La situazione in Iraq a pochi giorni dall’uccisione di Qassem Soleimani sembrerebbe evolvere in direzione sfavorevole agli USA.
In Iraq, la reazione popolare a un atto (percepito come violazione della sovranità nazionale) sembra aver rinforzato il legame di vaste frange della popolazione irachena (peraltro per due terzi di confessione sciita) con Teheran. Legame che fino a pochi giorni molti fa contestavano come “ingerenza”, ma che oggi non si sentono più di criticare apertamente.
In Iran, sembra che l’uccisione di un iraniano (per di più eroe nazionale) da parte di una potenza straniera considerata da molti “imperialista” e “crociata” abbia avuto come primo effetto proprio il ricompattamento intorno al potere governativo (potere che recentemente era stato minato dalla crisi economica del paese e da proteste scatenate dal rialzo del prezzo del carburante e soppresse nel sangue).
Il parlamento iracheno ha chiesto all’unanimità il ritiro delle forze straniere dal territorio (intendendo, ovviamente, solo quelle della coalizione anti-ISIS, a guida USA, e della NATO, forza che in Iraq è anch’essa di fatto a guida USA). Il fatto che alla votazione abbiano partecipato solo poco più della metà dei parlamentari, peraltro solo quelli di fede sciita e che la decisione del parlamento non sia di per sé formalmente vincolante (richiedendo poi che il governo compia i necessari passi diplomatici verso USA e NATO) è poco rilevante. È il segnale politico che conta!
Dal 5 gennaio i soldati della coalizione anti-ISIS e della NATO non sono più benvenuti e sono ufficialmente “forze d’occupazione”, con tutto ciò che questo comporta per la loro sicurezza, per la loro legittimità internazionale (della quale gli USA possono fregarsene ma non molti alleati europei, Germania ed Italia in primis) e per la stessa possibilità di assolvere al proprio mandato.
Per contro, è chiaro che l’aiuto per contrastare recrudescenze del terrorismo islamista sunnita potrebbe tranquillamente essere chiesto dal Governo di Baghdad ad Iran e Russia, consentendo, anche a livello militare, un consolidarsi del controllo di Teheran (e Mosca) dall’Iran fino al Mediterraneo lungo una “mezzaluna sciita” che abbraccia Iran, Iraq, Siria e Libano.
Come prevedibile, l’Iran ha dichiarato che uscirà dall’accordo sul nucleare (JCPOA). Potrà quindi procedere più liberamente ed alla luce del sole anche in questo settore, da sempre individuato dagli USA come fattore di rischio geo-politico mondiale.
Le minacce contro gli interessi americani (non solo in Medio Oriente) non provengono oggi solo da Teheran, ma dall’intero mondo sciita. Minacce in relazione alle quali non deve essere sottovalutato il fattore “tempo”. Infatti, Trump deve fare in fretta e deve fornire alla propria pubblica opinione (sul fronte interno) e ai propri alleati (sul fronte internazionale) segnali di vittoria prima della campagna per la rielezione. Il regime di Teheran non è vincolato da tali scadenze immediate. D’altronde gli Ayatollah sono al potere da 40 anni e possono aspettare a colpire quando e dove faccia più male (magari solo pochi giorni prima delle prossime elezioni USA). Inoltre, la minaccia USA di colpire 52 siti iraniani (tra cui sembrerebbero esservi siti storici e religiosi islamici) potrebbe portare ad una reazione anti-americana da parte di tutto il mondo sciita (ad esempio in Afghanistan, dove vi è una consistente componente sciita) e forse di buona parte dell’intero mondo islamico anche non sciita.
Quindi… sta andando tutto male per gli USA? Ovvero, Trump ha agito d’impulso (pensando di essere un novello Schwarzenegger o un Bruce Willis che elimina i “cattivi” del mondo) e non ha calcolato le conseguenze di quanto intendeva fare? Oppure tale iniziativa è parte di un piano più vasto e articolato e, se sì, quale? Difficile dirlo.
