Elezioni in Iran

(di Renato Scarfi)
26/06/24

L’incidente aereo dello scorso 19 maggio, che ha segnato la fine del presidente iraniano Ebrahim Raisi, ha riportato i riflettori della comunità internazionale su quella parte di mondo che è l’Iran. Anche se le cronache degli ultimi due anni si sono prevalentemente occupate dell’aggressione russa all’Ucraina e del conflitto tra Israele e Hamas, conseguenza della brutale aggressione del 7 ottobre 2023, il paese sciita è sempre apparso nei servizi giornalistici in veste di attore non protagonista. Prima per il sostegno politico (per esempio alle Nazioni Unite) e il supporto concreto (vedi la fornitura di droni) ai russi, poi per la solidarietà (e non solo) fornita ai terroristi di Hamas e, infine, per lo scambio ampiamente annunciato di attacchi missilistici con Israele.

L’inattesa notizia dell’incidente, sommata all’importanza del Paese per gli equilibri dell’area, ha fatto sorgere interrogativi circa le sue eventuali implicazioni politiche interne e, più in generale, per le conseguenze geopolitiche.

In un contesto economico e sociale gravemente degradato, infatti, il gruppo ultraconservatore di Raisi dal giugno 2021, epoca dell’elezione, ha messo in atto una brutale repressione del dissenso interno e ha proseguito il cammino tendente al completamento del suo programma nucleare. Due elementi che non mancano di preoccupare la comunità dei Paesi occidentali, in quanto indicatori di una debolezza e di un atteggiamento che fanno temere per la stabilità dell’area del Golfo Persico, fulcro energetico mondiale.

Una debolezza sottolineata anche dall’opacità e frammentarietà degli equilibri interni, se si considera che il presidente Raisi era considerato politicamente poco incisivo, tanto da far sorgere alcuni dubbi circa il suo reale potere. Sufficientemente gradito all’ormai ottantacinquenne Khamenei (figura centrale e vero perno che regge il sistema di potere della Repubblica Islamica - foto), tanto da essere accreditato da alcuni come suo possibile successore, sembra fosse stato sostanzialmente scelto per l’incarico di presidente proprio perché non in grado di oscurare la luce della Guida Suprema, ma ambizioso e zelante quanto basta per seguirne le direttive. Si comprende, quindi, il motivo per il quale le elezioni del 2021 sono state giudicate da molti osservatori le meno competitive degli ultimi trent’annii, visto che tutti i candidati non graditi a Khamenei non si sono potuti presentare, compreso lo stesso ex presidente Ahmadinejad, rappresentante dell’ala dura del regime, ma percepito dalla Guida Suprema come un rivale. Raisi era ritenuto, quindi, come una scelta “sicura”, in grado di garantire la continuità del regime, senza offuscare i reali centri di potere.

Ciò nonostante, da quanto risulta, Raisi non era un agnellino, avendo ricoperto posizioni importanti in ambito magistratura, notoriamente il braccio duro del governo, fino a diventarne il capo nel 2019 e avendo mandato al patibolo migliaia di dissidenti iraniani nel corso degli ultimi 40 anni, tanto da “meritarsi” il poco onorevole appellativo di “macellaio di Teheran”.

Ma il 19 maggio, comunque, l’Iran ha perduto anche un altro personaggio di spicco del regime degli ayatollah: il potente ministro degli Esteri Abdollahian, controverso autore di dichiarazioni di sostegno ad Hamas all’indomani dell’attacco del 7 ottobre. Al centro delle trame diplomatiche in chiave anti-Stati Uniti e anti-Israele, egli ha marcato nettamente la distanza dal suo predecessore e ha portato l’Iran a collaborare con quei Paesi che desiderano costruire un ordine internazionale alternativo, come Russia e Cina.

Due personaggi, quindi, la cui mancanza non tralascerà di avere delle implicazioni sugli equilibri di potere. Tant’è che le elezioni presidenziali anticipate, indette per il 28 giugno prossimo, hanno portato molti osservatori a interrogarsi su quale direzione potrà imboccare l’Iran.

I candidati

Delle 80 candidature il Consiglio dei Guardiani, ovvero l’organismo di 12 membri guidato da Ahmad Jannati (97 anni), che seleziona i candidati in base a una serie di criteri, ne ha respinti 74.

Tra questi spicca nuovamente la figura dell’ex presidente Ahmadinejad, peraltro già sopravvissuto a un incidente molto simile a quello di Raisi, proprio nella stessa area (2 giugno 2013).

