La guerra yemenita diventa ogni giorno più crudele. Secondo l’allarme della Croce Rossa, dal 27 aprile ad oggi, sarebbero 115 i morti accertati per colera e circa 8500 i casi registrati negli ospedali (quelli rimasti) del Paese. L’emergenza umanitaria seguita all’invasione della Coalizione a guida saudita del 2015, sarebbe ormai fuori controllo.
Com’è prassi, i media occidentali non riportano notizie dallo Yemen, ma nella parte sud della Penisola arabica la guerra continua in modo sporco.
Per due anni, su questa rubrica, abbiamo scandito i rovesci militari sauditi e dei loro alleati e la situazione d’impasse che ne è scaturita. A questo si aggiunge la rottura del fronte sunnita che vede milizie ex alleate contro i ribelli houthi, combattersi tra loro (leggi articolo).
Per uscire dal “Vietnam” arabo in cui si sono cacciati, i sauditi stanno considerando da mesi l’idea di prendere lo Yemen occidentale per fame.
Tutti i rifornimenti alimentari e materiali dei ribelli passano dal porto di Hudaydah, roccaforte houthi a metà strada tra il confine saudita e l’imbocco meridionale del Mar Rosso. Già prima della guerra, il 70% delle importazioni yemenite transitavano dall’importante scalo marittimo, da cui oggi passano anche gli aiuti militari iraniani alla causa sciita.
Il porto di Hudaydah è divenuto fondamentale da quando Mocha, situata 180 km più a sud, è stata occupata dalle milizie al-Ḥirāk al-Janūbiyy, alleate della Coalizione sunnita. La sua caduta nelle mani della Coalizione ridurrebbe alla fame la capitale Sana’a e l’intero Yemen occidentale. Milioni di persone precipiterebbero in un’emergenza umanitaria apocalittica. L’allarme arriva anche all’ONU che sul disastro yemenita rimane però difficile da scuotere.
Un attacco massiccio per occupare la città sarebbe previsto dallo stato maggiore della Coalizione già da tempo. Fonti yemenite parlano di due brigate dell’Esercito Nazionale, fedele al sunnita Hadi, schierate nell’area di Mocha e di almeno una brigata corazzata saudita pronta dalla frontiera a nord.
Mentre continua l’accanimento aereo su Hudaydah (che conta mezzo milione di abitanti), l’attacco di terra però viene costantemente rinviato.
Viene da chiedersi: i sauditi sono in grado di prendere Hudaydah?
La risposta è no.
Sulle difficoltà militari di Riad nello Yemen abbiamo già parlato in abbondanza. L’immagine di una tigre di carta i cui depositi traboccano di armi sofisticate senza sufficiente personale addestrato ad usarle è già ampiamente condivisa.
Il punto si sposta allora sul piano politico. La pressione saudita sulla nuova amministrazione americana per un maggior coinvolgimento USA nello Yemen è iniziato dal giorno dell’insediamento di Trump. Nonostante Riad avesse puntato sugli ottimi rapporti con lo staff di Hillary Clinton, la posizione che il presidente americano ha assunto nei confronti dell’Iran ha alimentato le speranze di Riad.
Ispirato da Tel Aviv, Trump avrebbe mosso le carte in tutto il Medio Oriente (in particolare in Siria), proprio per arginare quella che viene apertamente ritenuta “la minaccia iraniana”.
Musiche per le orecchie saudite che hanno iniziato ad attendere frutti anche sul fronte yemenita. Per il momento la Casa Bianca ha sbloccato 350 milioni di dollari di commesse militari. Vedremo cosa si aggiungerà dopo il giro di visite di Trump nel Golfo di questi giorni…
“Cosa fare nello Yemen” è stato all’ordine del giorno di una riunione degli stati maggiori riuniti USA il 22 marzo (Chicago Tribune, 26 marzo).
Il Segretario alla Difesa Mattis ha nicchiato sull’impiego di forze di terra, ma ha ribadito un più ampio coinvolgimento americano nell’area con delega decisionale lasciata al comandante regionale (generale Votel capo del CENTCOM, competente per il Medio Oriente).
Si tratta solo dell’inizio. Un’esplicita richiesta degli Emirati Arabi Uniti (apprezzata da Mattis), vorrebbe che il tanto atteso attacco a Hudaydah fosse appoggiato da navi della Quinta Flotta che garantirebbero l’appoggio aereo e il bombardamento dal mare delle postazioni houthi. Nel piano si parla anche di operazioni speciali di terra, necessarie alla fornitura di coordinate e dati essenziali agli alleati della Coalizione araba.
