Ci sono luoghi in Italia la cui esistenza serve a rimarcare la nostra identità, la nostra storia e semmai a risvegliare in ognuno di noi l’orgoglio nazionale ormai depredato dal disconoscimento storico operato da una classe politica nemica dei libri. Monti, sentieri, rocce e fiumi sacri alla Patria sono li a rinfrescarci la memoria di un tempo passato che, sebbene abbia lasciato solo l’ombra di un ricordo, rivive in tutte quelle persone che preferiscono non dimenticare e che hanno fatto della loro passione uno stile di vita. Così, viaggiando per piccoli paesi e borghi montani del Triveneto riusciamo a comprendere come l’Italia affondi le sue radici sul sacrificio di pochi visionari i quali consacrarono la vita per un’idea, neppure troppo precisa, di nazione.
Il Nord-est è l’angolo di terra dove l’Italia si è fatta veramente, una regione dove la parola confine assume un significato diverso rispetto altre parti della Penisola. Veneto, Trentino e Friuli Venezia Giulia salvaguardano, infatti, i racconti più drammatici di un conflitto che ci ha regalato, ad alto prezzo, una vittoria importante, tutta italiana.
Uscire da Caporetto
Il 24 ottobre 1917 l’Aquila bicipite degli Absburgo sembrava aver conficcato i suoi artigli sull’Italia orientale, sbaragliando la fanteria regia intontita dalla fulminea avanzata degli Imperi centrali. La ritirata di Caporetto segnò – in modo ingiusto – la storia militare italiana, provocando una sorta di “memoria negativa” sulle reali capacità del nostro esercito. Non a caso, la parola “Caporetto” è oramai entrata nel linguaggio comune per indicare una cocente e infame sconfitta, quantunque storici di valore (Paolo Gaspari in primis) abbiano dimostrato che il ripiegamento italiano fu tutt’altro che vergognoso.
A prendere le distanze da questa immeritata fama furono proprio i fanti italiani i quali subirono sulla propria pelle la fermezza austriaca, ma soprattutto l’incompetenza dell’Alto Comando: a dispetto della codardia di cui furono accusati, la fanteria, mossa dalla sola disperazione, arginò l’offensiva nemica bloccandola sulla linea del Piave. Dopo lo sbandamento di Caporetto, il Regio esercito fu capace di una rinascita straordinaria: senza temporeggiare, lo stesso direttivo militare – comandato dal generale Armando Diaz - preparò una brillante controffensiva che ricacciò gli austriaci sulle loro linee di partenza. E la vittoria fu.
Tra le righe di questo splendido racconto, fatto di coraggio e determinazione, spiccarono le gesta dei reparti più prestigiosi del nostro esercito: nati sul finire del 1917 a Sdricca di Manzano, il loro destino fu quello di riunire attorno a se manipoli di volontari (non proprio tutti) pronti a raccogliere e bagnare col proprio sangue lo stendardo tricolore. Questa, in poche parole, l’essenza dei reparti di Arditi, la cui memoria è stata al centro dei festeggiamenti del Centenario della Battaglia del Solstizio combattuta sul Col Moschin, Col Fenilon, Asolone e Col Fagheron.
Oggi gli arditi bramano giustizia, meritando una corretta e definitiva collocazione temporale che li differenzi, una volta per tutte, dalle milizie politiche fasciste. Le Fiamme Nere sono figlie della prima guerra mondiale, progenie di un animo nobile che rifiutava lo stato di fatto, rifuggendo dalla morta passiva tra fango e topi della trincea. Le Fiamme Nere di Messe, unitamente a tutti gli altri reparti d’assalto, furono la carica esplosiva che spronò la fanteria a reagire seguendoli a testa bassa. Maglione a collo alto, giacca sulla quale spiccavano due mostrine nere, pantaloni all’alpina e un pugnale nella cintura: quanto bastava per saltare fuori dalle trincee, senza indugi, insieme ai fratelli incontro al nemico per stanarlo dai suoi rifugi, aggredendolo senza pietà.
Cosa c’entrano questi impavidi con il partito fascista? Nulla, se non per il bieco opportunismo di Mussolini che ne mutuò la simbologia e ne incanalò la rabbia per una vittoria delusa montata ad hoc dalla sua propaganda. Che ne fu del valore e della loro maestria tattica quando scoppiò la seconda guerra mondiale? Poco o niente, poiché lo stesso duce che ne aveva sfruttato l’immagine consegnò le loro nobili tradizioni in mano a inetti miliziani politici.
Festeggiamenti come quello del Centenario della Battaglia del Solstizio aiutano a fare chiarezza: bene inteso però solo per chi vuol ascoltare la verità, il resto è solo un parlottare senza senso.
