Altro che lotta ai populismi, c'è bisogno di ripensare capitalismo e globalizzazione

(di Cesare Chiari)
21/03/17

Ultimamente, sui principali media, va di gran moda etichettare sbrigativamente con il termine “populismo” (inteso nell'accezione negativa di “atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi”1 ) qualsivoglia idea, proposta politica o avvenimento o che si permetta di mettere in dubbio l'efficacia del sistema globale di governance e di relazioni internazionali che, nella mente della maggior parte degli opinion leader e opinion maker viene ritenuto un punto fermo ed irreversibile.

Non passa giorno senza che si leggano articoli di fondo, analisi politico-economiche, notizie (spesso non verificate adeguatamente se non addirittura infondate) o semplici “pettegolezzi” che attaccano e cercano di delegittimare “a prescindere” tutti quei movimenti politici internazionali ed europei (di ispirazione nazionalista, socialista o di pura protesta che siano) critici verso la deriva assunta dall'attuale sistema politico ed economico-finanziario globale.

Accanto ad essi, da qualche mese vi sono però anche altri due “nemici” del nuovo ordine mondiale che devono essere distrutti: parliamo delle discusse ed ingombranti figure del tycoon Trump e dello “zar” Putin che, tuttavia, sono anche i Presidenti in carica degli Stati Uniti e della Federazione Russa.

Comprendo che la “nuova” sorpresa psicologica subita dopo quella dell'11 settembre da una certa “aristocrazia intellettuale” poco avvezza a tastare il polso delle masse possa aver creato per la seconda volta in un quindicennio una frustrazione allagante per non essere stati in grado di analizzare, comprendere e prevenire le nuove istanze che ormai da più parti mettono in discussione il nuovo ordine mondiale capitalistico post-bipolare che le élite politico-economico-finanziarie stavano faticosamente cercando di perfezionare.

Intendiamoci bene: la globalizzazione in sé non è né buona, né cattiva. È “buona” quando induce la crescita, sprona la libera concorrenza, supera gli egoismi e i particolarismi, Allo stesso modo, diviene “cattiva” quando appiattisce senza tener conto di culture e istanze particolari, esclude i più deboli dalla concorrenza, aumenta il divario tra ricchi e poveri e favorisce l'aumento indiscriminato di flussi migratori riducendo il senso di sicurezza.

Come sempre, nel dibattito e nella valutazione, è questione di saper distinguere tra “strumenti”, “modi” e “fini”.

Purtroppo ultimamente ciò che viene messo in discussione sono i modi di utilizzare la globalizzazione e le finalità che vengono perseguite tramite l'attuale sistema politico, economico e finanziario: essenzialmente l'ottenimento del profitto da parte di chi ha accesso e “conta” nel sistema globale e non, come dovrebbe essere, per garantire a tutti l'accessibilità di beni e servizi una volta indisponibili, per migliorare il benessere generale sul pianeta e per vivere in pace eliminando le possibili fonti di contrasti sul Pianeta.

Tornando all'atteggiamento degli opinion maker, sarebbe auspicabile che, almeno ora, avendo constatato la “frittata fatta” dall'attuale “sistema delle relazioni globalizzato” che ha coperto e agevolato il “potere e il profitto di pochi” spacciato come “interesse di molti”, questi “censori” al servizio dei media di proprietà dei grandi gruppi oligarchici si sforzassero di compiere un minimo di autocritica.

In pratica, si tratterebbe di recedere dall'attuale visione manichea cercando di atterrare, dall'iperuranio degli ideali universalistici astratti (ma asserviti agli interessi finanziari), nel campo della politica reale; terreno dove si deve tener conto, oltre che dei pareri e degli interessi delle Banche Centrali e dei colossi economico-finanziari, anche delle istanze provenienti dalle masse popolari.

Piuttosto che continuare a recitare il mantra della ineluttabilità della globalizzazione, si dovrebbe ammettere che questo modo di intendere la globalizzazione ha prodotto una sempre maggior forbice tra la piccola comunità dei più ricchi e le enormi e crescenti sacche di nuovi poveri. E tutti coloro che ricoprono il ruolo e hanno la responsabilità di influenzare le opinioni pubbliche dovrebbero mettere seriamente in gioco le proprie migliori qualità ed energie intellettuali per suggerire ai decisori una cura per questa "crisi del capitalismo globale" che, a partire dal 2008, non è stata ancora superata e, anzi, si ripropone ad ondate minacciando di porre fine al sistema capitalistico globalizzato come noi lo conosciamo.

Una lucida analisi di James Petras2 , argomenta non senza valide ragioni che, progressivamente, le "crisi del capitalismo" si sono trasformate in sole "crisi per i lavoratori". Vale a dire che a farne le spese sono sempre i più deboli.

Ma invece che curare la malattia, ci si ostina a maledirne i sintomi, come quello della recente inaspettata “Brexit” che tanto ha scosso i sonni tranquilli dell'establishment politico-finanziario europeo.

Se si guardasse più in profondità, invece, oltre che al caso eclatante del salvataggio della Grecia, ci si accorgerebbe per tempo degli smottamenti silenziosi provocati dal dissesto dell'attuale “sistema capitalistico globalizzato” indotto a sua volta da un modo selvaggio di privatizzare e creare profitto.

Uno di questi smottamenti “silenziosi” del sistema è stato, ad esempio, il caso della nazionalizzazione delle banche in Islanda, avvenuto in parallelo all'avvio di un processo di democrazia diretta e partecipata e definito da alcuni una vera e propria “rivoluzione silenziosa3 ”. In tal modo gli islandesi si sono riappropriati dei propri diritti e hanno riscritto una nuova Costituzione nonostante gli interessi economici contrari di Inghilterra e Olanda e “in barba” alle pressioni dell'intero sistema finanziario internazionale. Praticamente in quasi tutti i Paesi Europei sono in atto pericolose spinte centrifughe che non possono essere analizzate e liquidate con la categoria dei odiati “populismi”.