Mentre anche questa volta nessuna donna è stata ammessa nell’arena, dei 6 candidati rimasti in lizza cinque sono ultraconservatori. Mustafà Pourmohammadi, ministro della Giustizia con Rouhani e dell’Interno con Ahmadinejad è, come Raisi, stato anche un membro dei famigerati “comitati della morte” e in passato ha deciso e fatto eseguire decine di condanne capitali. Amir Hossein Gazizadeh Hashemi fa parte del Fronte per la stabilità della rivoluzione islamica, uno dei “partiti” della destra più oltranzista in Iran. Alireza Zakani è attualmente sindaco di Teheran, proprietario di due giornali si è evidenziato per la propensione al nepotismo, per i toni aggressivi verso i riformisti e per l’irrigidimento dei controlli sul velo femminile. Saeed Jalili, intellettuale noto in tutto il mondo islamico, è considerato un politico tra i più oltranzisti e feroce oppositore di qualunque iniziativa di riavvicinamento all’Occidente. Mohammad Bagher Qalibaf, portavoce del Parlamento, è un falco che conosce bene le strutture di potere e che si è già più volte candidato alla presidenza, senza essere eletto, ma che ha ultimamente ottenuto buoni riscontri all’interno dell’area dura, anche se è stato indicato dai suoi nemici politici per sospetti casi di corruzione.

Il sesto candidato, Masoud Pezeshkian, rappresenta la vera novità di queste elezioni, essendo di orientamento riformista (nel 2021 nessun riformista era stato ammesso alla tornata elettorale). Ex ministro della Salute nel secondo governo Khatami (2001-2005), Pezeshkian è considerato un parlamentare di relativamente secondo piano, che ha continuato a manifestare apertamente le proprie critiche verso il sistema di potere iraniano, schierandosi esplicitamente contro le durissime repressioni delle proteste di piazza.

Se al primo turno nessun candidato dovesse raggiungere il 50% dei voti, un secondo turno è già previsto per il 5 luglio e ciò ridurrebbe le possibilità di vittoria dei riformisti, perché ricompatterebbe il fronte ultranazionalista, che il 28 giugno si presenterà frammentato.

Gli altri attori

Tra gli attori non protagonisti, ma influenti, ci sono i rappresentanti di quei circoli integralisti particolarmente intransigenti, che ritenevano Raisi un presidente debole e che cercheranno di sostenere con forza i candidati più oltranzisti, cogliendo al contempo l’occasione per accrescere la propria area di influenza.

Ci sono poi le Guardie della Rivoluzione, 250.000 unità che dipendono direttamente da Khamenei, con una presenza capillare nelle istituzioni e la cui influenza sulle politiche nazionali è in forte crescita. Si tratta di un vero potentato politico-economico-militare. Creato nel 1979 a difesa del nuovo regime, rafforzatosi durante la guerra Iran-Iraq, oggi controlla un giro d’affari stimato in 100 miliardi di dollari. Quando era al potere hanno tiepidamente sostenuto Raisi, forse in attesa di assumere maggiore rilevanza interna, ma ora potrebbero approfittare dell’opportunità per ottenere un ruolo ancora più influente nella delicata struttura di potere iraniana. In tale ambito, essendo Qalibaf stato Comandante delle Guardie, in caso di sua vittoria le due parti potrebbero saldarsi in modo da ottenere benefici condivisi.

C’è poi il figlio di Khamenei, Mojtaba, di cui si sa poco perché rimasto finora nell’ombra, ma che non ha mai fatto mistero di aspirare a sostituire il padre, rappresentandone la continuità. Un fatto che farebbe storcere il naso a non pochi, anche tra i più duri, all’interno dei palazzi del potere.

Ciò detto, non va sottovalutato il ruolo di un Parlamento appena eletto (10 maggio) e costituito da una grande maggioranza di rappresentanti ultraconservatori che, c’è da scommetterci, in caso di proposte di aperture sulle libertà fondamentali e sui temi dei diritti civili, opporrà una strenua resistenza.

