Nostro malgrado siamo immersi in una conflittualità latente, costretti a dosi massicce di polemiche che poggiano le loro sempre più solide fondamenta su di una autocompiaciuta ignoranza.
Nessuna lezione, solo una chiacchierata, se volete, che non intende avere alcuna colorazione, ma solo il piacere di esercitare non esaustivamente la dialettica del dubbio; lasciamo dunque Sant’Agostino al suo inarrivabile desiderio di comprendere Dio, insieme alla pari impossibilità di colmare una fossa con il mare travasato con una conchiglia, e volgiamo lo sguardo solo alle considerazioni più terrene germogliate in un autunno mai così caldo; esaminiamo il pensiero per arrivare a valutare la pratica.
Partiamo dunque dalla superficie, quella che vede l’uomo quale parte integrante del tessuto connettivo di una società ora più che mai attratta da migliaia di sostanziali banalità; ciò che sfugge come acqua tra le dita, è che avvinto all’idea di società, rimane il principio della quotidianità di un diritto pervasivo e presente sia nelle più elementari transazioni, come l’acquisto di un caffè, sia nella richiesta spesso superficialmente reclamata del rispetto tout court di diritti agitati come un ventaglio nelle giornate estive; come si può anche solo percepire l’importanza di princìpi come quelli sottesi ad una Costituzione, se l’interesse prevalente è volto verso una realtà dove una incosciente joie de vivre trova la panacea per tutti i problemi nei pixel di un cellulare? Eppure anche solo un momento di riflessione potrebbe stupire in quanto alla constatazione dell’efficace attualità di concetti dati per finiti, ed invece ancora utili per interpretare una realtà quanto mai intricata.
Le dinamiche innescate dalla pandemia, hanno messo a nudo le inconsistenze di una società incompatibile con la logica; una società che sta scoprendo, a sue spese, che particolari temi sono forieri di conseguenze durature.
Il secolo breve di Hobsbawm non ci ha consegnato solo un ‘900 tormentato, ma anche il pensiero di H. Kelsen e C. Schmitt che, mai come ora, al netto delle loro vicende personali, seppur filosofi del diritto, presentano concettualità concrete e del tutto aliene da impalpabili evanescenze; democrazia, costituzione, politica, sovranità, stati di emergenza ed eccezione, passano da una condizione puramente terminologica per partecipare ad un dibattito arduo per chi ha preferito intraprendere strade che, privilegiando pensieri unici alla moda, non richiedono il costoso pregio di studio e coerenza.
Schmitt e Kelsen generano due apparati concettuali paralleli ma che, nelle loro differenze, portano in nuce effetti che, soprattutto ora, non è possibile non riscontrare; sistemi di pensiero che, ovviamente, non godono del crisma della perfezione, ma che non possono non fornire spunti per una chiara presa di coscienza.
Se Kelsen compie la scelta di attribuire un primato ideale alla norma, all’attribuzione di potere al diritto, la sua teoria non può che condurre ad una statalizzazione del diritto stesso, dove il controllo dello Stato è affidato ad un custode che non può che essere un giudice, e dove determinati fenomeni, colti nella loro formalità, pur producendo forti conseguenze, come lo stato di eccezione, non vengono considerati.
Il sistema di Kelsen, basato sulla volontaria ubbidienza alle leggi, nasconde diverse debolezze intrinseche, ovvero sia la facoltà concessa alla democrazia di negare sé stessa, perché affidata senza alcuna tutela alla volontà popolare, sia di non rendere possibile l’identificazione dell’effettivo detentore del potere; un potere che si esprime nel labirinto dello Stato Profondo, dove si preserva una geopolitica di volta in volta interpretabile a seconda degli attori, e dove spesso si dissolve il concetto di Paese.
Non si può trascurare la rilevanza della norma fondamentale teorizzata prima da Kant e poi da Kelsen ed avente valore solo se correlata ad una Costituzione statuita ed efficace perché norma in bianco che autorizza altre norme; tuttavia ipotizzare il diritto alla stregua di una casella vuota giustifica il totalitarismo, così come avvenuto in Germania, dove insicurezza e formalismo giuridico del sistema costituzionale di Weimar hanno fornito veste democratica all’ascesa nazista al potere; allo stesso modo il sistema kelseniano non ha potuto evitare la crisi dei vari sistemi liberali prima e costituzionali dopo, caratterizzati da leggi frutto di mediazioni che, in quanto relative, non escludono l’esistenza di valori a loro stesse contrari: la qualità di una democrazia dipende dalla qualità dei compromessi.
Per Kelsen, Dio è la norma fondamentale; per Schmitt, Dio, creatore assoluto, divide il bene dal male; per Kelsen tutto è norma, per Schmitt bisogna trovare distinzioni, differenze, diseguaglianze. Se Kelsen chiede cos’è il diritto, Schmitt domanda cos’è la politica, ne fa una nuova teologia secolare, riporta al pensiero di Weber, aderisce ad una concezione del diritto comprensiva di elementi politici e sociologici; il sovrano, anticipando la giuridicità, segna il primato dell’ordine politico.
Due le testimonianze a riprova dell’interesse suscitato da Schmitt: Hannah Arendt1 che riporta, anche se in modo simmetricamente contrario, i suoi stessi temi, come si evince dai quaderni e dagli appunti, quasi a voler indicare lo spessore del pensiero schmittiano; Xie Libin e Haig Patapan2, che sul numero 1/2020 dell’International Journal of Constitutional Law, hanno scritto che “la Cina è affascinata da Schmitt”.
