Guerra nelle Filippine. L'estremismo islamico avanza ma i media occidentali se la prendono con Duterte

(di Giampiero Venturi)
30/05/17

L'isola di Mindanao è per tradizione l’isola “diversa” della Repubblica delle Filippine e per evidenza il tallone d’Achille della sua stabilità. Grande un terzo dell’Italia e tra le dieci isole più popolose del mondo, è da decenni il covo del separatismo islamico e dell’opposizione alla supremazia cristiano-cattolica di Manila.

L’attacco all’unità del Paese e alle sue radici è più forte nella Regione Autonoma del Mindanao Musulmano, territorio speciale di 5 province a cui si aggiunge la città autonoma di Marawi. La storia dell’attrito è lunga ma le evoluzioni recenti meritano un’attenzione particolare.

La galassia delle milizie islamiche filippine ha ruotato fin dagli anni ‘70 intorno al Fronte di Liberazione Islamico Moro ma nell’ultimo ventennio è rimasta attratta dai metodi più spiccioli di Abu Sayyaf, milizia operativa dal ‘91 e intenzionata ad allargare la pressione islamista a tutto il Sudest asiatico.

L’arrivo nel 2013 del gruppo Maute (scissionista dal Fronte Islamico impegnato in colloqui col governo) e la sua scelta successiva di affiliarsi all'ISIS, ha ufficialmente trasformato la jihad filippina da focolaio locale a problema internazionale. Messo alle corde in Medio Oriente, lo Stato Islamico appare dunque ancora capace di proiettare fascino e rigenerare il progetto fondamentalista in altre parti del mondo, tra cui sembra spiccare proprio l’Asia. 

Agli attacchi sistematici ma circoscritti contro le forze armate e la polizia, sono seguiti atti di vera e propria insorgenza militare sfociata il 23 maggio in guerra aperta.

500 miliziani islamisti hanno occupato Marawi, città di 200.000 abitanti, a cui è seguita la reazione dei militari di Manila. 

A Mindanao lo schiermento di forze filippine è imponente: oltre alle 1a, 4a, 6a e 10a Divisione di fanteria dell’esercito (tutte impegnate contro la guerriglia separatista nell’isola) vanno considerate le forze speciali tra cui il 1° Reggimento, il Light Reaction Regiment e i Rangers, tutti derivazione della Delta Force USA e coordinati direttamente dal Comando Operazioni Speciali di Manila. A questi si aggiungono i ”seals” della marina filippina e il 710° Squadrone Operazioni Speciali delle forze aeree. 

Lo sforzo è immenso e si è concretizzato negli ultimi giorni in un intervento accompagnato da bombardamenti aerei e da operazioni mirate condotte con elicotteri.

Le notizie che Reuters rimbalza in queste ore da quotidiani locali, parlano di recupero dell’80% della città da parte dei governativi grazie ad un’operazione di rastrellamento che ha portato alla luce esecuzioni di civili e violenze inenarrabili da parte dei miliziani islamici. Gli scontri sarebbero tuttavia ancora in corso.

Mindanao non è solo importante per l'unità della Repubblica delle Filippine ma è strategica per tutto il Sudest asiatico. La presenza di combattenti stranieri è già stata segnalata tra i miliziani integralisti filippini e l'insorgenza islamista appare in evidente progressione in tutta la regione: Malesia, Brunei, Indonesia (più grande paese islamico al mondo) Singapore, Tailandia sono interessati al fenomeno e rischiano di divenire parte di un dinamismo integralista continentale. Fondamentalismo e jihad hanno già trasformato il subcontinente indiano (Bangladesh), l’Asia centrale (Uzbekistan, Kirghizistan) e la Cina occidentale (Xinjiang) in serbatoi di reclutamento per il terrorismo internazionale islamico. L'apertura di ulteriori fronti potrebbe innescare una spirale incontrollabile, soprattutto alla luce del fatto che il Sudest asiatico è caratterizzato da un'enorme pressione demografica e da infiniti disagi sociali.

L'Islam radicale è un pericolo quindi per l'Asia sudorientale? 

La risposta è sì, ma ovviamente in Occidente le preoccupazioni sono altre.

Anziché puntare i riflettori sulle esecuzioni di massa, sulle violenze e sulle prospettive legate all'avanzata islamista, i media occidentali preferiscono soffermarsi sulle pesanti dichiarazioni del presidente filippino Duterte e sui suoi metodi da sceriffo.

Dopo aver criticato la sua richiesta di prolungamento della Legge Marziale, necessaria per le operazioni di controguerriglia a Mindanao, i media (anche gli italiani, nessuno escluso) si sono soffermati sulle parole sessiste di Duterte, che in un discorso ai soldati avrebbe "incitato” allo stupro.

Nell’occhio del ciclone mediatico fin dal suo insediamento, a Duterte viene perfino imputata la guerra al traffico di droga, ambito nel quale ha ottenuto finora risultati macroscopici, seppur con metodi violenti. Amnesty e Human right Watch, rimbalzati da La Repubblica (4 marzo, nda), parlano senza mezzi termini di guerra finta, usata come scusa per uccidere i poveri e instaurare una dittatura.

Nemico del politically correct e noto per il suo stile bellicoso (leggi articolo) e indiscutibilmente provocatorio, Duterte non piace al bon ton politico dell’Occidente. Per quanto criticabile sotto molto aspetti, relativamente all’Islam radicale sta però fronteggiando da solo una sfida che riguarda l'Occidente più di quanto la geografia non dica. Le sue proposte di sforzo congiunto fatte ai separatisti non jihadisti e ai guerriglieri comunisti dell'NPA (nemico storico di Manila), lasciano spunti per più di una riflessione. 

Mentre l’Asia estrema s’infiamma, l’unico contributo occidentale sembra essere per ora una campagna di scredito sistematico, la cui utilità pratica nel contesto del radicalismo islamico attuale appare quanto meno discutibile.

(foto: AFP)