La situazione interna

L’Iran di oggi è un Paese profondamente diviso e molto fragile sul fronte interno, flagellato anche da gravi problemi economici e sociali quali la desertificazione, la carenza di lavoro, la mancanza di libertà, la sostanziale assenza di futuro per i giovani. Che l’Iran non sia un monolite ma un paese composito e vivace è confermato dalle contestazioni portate avanti, nonostante le repressioni, proprio dalla (maggioritaria) componente dei giovani, da cui arriva la forte richiesta di maggiore libertà. La popolazione iraniana è, infatti, composta in maggioranza da giovani adulti con un’età compresa tra i 25 e i 50 anni (43%) e da giovani con meno di 20 anni (30%)ii. Questa parte di popolazione non ha conosciuto altro che il dispotismo del regime islamico, ma ha avuto la possibilità di studiare. Una società colta, quindi, con una gioventù mediamente ben istruita (gran parte sono andati all’Università) e in fermento, a cui vengono negati gli standard di diritti umani e libertà democratiche e che si sente imprigionata in uno schema di potere congegnato in nome della continuità del regime. Sono giovani che usano i computer, che hanno parenti negli Stati Uniti e in Europa e che sono, pertanto, al corrente di ciò che accade nel mondo, anche se non hanno esperienza internazionale. Vivono nelle città dove, appunto, si sviluppano le proteste e rappresentano ormai un mondo a parte rispetto a quello tradizionale delle campagne.

Alle città relativamente avanzate fa, infatti, da sfondo un mondo rurale più arretrato e spesso marginalizzato, con molti iraniani che vivono ancora sotto la soglia di povertà, con ampie diseguaglianze sociali e forti aspettative non esaudite, in particolare proprio dei giovani.

Nel Paese è, inoltre, enormemente cresciuta la consapevolezza che l’isolamento nuoce e che non è servito a nulla riportare l’Iran indietro nel tempo. Una consapevolezza che sembra stia timidamente attecchendo anche in alcuni settori dell’alta dirigenza iraniana, come all’interno di alcuni poteri forti che, non convinti che verso est ci sia il benessere, vedrebbero con favore una molto cauta riapertura verso l’Occidente e che potrebbero essere i veri propulsori delle riforme.

In tale ambito, il cammino che l’Iran sta effettuando verso est presenta notevoli criticità sotto il profilo dei diritti civili. I governi, infatti, sono in sintonia ma nessuno dei Paesi asiatici che Teheran ha preso come riferimento è in grado di rispondere efficacemente alle aspettative della grande maggioranza degli iraniani, né di fornire quei valori di democrazia tanto reclamati dai giovani.

In tale ambito, va detto che i conflitti politici più aspri sono proprio all’interno del Paese tra i progressisti e le èlites clericali, i Guardiani della Rivoluzione e i tecnocrati che cercano di salvare il regime islamico (soprattutto i vantaggi ottenuti e i beni acquisiti). Da parte di chi detiene il potere, infatti, vi sono forti resistenze nei confronti della concessione di maggiori diritti civili, un processo che si ritiene di non riuscire a controllare. I loro discorsi a sostegno della rivoluzione sono forti, come la loro convinzione, ma sono soprattutto personaggi che hanno acquisito vantaggi e ricchezze senza farsi troppe domande.

Sotto il profilo economico, la situazione iraniana, come detto, è piuttosto grave e sta creando non pochi problemi anche alla classe media. Nell’aprile del 2022 il 38% degli iraniani erano in gravissima difficoltà.

Alle istanze sociali si sono, quindi, aggiunte le richieste economiche, cui il governo ha risposto accentuando la propaganda ideologica, esaltando la civiltà irano-islamica conseguente alla gloriosa rivoluzione, in cui le proteste rappresentano la causa di tutte le catastrofi economiche e socialiiii.

La geopolitica iraniana

Le prossima tornata elettorale per l’elezione del presidente fa sorgere legittimi interrogativi sulle possibili traiettorie che potrebbe prendere la politica estera iraniana. Vediamo, dunque, quali sono i principali elementi geopolitici in gioco.

L’evoluzione geologica ha fatto di quest’area montagnosa e parzialmente desertica una fortezza naturale da cui si dominano la Mesopotamia, l’area dell’Indo e il Mar Caspio. Nel corso della storia questo Paese ha rappresentato un incrocio politico, economico e culturale posto all’intersezione tra il mondo arabo, turco-caucasico e indo-europeo. L’era degli idrocarburi e la scoperta di immensi giacimenti di petrolio e di gas naturale hanno poi portato l’Iran all’attenzione dei Paesi industrializzati. Alle sue risorse energetiche l’Iran aggiunge anche la possibilità di controllo strategico dello Stretto di Hormuz, passaggio fondamentale delle petroliere (leggi articolo “La strategia marittima iraniana nel quadro degli equilibri geopolitici del golfo Persico”).