E, anche negli Stati Uniti le profonde crisi del biennio 2008-2009 hanno provocato ampio dibattito sulla validità del sistema capitalistico globale concepito senza i contrappesi di adeguate politiche di redistribuzione e sostegno per i più deboli. Dibattito che ha portato alla vittoria del discusso Presidente Trump nella recente tornata di libere elezioni.

Nonostante tutte le avvisaglie, le classi dirigenti dei vari sistemi economici e di governo e, purtroppo, anche gli organi di informazione continuano a non prestare la giusta attenzione alle possibili cure da praticare a questo “gigante malato”.

In tal modo, progressivamente, all'interno dei vari Stati si è approfondito il solco tra il capitalismo e il welfare sociale, tra le prese di decisioni dei governi e i loro elettori.

Per coloro che cavalcano l'onda del malcontento dell'elettorato, è dunque gioco facile sostenere la tesi demagogica che le democrazie occidentali sono state sostituite da governi fantoccio posti sotto il controllo delle grandi lobby economico-finanziarie nelle cui casse i politici conniventi con i banchieri travasano le ricchezze pubbliche nelle casse private della finanza aumentando il divario tra la classe ricca e le masse di “nuovi poveri”4.

In effetti, non si può non ammettere che l'attuale sistema capitalistico, come si è evoluto nel corso dell'ultimo decennio si pone all'opposto degli obiettivi di uguaglianza sociale, espansione della democrazia e raggiungimento del benessere collettivo che erano stati auspicati con l'instaurazione della globalizzazione.

Peraltro, come sta dimostrando l'incremento del numero di attacchi terroristici di matrice islamista nel cuore dell'Europa, anche sul versante della sicurezza, questo modo di intendere capitalismo e globalizzazione sta fornendo alibi per la radicalizzazione di tipo islamista e il reclutamento di nuovi combattenti per il cosiddetto “jihad difensivo”5.

Le enormi e crescenti sacche di povertà ed emarginazione che abitano le periferie delle grandi e medie città europee, costituiscono purtroppo fertile humus per comportamenti anomici e, dunque, anche per la radicalizzazione.

Mentre ci si interroga sul grande dilemma del tipo di risposte più efficaci e ci si divide tra i fautori della linea dura (con annesse limitazioni delle libertà personali) e coloro che, invece, sostengono la validità di un percorso a più lungo termine basato su educazione culturale e ai valori di libertà, tolleranza e pacifica convivenza, si perde forse di vista la causa principale di tutto ciò.

Una siffatta idea di globalizzazione ha, peraltro, favorito anche l'instaurarsi, da parte degli elettorati (e a volte, anche dalle leadership politiche) di una crescente messa in discussione, sia in Europa, sia oltreoceano, dei comportamenti cooperativi che sino a poco tempo fa costituivano patrimonio culturale comune.

Certo, la risposta giusta non può essere quella dei movimenti ultra-nazionalisti e xenofobi; la soluzione non può essere sic et simpliciter quella di disimpegnarsi dall'Europa o di avviare politiche protezionistiche.

Sarà lo stesso sistema capitalistico globale, se non vorrà essere travolto a breve dal crescente malcontento in tutte le aree del globo, a dover gioco-forza trovare dei correttivi che garantiscono l'utilizzo per il benessere pubblico di una parte di quelle ricchezze che attualmente finiscono in mani private.

Le banche centrali, anche non necessariamente nazionalizzate, invece che agire in modo spesso autoreferenziale o nell'interesse dei grandi gruppi, dovranno finalmente cominciare ad operare al servizio della politica; agire, cioè, per la realizzazione di politiche di benessere sociale e di sviluppo delle Comunità o dei singoli Stati, piuttosto che per salvaguardare il profitto di pochi.

Le istituzioni finanziarie, insomma, dovrebbero essere ripensate quali strumenti per creare occupazione produttiva, per contribuire al benessere sociale e per rispettare e preservare l'ambiente.

In questo quadro, gli opinion maker, invece che continuare a riempire le pagine dei quotidiani e i blog facendosi beffe dei provvedimenti dell'Amministrazione Trump, demonizzando Putin o intonando inni vittoriosi per la mancata vittoria in Olanda del Partito di destra anti-Ue di Wilders e per la scampata NEXIT, renderebbero un servizio migliore alla comunità se animassero un fecondo dibattito sul modo di ripensare il capitalismo e la globalizzazione al servizio dell'uomo.

 

Note:

1. Cfr. la voce su Vocabolario Treccani online

2. Nato a Boston nel 1937 da genitori greci emigrati dall'isola di Lesbos, è professore emerito a riposo per la cattedra di sociologia presso l'università di Binghamton, New York e professore aggiunto alla Saint Mary's University, Halifax, Nuova Scozia, Canada.

3. Cfr. la voce “Rivoluzione silenziosa” su Enciclopedia Treccani online.

4. Secondo un articolo del Financial Time (vds. 9 gennaio 2012 a Pag.5) in America “le disuguaglianze tra il vertice dell'1% e i sottostanti del 99% hanno raggiunto proporzioni record. Gli amministratori delegati delle società guadagnano 325 volte il salario di un lavoratore medio”.

5. Cfr. il saggio “La Francia e la minaccia del terrorismo islamista combattente. Politici, intellettuali e operatori s’interrogano”, Elisa Pelizzari, 2017

(foto: Difesa)