La legge è decisione, la norma fondamentale è di natura politica: la custodia della Costituzione, mezzo per cui l’astrazione dello Stato entra nella realtà3, è affidata ad un politico, ed il primato della politica si evidenzia nella decisione dello stato di eccezione a testimonianza dell’intrinseca debolezza parlamentare e di un’insicura certezza del diritto; non a caso secondo Schmitt, per garantire la sicurezza dello Stato, è necessario sia chiedersi entro quali limiti è possibile procedere alla sospensione della Costituzione, che non può essere neutrale verso i valori politici che rappresenta, sia soprattutto chi ha la facoltà di deciderla, senza dimenticare il carattere temporaneo dei provvedimenti sospensivi che, se venisse meno, disgregherebbe l’esistenza stessa dello Stato di diritto.
Non c’è dubbio che sia la carenza di etica a spingere il politico a fare dell'eccezione la regola; non a caso è proprio Schmitt, a proposito dello stato d’eccezione, a fornirne una valutazione ancora attuale nel saggio Die Diktatur (1921). Mai come ora sembra dunque necessario poter contare su un vero custode della Costituzione, che trovi significato nell’indipendenza fornita o da un eletto in via parlamentare, che tuttavia diviene espressione della coalizione politica al momento maggioritaria, oppure, come suggerito da Schmitt, da un politico scelto in via democratico-plebiscitaria dal corpo elettorale, e con competenze volte “a generare una posizione partiticamente neutrale, a causa della sua connessione immediata con la totalità statale”.
La figura del custode rimane quindi nell’ambito di un potere politico neutro, che opera insieme e non al di sopra degli altri Poteri, per essere custode e non padrone della Costituzione, difensore effettivo e non figura di contorno; il ruolo della Corte Costituzionale, in questo senso può essere escluso, sia perché sussiste la concreta possibilità di introdurre modifiche alla Costituzione, per cui la Corte si trova alla stessa stregua del giudice ordinario rispetto al legislatore, sia perché è idonea ad intervenire solo contro le violazioni di norme costituzionali.
Quel che rileva è la distinzione tra stato d’emergenza4 e stato d’eccezione, anche se da un punto di vista del diritto non ne sussistano basi logiche, non potendo il diritto legittimare un suo sovvertimento; l’emergenza è conservativa, l’eccezione è innovativa, ma con effetti tuttavia identici, poiché ambedue si risolvono nella medesima interruzione delle garanzie costituzionali.
È impossibile sindacare giuridicamente la decisione, dato che il diritto arriva solo quando occorre formalizzare l’accordo preso in e soprattutto con il Parlamento; in Italia il problema è insorto nel momento in cui si è proceduto ad un’analisi della fonte dei poteri emergenziali della presidenza del Consiglio che, durante la pandemia, si è rifatta al Codice della Protezione Civile, cosa che ha consentito deliberazioni prive dell’approvazione parlamentare.
Il problema è stato che la distinzione fra stato di emergenza e stato di eccezione è andata completamente perduta, ed il governo è ricorso ai poteri emergenziali, o necessari, individuati dal codice già citato, trasformandoli in pieni, ovvero poteri che hanno travisato ruolo e funzione dei noti Dpcm, anticipatori di un nuovo bilanciamento tra esecutivo e legislativo, equilibrio funzionale a mutare lo stato di emergenza in stato di eccezione.
Di fatto le istituzioni parlamentari, perdendo l’occasione di riformare la normativa in tema, hanno consentito sia la paradossale normalizzazione dell’eccezionalità, sia l’invocazione del principio di precauzione per ottenere non già poteri emergenziali, ma i vietati poteri speciali. Molto più saggiamente, sarebbe stato opportuno evitare il consolidamento di uno stato di emergenza permanente, procedendo piuttosto secondo le usuali vie legislative ordinarie.
Il diritto è un mezzo, e come tale risulta funzionale in relazione alle capacità dei normatori; certo, accantonarlo solo perché chi dovrebbe sapere come fare, in realtà, è all’oscuro dei fondamentali, soprattutto se esso stesso è il risultato di compromessi politici, è ridicolo ed inaccettabile. Va anche rammentata l’inopportunità di limitare le libertà costituzionali per mezzo di atti di carattere amministrativo, contrapponendo maldestramente diritto alla salute e libertà personali ed ignorando il principio della riserva di legge5, visto che i Dpcm, parificati alla normazione di guerra, sono sottratti sia al controllo politico parlamentare, sia a quello di legittimità della Consulta; tutto questo complesso di atti, conduce ad una personalizzazione del potere di carattere autoritario che riporta a quanto affermava Schmitt, per cui “sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, cosa che ha un significato analogo a quello che ha il miracolo per la teologia, visto che una sovranità illimitata comporta la negazione dello stato di diritto.
Le conclusioni sono molteplici; innanzi tutto bisogna prendere atto dell’apparente banalità per cui la giuridificazione della politica è impossibile, visto che diritto e politica permangono in una tensione irrisolvibile; in secondo luogo, va tenuto conto che non è parimenti possibile né liquidare Kelsen come puro formalista del diritto, né Schmitt per il suo breve contatto con il nazismo che peraltro, nella sua grossolanità, non riuscì a comprenderlo.
1 È stata una politologa, filosofa e storica tedesca naturalizzata statunitense in seguito al ritiro della cittadinanza tedesca nel 1937.
2 Xie Libin, professore presso l’Istituto sino tedesco di Legge presso la China University of Political Science and Law. Haig Patapan Direttore del Centre for Governance and Public Policy, nonché Professore presso la School of Government and International Relations, Griffith University.
3 Hegel
4 Condizione di fatto per cui, ferme garanzie costituzionali e la sovranità del Parlamento, il governo può ricorrere a “scorciatoie” per organizzare soccorsi
5 Inserita nella Costituzione, prevede che la disciplina di una determinata materia sia regolata dalla legge primaria e non da fonti di tipo secondario
Foto: presidenza del consiglio dei ministri