Forte di questa situazione, in questo primo quarto di XXI secolo l’Iran ha perseguito una strategia tendente al controllo dalla regione, dal Golfo Persico al Mediterraneo. Una politica di espansione regionale a tutto campo, quindi, sempre realizzata mediante una rete di milizie combattenti, forse animate da assonanze confessionali, certamente foraggiate senza risparmio. In Siria, per esempio, l’Iran è presente fin dal 2013, ben prima della Russia, per sostenere il regime di Assad e per impedire la penetrazione saudita. In Yemen, le milizie Houti hanno ultimamente sottolineato il sostegno politico e militare che ricevono da Teheran (leggi articolo “Geopolitica del Mar Rosso”).

Ciò è stato in buona parte favorito dalle contraddizioni dell’Occidente, che, pur mantenendo il Paese sotto sanzioni, gli ha spianato la strada con la demolizione dello Stato sunnita in Iraq nel 2003 e, più tardi, con una altalenante politica in Siria, tra volontà di cambiamento del regime e scarsi aiuti all’opposizione liberale e, infine, con l’assegnazione di un ruolo di fatto assegnato alle milizie filo-iraniane nell’abbattimento dell’ISIS, in ossequio al principio “no boots on the ground”.

Per il regime iraniano la proiezione regionale del Paese rimane una priorità assoluta garantendo, al contempo, la protezione della “fortezza” iraniana con tutta la prudenza e il pragmatismo possibile, come abbiamo ultimamente osservato nel corso degli eventi che lo hanno contrapposto a Israele.

In tale veste va letto anche il relativamente recente accordo con l’Arabia Saudita, che ha formalmente posto fine ai secolari rapporti piuttosto tesi tra i due Paesi, culminati nel 1988 e nel 2016iv con la rottura delle relazioni diplomatiche. Un accordo giunto abbastanza inaspettato, anche se è molto probabile che i sauditi abbiano tenuto informati gli Stati Uniti, soprattutto per l’insolito ruolo da mediatore svolto dalla Cina, favorita dal fatto dal fatto che, a differenza di Washington, Pechino ha più o meno buoni rapporti con tutti gli Stati della regione, a partire proprio da Ryad e da Teheran. (leggi articolo “Verba volant, acta manent”)

L’Iran è un grande paese, con una storia millenaria e con l’ambizione di voler essere una potenza regionale e addirittura globale, nonostante l’instabilità interna determinata dai citati numerosi fattori economici e sociali.

La sua adesione al Patto di Shangai, la sottoscrizione di un accordo strategico di sviluppo con la Cina (2011), la costruzione del porto di Chabahar da parte dell’India indicano chiaramente che l’Iran ha voltato le spalle all’Occidente per guardare verso l’Asia. Ma questo riorientamento geopolitico non sembra immutabile, giacché le potenze asiatiche non appaiono in grado di soddisfare le esigenze tecnologiche, industriali e finanziarie di un Iran in grave affanno.

In tale ambito, se l’impegno regionale iraniano rappresenta un prioritario campo operativo, esso costituisce ugualmente un cul-de-sac strategico per le sue ambizioni internazionali. È principalmente questo il motivo che ha portato Teheran a stringere relazioni con Mosca e Pechino, non solo per la comune avversione verso Washington, ma anche per una sorta di via d’uscita strategica verso l’Heartland sino-russo, per costruire un blocco euroasiatico rivale del sistema occidentale. Rimane da comprendere se tale orientamento sarà in grado di offrire le risposte di maggiore libertà e benessere che la popolazione si attende e che, finora, sono state disattese.

Considerazioni finali

Con una situazione interna come quella descritta, è concreta la possibilità che a prevalere siano gli ultra-nazionalisti, che farebbero prevedibilmente crescere la postura aggressiva e “anti” in politica estera, in modo da cercare di convogliare verso l’esterno le insoddisfazioni interne, mantenendo inalterati gli obiettivi fondamentali dell’attuale regime iraniano: garantire l’indipendenza del paese, evitare l’implosione sociale e assicurare la sopravvivenza del regime clerico-dittatoriale, eventualmente anche attraverso durissime repressioni. In tale ambito potrebbero ulteriormente crescere anche le difficoltà relative al transito mercantile attraverso Hormuz.

