Gli eventi di Colonia e Amburgo hanno confermato drammaticamente come i temi dell’accoglienza e dell’integrazione meritino una profonda riflessione, anche sul piano metodologico.
L’integrazione è sempre un processo lungo, non facile, per di più se si decida di percorrere la strada del multiculturalismo o dell’interculturalismo.
Per portarla a buon fine occorre dedizione costante e la volontà di ambo le parti.
Il che, quando lo “straniero” è di cultura islamica, a dispetto delle tante anime belle trasversali al mondo politico e religioso, è quanto mai difficile se non irrealizzabile.
Samuel Hungtinton nel suo celebre libro “The clash of civilisation” si esprime in modo eloquente al riguardo: ”Il vero problema dell’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale, una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte della superiorità della propria cultura e ossessionate dal loro scarso potere di cui dispongono. Il problema dell’Islam non è la CIA o gli Stati Uniti, ma l’Occidente, una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte del carattere universale della propria cultura e credono di doverla diffondere ovunque nel mondo”.
E’ una cultura, quella islamica, che vede nei capisaldi della civiltà occidentale - il libero arbitrio, l’individualismo, la separazione tra Stato e Chiesa, la democrazia, il liberalismo economico, il rapporto paritario tra sessi – una vera e propria minaccia ai suoi valori.
Un’antinomia che il fenomeno migratorio accresce minando la tenuta sociale, e favorendo la diffusione di movimenti politici xenofobi, incoraggiati dal rifiuto delle comunità islamiche in Europa ad aderire alla visione occidentale di società.
Una recente ricerca di Paolo Quercia analista del Centro Militare di Studi Strategici (CEMISS) ha evidenziato come dall’Europa, negli ultimi quattro anni, sia partito per unirsi alla jihad circa il 20% di tutti combattenti stranieri Foreign Fighters (FF) presenti in Iraq e Siria (circa 3000).
Dato ancor più interessante nella sua drammaticità se rapportato alla percentuale di musulmani sunniti presenti nel nostro continente - l’1,5% su scala mondiale (19.000.000 contro 1.500.000.000) -, che porta a concludere come in Paesi come il Belgio e la Svezia sia molto più facile diventare jihadista di quanto non lo sia in Arabia Saudita o in Sudan. (Dalla cittadina svedese di Gothemburg sono partiti, infatti, più jiadhisti che dall’intero Sudan).
Numeri non incoraggianti, se consideriamo che la stragrande maggioranza dei combattenti è costituita da cittadini europei, nati nel nostro continente e, in moltissimi casi, con un ottimo livello di scolarizzazione.
Quando pensiamo a cosa fare, a come reagire, l’integrazione ci appare come l’unica ricetta possibile, anche sul piano del politicamente corretto.
Pensiamo ad una società integrata come una comunità allargata in cui tutte le culture vivono in armonia nel totale reciproco rispetto: una società multicolore, multiculturale.
Una società però di difficile realizzazione con cittadini di fede musulmana.
“Perché l’integrazione – come scrive Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 10 gennaio scorso - è la negazione del multiculturalismo che invece in Occidente moltissimi ancora considerano la linea da seguire nel rapporto con gli stranieri, in quanto espressione del politicamente corretto”.
L’integrazione implica una rinuncia alla propria cultura a tutto vantaggio di quella del paese d’adozione, riconosciuta come dominante.
Negli USA, la patria del “melting pot”, tutti si riconoscono in una lingua, una storia comune, una filosofia comune di società e di cittadinanza, davanti alle quali hanno sacrificato le proprie.
Nel resto delle Americhe, come in Europa, o in Australia, la seconda generazione di origine italiana, non parla più l’italiano e ha dell’Italia la stessa visione, magari stereotipata, presente nel Paese d’adozione, ormai divenuto il loro Paese.
Dobbiamo allora chiudere le porte e rispedire tutti a casa? Non credo, sarebbe incoerente con la nostra civiltà, anti-occidentale.
Iniziare però a distinguere tra migranti economici, rifugiati, richiedenti asilo e profughi questo si – credo – servirebbe ad orientare le politiche di accoglienza nazionale, da fondare sul diritto internazionale nel (solo) caso dei rifugiati, e sulla ricettività generale del “sistema” Paese nelle altre fattispecie.
Inoltre, (per gli stranieri ammessi) non sarebbe errato collocare il permesso di soggiorno e l’eventuale, successivo riconoscimento della cittadinanza, all’interno di un percorso di adesione ai nostri valori e principi, un obbligo formalmente assunto tra Stato e (aspirante) cittadino, suscettibile di revoca in caso di non osservanza da parte del contraente.
(foto: U.S. Army)