle interferenze russe nella politica interna americana. In sostanza Obama accusa apertamente Mosca di aver avuto un ruolo non secondario nella vittoria di Trump l’8 novembre e qualcuno del suo entourage arriva a definire il nuovo Presidente addirittura come un uomo del Cremlino.
Nella realtà sono in molti a leggere nella mossa di Obama un colpo basso diretto a Trump che già in campagna elettorale aveva reso pubblica l'intenzione di cambiare rotta ai rapporti con Mosca, inaugurando un periodo di potenziale collaborazione.
La nuova dose di veleno gettata nelle relazioni bilaterali va a sommarsi alle pesanti eredità lasciate da Obama (e dalle amministrazioni precedenti…) e con ogni probabilità aumenta la pendenza del percorso che il tycoon neworchese affronterà nelle prime settimane di carica.
Per ora il Cremlino risponde con sarcasmo, inviando gli auguri e astenendosi da ritorsioni immediate. Come l’amore, la guerra si fa in due (almeno): la nuova Guerra fredda, tanto auspicata dagli ambienti vicini alla Clinton, probabilmente quindi non ci sarà, almeno nella misura in cui Trump terrà fede ai programmi elettorali.
Obama, con un briciolo di stile e di ironia in più, avrebbe potuto evitare di alzare polvere. Se fosse vero che Mosca ha messo il naso sulle elezioni americane, avrebbe potuto semplicemente far cuocere Trump e i filorussi nel proprio brodo, lasciando che arrivassero i frutti di tanta discussa semina. L’atto isterico di espulsione dei diplomatici russi invece non ha un rilievo pratico particolare perché probabilmente non avrà seguito. In sostanza non aiuta nessuno: né la sicurezza USA, né quella globale, né tantomeno il prestigio e il ricordo di un mandato presidenziale mediocre.
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