Il vicepresidente sta, quindi, gestendo una situazione piuttosto infuocata. Se l’esito delle prossime elezioni venisse percepito come palesemente pilotato, come nel 2021, il pericolo è che si allarghi ulteriormente la già evidente frattura esistente tra gli intransigenti e i molti iraniani che invocano con forza il rispetto dei diritti umani e la richiesta di maggiore libertà.

Rimane, quindi, da vedere come si comporterà l’elettorato, anche se è prevedibile che per la vittoria finale ci sarà una lotta feroce. La dissidenza, infatti, non è stata messa completamente a tacere e specialmente i giovani hanno voglia di farsi sentire, nonostante le dure repressioni e la poca rappresentatività della maggior parte delle formazioni politiche riformiste iraniane.

Un elettorato che non appare più solidale con il Leader della Rivoluzione, che quando prima parlava era considerato come un oracolo. Per determinare mutamenti nel Paese, comunque, appare indispensabile avere il sostegno dei poteri forti come, per esempio, i centri di potere economico. Ad essi, infatti, sono legati alcuni alti dirigenti e con essi vi è un tale intenso intreccio di interessi e di attività commerciali che è davvero impossibile immaginare cambiamenti senza l’apporto di tali gruppi. Si tratta, infatti, di un sistema che finora è durato e che può continuare a durare solo se non emergono spaccature evidenti all’interno del gruppo dirigente del paese e tra i poteri forti presenti in Iran. Al momento, comunque, è difficile affermare che le divergenze esistenti siano in grado di rompere quella compattezza che, per anni, ha tenuto insieme il regime.

In una situazione confusa e alquanto difficile da decifrare, le probabilità di vittoria di Pezeshkian appaiono abbastanza basse in confronto a quelle dei candidati considerati favoriti (Jalili e Qalibaf), anche se la sua presenza potrebbe attirare una parte dell’elettorato che si è astenuto alle ultime elezioni (60%) perché disilluso sulle possibilità di cambiamento. Una possibilità di successo potrebbe, comunque, essere rappresentata anche dalla citata frammentazione del fronte dello status quo, che potrebbe disperdere i voti e favorire il candidato riformista.

Anche se non si possono escludere a priori delle sorprese, a meno di una eclatante crescita dell’opposizione moderata, tale da lanciare un segnale forte e chiaro, in politica interna non sembra ci siano grandi possibilità di un significativo cambio di rotta, che permetta di contrastare efficacemente la deriva clerico-autoritaria. Tuttavia, per quanto si possa essere riformisti in un Paese come l’Iran, l’eventuale vittoria di Pezeshkian offrirebbe una tenue opportunità di cambiamento.

In politica estera, tenuto conto di quanto detto, l’eventuale vittoria di un super-falco come Qalibaf, ancorchè non seduto in cima alla piramide del potere iraniano, potrebbe significare un ulteriore inasprimento della postura anti-americana e un conseguente più “intimo” avvicinamento alla Russia e alla Cina. In caso di vittoria di Pezeshkian, invece, sarebbe probabilmente la Turchia che vedrebbe crescere il proprio ruolo nella regione, essendo egli membro della società di amicizia turco-iraniana. Una possibilità tutta da valutare nelle sue reali implicazioni geopolitiche, vista la postura evidenziata da Ankara negli ultimi tempi. (leggi articolo “Sottomarini turchi ed equilibri nel Mediterraneo orientale”)

Per quanto attiene alla postura del nostro Paese, appare utile non fossilizzarsi sul conflitto ucraino che, per quanto di estrema importanza per vicinanza e significato geopolitico, rischia di assorbire tutta la nostra attenzione, con la conseguenza che una nostra politica estera debole o assente nell’area del Golfo darebbe possibilità ai nostri competitors di riempire gli spazi lasciati vacanti. Prima fra tutti la Russia che punta, sulle orme dell’Unione Sovietica, a esercitare sull’Iran la sua influenza politica anche attraverso accordi sulla sicurezza.

In tale ambito, va detto che la politica estera dell’Italia ha nell’area dei margini di manovra che non ha in altri scacchieri internazionali, a partire dalla nostra tradizionale disposizione al dialogo e a non voler imporre il proprio punto di vista. Un approccio che il Piano Mattei ha fatto suo per quanto riguarda le questioni africane e che potrebbe trovare puntuale applicazione anche nel Golfo. C’è poi il fatto che la nostra economia, meglio di quelle maturate in altri Paesi industrializzati, viene incontro alle esigenze di sviluppo di Paesi che hanno un tessuto di piccole e medie imprese.

