La minaccia dello Stato Islamico “è particolarmente allarmante nel continente africano, nello specifico nella regione del Sahel, ma anche in aree dell'Africa orientale, come il nord del Mozambico. Per questo motivo, con il sostegno USA e di molti altri partner, ho proposto di istituire un Gruppo di Lavoro dedicato all'Africa, che possa identificare e fermare le minacce terroristiche connesse a Daesh esistenti nel continente mettendo a punto specifiche contromisure da definire in coordinamento con i partner locali”.
Astratta dal contesto questa sembrerebbe la dichiarazione del leader di un Paese consapevole del suo peso geopolitico e con la chiara volontà di individuare le sue priorità in politica estera. In realtà sono alcune delle parole pronunciate dal ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio al summit romano anti-ISIS alla presenza del segretario di Stato statunitense Tony Blinken ed il solo nominare il reale “ideatore” di questo così arguto periodo, fa decadere quanto detto in precedenza, cioè che sia il programma di massima di un Paese consapevole del suo ruolo geopolitico.
Certamente il ritiro dall’Afghanistan può consentire una ricalibratura del baricentro geostrategico italiano nuovamente sul “Mediterraneo allargato” e dunque anche nel continente africano, come anche la partecipazione militare italiana alla Task Force Takuba lascia pensare, ma ciò non vuol dire che la classe dirigente nazionale abbia reale contezza di questo, basti pensare al fatto che ogni volta che si deve prendere una decisione importante per gli interessi nazionali Di Maio si trincera dietro la trita solfa del “pacifismo costituzionale”.
Per combattere lo Stato Islamico in Africa, ha spiegato Di Maio, occorre prevedere un approccio “olistico” al territorio, che è un modo come un altro per spiegare ad un interlocutore come Blinken – che è noto per non essere propriamente un estimatore delle soluzioni “gandhiane” alle crisi internazionali – che le milizie islamiste possono essere combattute e sconfitte soprattutto con la diplomazia della “cooperazione per lo sviluppo” prima che con le armi.
Tradotto in parole povere: Roma non ha intenzione di sobbarcarsi le responsabilità (anche militari) che il mantenimento della sicurezza in Africa comporta, a meno che non sia “mamma America” a mostrare, ancora una volta, i muscoli, lasciando poi agli alleati, Italiani compresi, il compito di ricostruire socialmente ed economicamente un territorio martoriato dalla guerra. Massimo rendimento (per un Paese che fa dell’approccio economicistico alle relazioni internazionali il proprio mantra) con il minimo sforzo.
Il jihadismo africano rappresenta una galassia molto complessa da decifrare, capace di espandersi a macchia di leopardo nel Continente nero, ha elementi caratteristici propri, diversi rispetto all’islamismo militante mediorientale, ed è stato capace di infliggere sconfitte gravi sul campo alle truppe dei deboli governi africani sia nel Sahel che nel Corno d’Africa, per non parlare del brodo di coltura per terroristi rappresentato dalla situazione caotica ed ancora tutta da chiarire della Libia in transizione.
Sviluppare e pensare ad una “road map” per combattere l’islamismo in Africa come proposto da Di Maio è una opportunità, ma sono i presupposti ideologici (“politici” di certo non si può dire) con i quali è stata presentata l’idea ad essere totalmente sbagliati: l’Italia ha sostanzialmente “paura” di utilizzare il suo strumento militare per difendere gli interessi nazionali e da questo punto di vista si autopercepisce ed è anche percepita come una potenza “diversa” ed alla quale si può, in certi casi, anche rifilare qualche scorrettezza come è successo con la nave SAIPEM al largo di Cipro (v.articolo), all’aereo diretto ad Herat per la cerimonia del ritiro dei militari lì impegnati (v.articolo), ai soldati italiani lasciati senza visto d’ingresso in Libia e via dicendo (v.articolo).
Cioè, date le premesse – di cui i governi degli ultimi dieci anni, a prescindere dal colore politico di riferimento, sono ampiamente colpevoli – il Di Maio in versione “paladino anti-ISIS” più che convincere fa sorridere. E fa arrabbiare chi all’Italia ed alla sua immagine internazionale ci tiene davvero.
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