Il modo imprevedibile del presidente americano di assumere iniziative anche sconvolgenti sul piano internazionale, il suo gusto per il rischio e per il colpo di scena spettacolare, l’esigenza di distrarre l’opinione pubblica interna offrendogli lo “scalpo di un nemico” in un momento politicamente difficile (ad esempio, la richiesta di impeachment, che comunque avrà pochissime possibilità di passare al senato) o in vista delle imminenti elezioni presidenziali: tutto ciò potrebbe far pensare a una decisione estemporanea e non sufficientemente meditata. Il fatto che Trump non si uso avvalersi del supporto concettuale dei propri collaboratori (o che li sostituisca senza remore ove non siano al 100% in linea con lui) avvalora la prima ipotesi.
Però, potrebbe esserci anche altro. Gli USA potrebbero aver agito per “fare un piacere” ad alcuni loro alleati nella regione che, per motivi diversi, non volevano né potevano esporsi direttamente (Israele e Arabia Saudita). Oppure potrebbe esservi un disegno ancora di più ampio respiro.
È evidente che, grazie anche agli errori e alla discontinuità della politica statunitense negli ultimi vent’anni, tutta la fascia che va dall’Iran al Mediterraneo è oggi poco stabile e decisamente in crisi. In tutta la regione (a parte in Israele) gli USA hanno perso gran parte dell’influenza che vi godevano precedentemente. Eliminato (proprio dagli USA!) il principale baluardo che contrastava l’espansionismo iraniano verso il Mediterraneo (Saddam), le milizie filo iraniane hanno assunto in Iraq, Siria e Libano un ruolo che travalica quello puramente militare e una credibilità (soprattutto il Libano e Siria) ormai difficilmente scalfibile.
La politica estera USA ha alternato, in un eterno yo-yo, atti di interventismo con dichiarazioni di ritiro dalla regione, sulla base di tempistiche dettate da scadenze elettorali domestiche più che da una visione geo-politica di lungo respiro. Ciò ha lasciato lo spazio alla Russia per imporsi quale vera superpotenza affidabile cui fare riferimento e a due potenze regionali, storicamente concorrenti ma oggi entrambe legate a Mosca (essenzialmente Iran e in misura minore la Turchia), di ampliare il proprio ruolo nella regione.
È ipotizzabile che, al solo fine di evitare un processo di normalizzazione in cui gli USA non avrebbero più un ruolo, Trump abbia deciso di far “saltare il tavolo” (destabilizzando ulteriormente la regione) per evitare il consolidarsi di un binomio Mosca - Teheran nel controllo della regione?
In questo contesto, anche il prevedibile ritiro iraniano dal JCPOA potrebbe inserirsi quale un tassello di un puzzle sapientemente preordinato a Washington (o a Langley). Infatti, nonostante gli sforzi da parte UE per tenerlo artificiosamente in vita, l’accordo era già di fatto morto, data l’uscita di Trump nel 2018 e l’imposizione di sanzioni economiche alle imprese che avessero continuato a fare affari con Teheran. Era scontato che a questo punto anche l’Iran denunciasse l’accordo. D’altronde questo è probabilmente ciò che i falchi USA hanno sempre voluto, in modo da poter giustificare azioni, anche militari e non solo commerciali, contro Teheran, che resta per molti americani il peggiore degli “stati canaglia”.
È vero che Soleimani era un pericolo ed era persona nota, oltre che per le indubbie capacità personali, anche e soprattutto per l’assoluta mancanza di scrupoli nel condurre la “sua” guerra contro l’Occidente. Sicuramente vi era lui (come braccio) dietro gli attacchi contro le petroliere nel Golfo e contro le infrastrutture energetiche saudite. Peraltro, la decisione politica risaliva più in alto. Infatti,Soleimani, per quanto agisse con grande autonomia, era un generale iraniano che poneva in atto le direttive che gli venivano da Teheran e in particolare dal presidente Hassan Rohuani. Il suo successore Esmaail Ghaani procederà sulla stessa linea di Soleimani, ma in maniera ancora più spregiudicata perchè “giustificato” da quello che l’Iran tutto (anche gli oppositori del regime degli Ayatollah) considera un “crimine imperialista yankee”.
Soleimani poteva essere eliminato, se si voleva in tanti modi. Era scontato che l’uccisione in maniera così eclatante di uno degli uomini più importanti del regime iraniano avrebbe di fatto obbligato Teheran a rispondere in maniera ancora più eclatante.