In tal senso l’Italia, qualora dovessero esserci delle pur timide aperture da parte iraniana, dovrebbe giocarsi le sue carte e provare a diventare “apripista” di un rinnovato rapporto con l’Iran, coinvolgendo in tale processo anche l’Europa, purtroppo poco “presente” sul teatro internazionale.

Bisogna, quindi, tornare a essere attivi nell’area, riguadagnando la fiducia dell’Iran e degli altri Paesi del Golfo, immaginando una politica più flessibile che riporti Teheran al tavolo negoziale. Una politica che non deve tendere ad isolare ulteriormente il Paese (spingendolo verso Oriente) bensì a renderlo partecipe dei nostri valori, per aiutare concretamente coloro che spingono per modificarlo al suo interno. Se di isolamento dobbiamo parlare, questo dovrebbe essere diretto al gruppo radicale che ne governa le dinamiche, non del paese in quanto tale.

Ciò permetterebbe anche di cercare di frenare l’espansionismo russo e cinese, come quello di tanti altri attori regionali che oggi ambiscono a ruoli più globali e che vedono nell’Iran solo una mucca da mungere a basso prezzo. L’Italia, quale media potenza regionale con interessi globali, ha il dovere di difendere i propri interessi politici, economici e commerciali, ovunque questi si trovino, senza delegare ad altri ciò che è in grado di fare di propria iniziativa.

Per concludere, è indubbio che rispetto al passato in Iran sia da qualche tempo in atto una forte richiesta di evoluzione in senso democratico. Un’evoluzione che viene rivendicata a gran voce dal ceto borghese della società ma che viene aggressivamente osteggiata da chi, con l’attuale sistema, ha ottenuto grandi benefici e potere. Si tratta di un processo, tuttavia, la cui tempistica è difficile da prevedere, giacché il tempo in Iran non scorre come da noi, con un ritmo sempre più accelerato e incalzante, spesso alla ricerca di risultati immediati. Il tempo in Iran è qualcosa di impercettibile, non fondamentale, avulso dai ritmi a cui siamo abituati in Occidente.

Il disastro aereo del 19 maggio ha, tuttavia, inaspettatamente aperto per l’Iran la possibilità di una nuova fase, che potrebbe da una parte permettere un cambiamento non violento e l’instaurazione di condizioni per una (lenta) rinascita di un Paese emarginato e impoverito, ma che potrebbe anche acuire i contrasti e dare il via a nuovi conflitti violenti. In ogni caso, anche se dovessero vincere i riformisti, saranno necessari molti anni per attenuare le divisioni ideologiche e far ritrovare la pace sociale, dopo le ingiustizie che hanno sconvolto la società iraniana.

Vedremo, quindi, se il prossimo 28 giugno l’Iran sceglierà di incamminarsi su un sentiero meno aggressivo, più democratico e più aperto a pacifiche relazioni internazionali (che non prevedano il sostegno ai terroristi), che ridoni speranza alla moltitudine di giovani, o se preferirà proseguire il suo cammino verso est. Dopo quattro decenni di esperienza di clero al potere, che hanno portato indietro e marginalizzato il Paese, l’Iran avrà la volontà e la capacità di adattare il suo linguaggio e la sua politica, iniziando un cammino che porti il Paese da una logica di potenza nazionalista a una logica più equilibrata, che risponda alle legittime ambizioni della popolazione? Avrà la forza di cambiare direzione e di superare tutti gli ostacoli rappresentati dai nostalgici conservatori? Spinto dal desiderio di cambiamento dei giovani, avrà il coraggio di intraprendere il cammino per la costruzione di una nuova politica di nazione affidabile e responsabile? La risposta è nelle mani degli iraniani.

i Tant’è che nell’occasione si è registrato una drammatica riduzione della partecipazione alle urne, calata intorno al 40%.

ii Bernard Hourcade, Iran: paradoxes d’une nation, CNRS editions, Paris, 2021

iii Dal discorso del presidente Raisi in occasione del nuovo anno 1401 (21 marzo 2022) a Khorramshahr.

ivNel 2016, in seguito all’assassinio in Arabia Saudita di Nimr al-Nimr, un religioso sciita strenuo oppositore della monarchia saudita, la folla aveva assaltato le missioni diplomatiche saudite in Iran.

Foto: IRNA