Ogni anno a fine giugno, gli eredi di Scianna, Zancanaro e Picaglia, gli incursori del 9° reggimento d’Assalto, hanno così un appuntamento fisso con il passato, per celebrare gli avi. Ritrovarsi sul Sacro Colle è una consuetudine che dura dal 1998, esattamente 10 anni fa, proprio per festeggiare gli avvenimenti bellici del 1918: gli ex dell’ANIE, insieme al reggimento, circondano la colonna di granito sulla quale – nel 1992 – fu posta una lapide con il fregio del Nono.
Un festa italiana
Momenti come quelli del “Col Moschin” non simboleggiano una mera rievocazione storica, bensì ricordano una vittoria degli italiani in difesa del suolo patrio. Sono parole che oggi suonano vuote e in effetti una politica distante e volgare ha privato di valore, se non addirittura cancellato, commemorazioni come questa. Eppure, anno dopo anno, un manipolo somigliante a quello di Messe si riunisce davanti alla granitica colonna del Sacro Colle, stringendosi spalla a spalla come un baluardo contro l’ignoranza che critica e sbeffeggia coloro che ancora ci credono. Un drappello di “scavezzacollo” che hanno dato gli anni migliori della loro vita al servizio della nazione: è forse questa pura retorica? Probabilmente lo è, anche perché molti che hanno servito nel Nono reggimento lo hanno fatto perché lo volevano, perché piaceva e soprattutto perché rappresentava una sfida con se stessi. L’incursore ama ciò che fa, mettendosi in gioco per uno scopo comune e per valori che condivide coi suoi fratelli in armi: questo, si sappia, non è da tutti.
Il Colle è un tempio del ricordo, comprovato anche dalla vicinanza e la simpatia che la popolazione locale (Pove del Grappa, Solagna, Bassano del Grappa e molti altri) dimostra ogni anno all’arrivo dei ragazzi del reggimento. Oltre al Nono, all’ANIE e alle istituzioni, ci sono poi delle certezze “non istituzionali” che custodiscono la memoria attraverso il tempo, proprio come Luciano Favero e il suo prezioso “Museo Roberto Favero 1915-18” (dedicato al fratello, anche lui cacciatore di reperti). Si tratta di un angolo ricco di cimeli sito all’interno dell’Albergo San Giovanni: nelle ricche vetrine sono gelosamente conservati gli oggetti degli arditi, medaglie al valore, Enrico Picaglia e Angelo Zancanaro. Malgrado quest’anno l’occasione del Centenario abbia sparpagliato le manifestazioni in altri comuni, il ritrovo ufficiale degli arditi è sempre nella locanda di Luciano, a pochi passi dal colle. Tra le presenze ormai fondanti del cerimoniale “ardito” c’è anche Massimiliano Ursini, deus ex machina della FNAI (Federazione Nazionale Arditi) la quale, sebbene non sia riconosciuta dall’Esercito (e francamente non capiamo il perché), ha meriti da vendere nel campo storico/militare.
Il Centenario ha richiamato persone provenienti da tutta la penisola, diversi labari delle Associazioni d’Arma, ma anche tanti appassionati che hanno ricevuto una gradita sorpresa. Quest’anno, infatti, è accaduto qualcosa di straordinario: in mezzo al mare di uniformi e colori tenui grigioverdi è spuntata una tuta azzurra indossata da Paolo Nespoli che, da buon incursore, non si è lasciato scappare l’occasione per visitare il Sacro Colle e incontrare tanti suoi ex colleghi. Padroni di casa sono stati il comandante del Nono, colonnello Giuliano Angelucci e il presidente ANIE colonello Angelo Passafiume accompagnati dal comandante del COMFOSE, generale Ivan Caruso e i veterani comandanti Franco Angioni, Franco Monticone e Marco Bertolini (presidente ANPd’I). Un’altra novità di quest’anno è stato il doppio “lancio” di paracadutisti: il primo composto da personale dell’ANIE, diretto magistralmente dal campione di paracadutismo tenente colonnello Piero Tanda, mentre il secondo imbarco da istruttori del Nono completi di equipaggiamento operativo.
L’alzabandiera iniziale è stato un momento importante poiché a sventolare nel cielo azzurro dei Colli Alti sono state “insieme” le bandiere austriaca, italiana e ungherese: un segno di rispetto unico, consueto solo sui campi di battaglia quando a contendersi il terreno sono due combattenti di eguale coraggio. È forse intorno ad avvenimenti come questo che possiamo edificare il vero significato “europeista”?
In un momento particolarmente buio della nostra storia, dove politici improvvisati sproloquiano sentenze senza senso, emanando provvedimenti privi di una minima cultura documentata o raziocinio, giornate come quella del Col Moschin ci fanno capire che è forse giunto il momento di rimettere mano ai libri di storia, l’unico modo rimasto per capire e vivere, o meglio sopravvivere, in questo paese ormai privo di memoria.
(foto dell'autore / web)