Allora, ci si potrebbe chiedere se provocare tale reazione iraniana fosse il reale obiettivo di Trump. Quanto più tale reazione sarà cruenta, tanto più l’amministrazione americana potrà giustificare - a posteriori - l’uccisione di Soleimani (di cui più di qualcuno contesta la legittimità giuridica) asserendo: “visto di che tipo di delinquenti si trattava” e tanto più potrà giustificare future azioni militari contro l’Iran o interessi iraniani nel mondo.
Non si può neanche escludere che Teheran risponda con nuovi attacchi alle navi nel Golfo. Peraltro, ciò offrirebbe un’utile giustificazione a USA, Arabia Saudita ed altri per un attacco su vasta scala, che Teheran probabilmente non sarebbe in grado di sostenere.
Peraltro, più che ricorrere a operazioni militari classiche, verosimilmente, Teheran ricorrerà a forme di guerra ibrida, con ricorso ad azioni terroristiche e anche ad attacchi cyber. Attacchi che potrà far condurre ad altri (gruppi armati sciiti, hacker ecc) negando poi la responsabilità di tali azioni. Teheran potrà colpire interessi non solo USA ma anche dei suoi alleati nella regione mediorientale e fuori da essa. Possibili bersagli oltre a Israele potrebbero essere l’ Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Il ché ancora una volta fornirebbe legittimità ad una reazione USA contro l’Iran.
La mossa di Trump mette ovviamente in difficoltà i paesi europei, che già non avevano gradito precedenti iniziative anti-iraniane della Casa Bianca. Non appoggiare Trump, tuttavia, esacerberà indiscutibilmente le divergenze tra gli USA e UE. Ovviamente questa divergenza di vedute e le inevitabili ritorsioni USA contro “alleati non allineati”, cui Trump ci ha abituato, renderanno sempre più fragile quel “trans-atlantic link “ sul quale dovrebbe reggersi l’Alleanza Atlantica (“trans-atlantic link “ sulla cui solidità oggi sembra scommettere solo Jens Stoltenberg). Inoltre per l’UE (e in particolare per Italia, Francia e Grecia) l’evoluzione della crisi libica riveste molta più importanza di un’eventuale crisi Washington-Teheran.
Una “vittima collaterale” di tale divergenze di vedute sarà anche la credibilità e la coesione dell’Alleanza Atlantica. Ma siamo proprio sicuri che invece Trump non intenda proprio mettere sotto pressione la “vecchia “ NATO in modo da avere un’ulteriore motivazione per disfarsi di un’Alleanza che, in virtù dei suoi obblighi alla consultazione reciproca alle decisioni per unanimità, a lui (come a George W. Bush prima di lui) va stretta?
Certamente, comunque, per l’Iraq, già martoriato da 16 anni di guerra civile si prospetta un lungo periodo in cui sul suo territorio si giocheranno battaglie geo-politiche tra USA e Iran (con il coinvolgimento anche di Russia, Arabia Saudita e Israele)
Tutto quanto sta avvenendo in queste ore era pianificato e voluto a Washington e si è ritenuto che fosse necessario sacrificare l’Iraq al fine di consentire una massiccia risposta militare USA anti-iraniana finalizzata a ristabilire l’ influenza USA in una regione dove (a causa di una lunga latitanza dello Zio Sam) si stà imponendo un controllo di Teheran e Mosca (con Pechino in lontananza)?
Oppure la mossa USA è stata soltanto il frutto azzardato di una decisione dettata da esigenze politiche domestiche più che da obiettivi geopolitici, i cui effetti sono scappati di mano a Trump?
Difficile dire. Forse, la risposta, per quanto deludente, è la seconda.
Solo la storia ci potrà dire quale delle due opzioni è vera.
Però, personalmente, avrei più fiducia in una superpotenza che ponesse in atto una manovra pericolosa, spregiudicata e machiavellica, sicuramente deprecabile sotto il profilo etico, piuttosto che in una super-potenza che si muova sulla scacchiera internazionale come il classico elefante in cristalleria, creando destabilizzazione solo per esigenze elettorali domestiche e senza una accurata previsione delle conseguenze delle proprie azioni.
Foto: U.S. Army / IRNA