Ora che la parata del 2 giugno è acqua passata, proviamo a fare due riflessioni a bocce ferme.
Il 2 giugno non è la festa delle Forze Armate, ma della Repubblica. Le Forze Armate dovrebbero essere festeggiate il IV Novembre, nell’anniversario della Vittoria di un secolo fa che ci consegnò l’Italia unita per merito delle nostre armi. Invece, il 2 giugno si ricorda solennemente un evento che le riguarda molto poco, quando il Regno d’Italia si trasformò in Repubblica Italiana a seguito di un referendum popolare del quale furono protagonisti altri tra cui, dicono i maligni, un certo numero di imbroglioni elettorali. Ma, brogli o non brogli, resta comunque il fatto che la Repubblica è una realtà incontrovertibile e la sua ricorrenza trova i simboli più significativi tutt’al più nei partiti, nel Presidente, nel Parlamento, persino nel Presidente della Camera attuale che saluta col pugno chiuso e presuntuosamente crede di avere il potere di dedicare la celebrazione del 2 giugno a chi vuole lui.
Perché, quindi, questa importante ricorrenza viene solennizzata con una tradizionale parata militare?
Il fatto è che all’indomani della guerra, persa malamente, e del nuovo assetto istituzionale favorito dalla spinta delle baionette dei liberatori, la gracile repubblichetta aveva bisogno di affermarsi quale Stato indipendente e sovrano, non semplicemente sotto tutela altrui. Lo doveva fare per potersi accreditare nei confronti dei propri cittadini, stremati ed umiliati da una guerra che aveva distrutto il paese, nonché dei nuovi “alleati”, essendo scampato ad un destino “comunista” per il quale tanti facevano il tifo, in Italia e all’estero. Doveva insomma dimostrare che il pericolo della perdita della libertà e della sovranità, nonché dell’affermarsi di un regime illiberale, era definitivamente scampato.
E quale miglior mezzo delle Forze Armate per indicare questa indipendenza? Le Forze Armate, infatti, sono il principale indicatore della sovranità, dell’indipendenza e quindi della libertà nazionale, in quanto, a differenza delle altre istituzioni, non si ripromettono semplicemente di tutelare e applicare la legge, che potrebbe magari essere penalizzante per lo Stato in determinate circostanze ma, unicamente, l’interesse nazionale, la ragion di Stato. Avere le Forze Armate (efficienti) significa insomma dire agli altri interlocutori “siamo liberi e, in quanto tali, siamo disposti a batterci contro ogni interesse altrui che, seppur legittimo, conculchi il nostro”; e lo possiamo fare perché disponiamo di uno strumento che risponde prima al Capo del nostro Stato che a partiti, tribunali o istituzioni nazionali o internazionali magari più autorevoli dello stesso. Questa condizione è esemplificata dal tipo di “contratto” che lega queste forze allo Stato, concretizzato in un giuramento di fedeltà nei confronti della persona del Capo dello Stato (Re o Presidente non cambia la sostanza) che ne diventa Comandante Supremo, nell’assunto che l’interesse nazionale e la sopravvivenza del popolo in quanto comunità coesa e riconoscibile sono i valori superiori su cui è chiamato a vigilare.
In fin dei conti, pensiamoci bene, non è questo che come Italiani frustrati spesso invidiamo agli anglosassoni quando proclamano “right or wrong, my country”, senza imbarazzi? Cos’è questa frase, probabilmente nata in Francia ai tempi della Rivoluzione, se non una dichiarazione di sfida, con quel “wrong”, a chi coltivasse interessi incidenti, per quanto leciti, nei confronti di quelli nostri?
Tornando alla sfilata del 2 giugno, quindi, quello che lo Stato italiano del dopoguerra voleva affermare, con un tintinnar di sciabole che non poteva impensierire più di tanto, era la propria indipendenza ritrovata, la propria libertà. E lo faceva identificandosi (identificandosi) con le sue Forze Armate, il solo mezzo idoneo a questo scopo, che sfilavano con le loro Bandiere di fronte all’unico titolare del giuramento di fedeltà che avevano prestato.
Purtroppo, però, la sovranità e la libertà che la sottende, non sembrano essere più i valori supremi unanimemente riconosciuti da una società italiana che si disprezza e che, fino ad altissimi livelli istituzionali, pare in trepida e spasmodica attesa di qualcun altro che se la accatti: perché abbiamo un’economia in crisi, perché c’è troppa mafia, perché siamo troppo oscurantisti, perché siamo egoisti, perché siamo omofobi, perché siamo stati fascisti, perché siamo maschilisti, perché eravamo cattolici e così via.
Da questo a snaturare la parata, iniettandole greggi di sindaci beatamente plaudenti a spasso in via dei Fori Imperiali e giovani e meno giovani generosi che popolano la galassia infinita del volontarismo a-militare con tutto il bagaglio della loro simil-marzialità della domenica, poco ci manca. Anzi, nulla. Peraltro, la triste trasformazione di quella che era una orgogliosa dimostrazione di forza e virilità in una semplice e dispendiosa vetrina di umanità varia non è colpa esclusiva di quest’ultimo governo, che non ha fatto altro che darvi il colpo di grazia, ma è un “crimine” che si trascina da lustri, anzi da decenni. Da quando, con la scusa delle vibrazioni pericolose per la tenuta dei monumenti, si proibì lo sfilamento dei mezzi pesanti, quelli più attesi dall’appassionato pubblico di allora, proseguendo con un continuo di aggiunte a-militari alla manifestazione che non hanno avuto tregua neppure nel centenario della Vittoria del 1918.
E ora, tristemente, non ci resta che osservare quello che è rimasto. Una scialba manifestazione di velleità umanitarie ed internazionaliste varie, sfarinate su un labile contesto militare con qualche fuciletto e molte fanfare del quale è politicamente corretto sottolineare solo le supposte pulsioni pacificatrici di operatori umanitari di serie B; e che non consente la pronuncia della parola Patria se non al rituale omaggio al Milite Ignoto – forse per non farlo inquietare, per non turbarne il sonno glorioso – poco prima dell’inizio della cerimonia.
Insomma, chi ha snaturato la cerimonia del 2 giugno - trasformandola anzi in occasione di scontro e di provocazione come nel caso delle affermazioni del Ministro della Difesa sull’inclusività della stessa (“prima” era “esclusiva”?) e l’urticante rinforzino del Presidente del Consiglio sui fucili da trasformare in borse di studio sulla pace (v.video) - l’ha fatto consapevolmente e non si limita a palesare una peraltro già nota antipatia per i militari e la militarità in genere, ma prende una posizione chiara ed inequivocabile sulla volontà o meno di affermare ancora la nostra sovranità.
Che lo facciano nell’attesa di trasformarci in terminali di qualche piattaforma informatica che prenda le redini del nostro essere nazione o nell’anonimo brodo antropologico di un pentolone europeo nel quale popoli, lingue, etnie e tradizioni si annullino completamente, poco cambia. È comunque la dissipazione del popolo italiano per come è stato conosciuto per secoli quella che vogliono, erodendone prima di tutto le ragioni di orgoglio che l’aggregavano.
Non è una chiamata alle armi per una battaglia di retroguardia, quella che propongo, quanto uno scatto di intelligenza che faccia capire al rospo – noi – che è la nostra lessatura quella che un po’ per volta stanno operando, non la preparazione di un bagnetto caldo.
Foto: presidenza della repubblica / ministero della difesa / presidenza del consiglio dei ministri