Il ruolo americano nell’area in questo caso slitterebbe dalla sbandierata guerra al terrorismo di AQAP (Al Qaeda nella Penisola Araba) ad un attacco diretto contro le milizie houthi e di fatto ad un ingresso nella guerra civile.
Non sarebbe un debutto. Il 13 ottobre la US Navy ha risposto a un presunto attacco missilistico, bombardando postazioni radar ribelli sulla costa del Mar Rosso. Il dibattito interno al Pentagono circa un’escalation è acceso: tutto dipende dal rapporto di forza al Congresso tra il partito antiiraniano e quello non-interventista.
La conferma che gli Stati Uniti hanno già boots on the ground nello Yemen era venuta il 28 gennaio quando un Seal dello United States Naval Special Warfare Development Group era stato ucciso (e altri tre feriti) durante un raid ad Al Baida, ufficialmente per neutralizzare una cellula di Al Qaeda.
Il Pentagono aveva commentato i fatti parlando di decine di attacchi aerei condotti con caccia e droni per colpire la crescente minaccia terroristica nello Yemen.
Sul ruolo di Al Qaeda nella Penisola Arabica si potrebbe argomentare a lungo. I terroristi di AQAP (responsabili degli attacchi a Parigi…) sono indirettamente inseriti nella grande coalizione sunnita che combatte i miliziani houthi. Anche se l’Arabia Saudita prende le distanze, in realtà ne condivide gli stessi obiettivi militari.
Il no sense di Washington nello Yemen è proprio questo: perché combattere Al Qaeda quando in realtà si cerca di neutralizzarne i nemici?
Alla luce dei piani arabi per attaccare la roccaforte houthi Hudaydah, come s’inserisce la guerra ad Al Qaeda?
La presenza di AQAP nel Paese arabo è aumentata di pari passo con la perdita di presa sul territorio del governo Hadi. I raid di droni americani si sono moltiplicati nelle ultime settimane e il coinvolgimento USA è entrato in spirale.
Che tutto questo sia il preludio ad un intervento diretto teso a “stabilizzare il Paese” è una voce che a Washington corre da quando si è insediato Trump. Il problema è capire contro chi andrebbero a combattere gli americani. I ribelli houthi come richiesto da Riad e Abu Dhabi o Al Qaeda di cui gli sciiti filoiraniani sono nemici?
Nell’aprile 2016, la nave d’assalto anfibia USS Boxer aveva rilasciato nello Yemen il Fighting 13th, la 13a Unità di Spedizione dei Marines. Secondo quanto detto dal Pentagono, l’unità aveva lo scopo di assicurare “airborne intelligence, reconnaissance, advice and assistance with operational planning, maritime interdiction and security operations”.
L’agenzia di stampa governativa saudita aveva citato lo stesso episodio parlando di “forze saudite e degli Emirati, affiancate dal contingente di terra americano, impegnate in operazioni contro Al Qaeda”.
La realtà supera le analisi: le forze di terra USA nello Yemen esistono da più di un anno e hanno accesso “in and out” nel Paese per compiere azioni militari. L’ingresso non avviene solo dal mare ma anche dal grande serbatoio di sabbia che è l’Arabia Saudita, dove la presenza militare americana conta ben 12 basi. Per fare un esempio, Khamis Mushayt della US Air Force dista 70 km dal confine con lo Yemen…
Al grande andirivieni nella penisola arabica si sommano i mercenari arruolati a centinaia con la mediazione USA per una vera e propria guerra delegata. Secondo il New York Times (novembre 2015) già due anni fa erano 450 i soldati di ventura provenienti da reparti speciali colombiani, honduregni, cileni, panamensi e messicani, arruolati da Erik Prince (fondatore di Blackwater) e spediti via Emirati a combattere nello Yemen. L’addestramento, curato dagli USA al tempo dell’impiego in patria contro le FARC o contro i narcos, era una credenziale perfetta.
Contro gli houthi, al fianco della Coalizione araba c’è una vera e propria armata internazionale. Da marzo 2017 è stato previsto anche il dispiegamento di soldati pakistani in appoggio alla Guardia Nazionale saudita…
Mentre lo Yemen s’infiamma in logiche tribali secolari, gli USA parlano di maggiore coinvolgimento. Sul loro effettivo ruolo e sul futuro prossimo dell'area, il dibattito è aperto.
(foto: PressTV - US DoD)