Con una certa sofferenza, abbiamo recentemente visto a Washington come l’età avanzata e la confusione degli obiettivi possano oggi far apparire inconsistente e disorientato anche chi per decenni è stato un grande protagonista della politica internazionale.
No, non mi riferisco al presidente Joe Biden, bensì all’Alleanza Atlantica che, in questi giorni con il Summit (ovvero il “Vertice dei capi di Stato e di Governo”) di Washington, ha inteso celebrare il suo 75° compleanno.
In una situazione geopolitica come quella attuale, che non esiterei a definire estremamente critica, caratterizzata da situazioni conflittuali ai confini orientali e sud orientali dell’Alleanza (conflitto russo-ucraino e conflitto Israele-Hamas), dal blocco delle rotte marittime di Suez che strozza i flussi vitali verso l’Europa, senza considerare il crescente fastidio con cui in Asia, in Africa e in America Latina i governi guardano alle “nostre battaglie” spesso considerate ideologiche e lontane dal loro sentire, mi sarei aspettato l’approvazione di un documento da un lato più forte e dall’altro più articolato. Invece, personalmente, ho trovato la Summit Declaration persino più scialba di molte di quelle che negli ultimi anni la hanno preceduta.
È vero che trovare l’accordo a 32 non è facile (è più facile omettere qualsiasi punto di contrasto per non compromettere i sorrisi per la foto finale dei leader). Inoltre, una leadership statunitense per lo meno traballante può aver ingenerato il panico, soprattutto tra i leader che ne avevano abbracciato la linea senza se e senza ma e che magari temono di trovarsi il cerino ucraino in mano se alla Casa Bianca dovesse tornare Trump. Pertanto, sembra si sia preferito concentrarsi su pochi punti su cui si può trovare l’accordo, ignorando tutti quelli che potrebbero generare contrasti, e mettere in sicuro l’aiuto all’Ucraina prima di un possibile cambio di politica USA.
Certo, a margine del Summit, sono stati siglati accordi importanti tra le nazioni (come l’accordo quadrilaterale tra Francia, Germania, Italia e Polonia) ma si tratta di accordi tra singoli paesi membri e non decisioni collettive dell’Alleanza, o l’invio dei famosi (e ormai non nuovissimi) F16, oggetto di accordi bilaterali tra i paesi donatori e l’Ucraina.
Guardando la Summit Declaration più in dettaglio, ne ho trovato stonato il tono nel rivolgersi alle controparti. Mi sembrava di assistere all’arrivo in classe di una maestra inacidita, conscia di non avere ascendente sulla sua riottosa scolaresca, che sgrida con tono severo gli alunni più birboni, dispettosi e restii all’ordine, minacciando punizioni severe.
Peccato che i reprobi duramente sgridati (Russia, Cina, Bielorussia, Nord Corea ed Iran) non fossero in classe e che, comunque, difficilmente la maestra (intesa come NATO e non come USA) sarà in condizione di dare seguito alle sue minacce di punizione esemplare.
Desta anche perplessità, già all’articolo 1 della Declaration, ribadire due concetti che dovrebbero essere assolutamente dati per acquisiti e che non richiederebbero, a mio avviso, di essere dichiarati. Ovvero che “la NATO è una Alleanza difensiva” e che “l’articolo 5 del Trattato è di ferro”. Ribadire l’ovvio fa sorgere il dubbio dei latini “excusatio non petita accusatio manifesta” e non mi pare proprio il caso di farlo.
Lasciando da parte la forma e venendo ai contenuti, l’immagine di un’Alleanza che ha avuto un passato importante per garantire la stabilità in Europa1 non può essere ridotta all’enfasi sulla gara a chi spende il fatidico 2% per la difesa e al solo supporto “esterno” fornito all’Ucraina (supporto che in passato è stato più verbale che reale). È poco e, a mio avviso, poco significante.
In merito agli aspetti finanziari, ricordo che l’impegno assunto al Summit di Cardiff nel 2014 era non solo di portare entro il 2024 le spese per la Difesa a 2% del PIL per ogni paese membro, ma soprattutto dedicare almeno il 20% di tale spesa (pari almeno al 4 per mille del PIL) al “defence spending on major new equipment, including related research & development” ovvero all’innovazione nel settore della difesa. Tale requisito, fortemente voluto dall’Amministrazione Obama e poi sostenuto da tutte le successive amministrazioni USA, così come è formulato è un parametro che non aveva come prioritario obiettivo l’efficienza della difesa dell’Alleanza. Infatti, senza essere vincolato a capacità operative che le singole nazioni debbano rendere disponibili alla NATO, il dato della spesa ha in realtà poco a che fare con la sicurezza dell’area euro-atlantica. Sicuramente nell’elaborare tale vincolo Washington ha pensato all’effetto che avrebbe potuto avere sull’elettorato americano più isolazionista, quello preoccupato per un burden sharing da essi ritenuto iniquo. Soprattutto, però, non si può non tener conto del fatto che da qualsiasi incremento della spesa militare da parte dei paesi europei non potrebbe non trarre un guadagno economico il maggior produttore ed esportatore di armamenti a livello mondiale, appunto gli USA.
In realtà, che contributo forniscano alla sicurezza NATO ad esempio le spese militari USA a favore di Sud Corea o Taiwan o quelle francesi nella così detta Francafrique è perlomeno discutibile. Certo, gli strumenti militari di molti paesi dell’Alleanza (tra cui anche il nostro, ma certamente non solo il nostro) non sono pienamente adeguati a possibili minacce del nuovo contesto geo-politico, ma non è questione di quanto si spenda bensì di capacità operative che si sia in grado di garantire (ovvero, come e per che cosa si spenda dovrebbe essere ben più importante di quanto si spenda).
In quest’ottica, mi è parsa un po’ fuori luogo l’enfasi data all’incremento di decimali di spesa, soprattutto da parte di una organizzazione (la NATO) dove il principio cardine di finanziamento delle operazioni militari è “costs lie where they fall”, ovvero ognuno si paga le spese per il trasporto, l’impiego e il sostentamento dei propri contingenti in operazioni. Ovvero: “chi ha dato ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto...”. Un approccio che poco si concilia con il determinare parametri di spesa nazionale.
Era prevedibile che il sostegno all’Ucraina rappresentasse l’argomento centrale della Declaration. Peraltro, come già evidenziato in un precedente articolo su questa testata (Stoltenberg, la NATO e le armi occidentali in Ucraina), il ruolo della NATO nel conflitto è stato sinora abbastanza limitato. Certo, c’è stato il rinforzo della frontiera orientale dell’Alleanza, attuato esclusivamente all’interno del territorio dei paesi membri, senza alcuno sconfinamento. Schieramento di assetti (aerei, terrestri e navali) aventi l’obiettivo di dissuadere ed eventualmente contrastare possibili sconfinamenti di forze russe/bielorusse in paesi NATO e di dimostrare la coesione militare dell’Alleanza in caso di aggressioni. Attività in piena coerenza con i compiti di “difesa e deterrenza” che, sin dal 1949, hanno rappresentato il “core business” dell’Alleanza.
Per il resto, il segretario generale si è, di fatto, prodigato per convincere le singole nazioni a fare di più in termini di aiuti militari diretti all’Ucraina, sanzioni economiche contro la Russia, sostegno economico all’Ucraina, ecc. Decisioni, però, assunte altrove (a Washington, in ambito UE o nelle singole capitali europee). La NATO in questo processo ha al massimo il ruolo di monitorare e possibilmente coordinare l’afflusso di quanto reso disponibile sino ai paesi confinanti con l’Ucraina. Tutto, peraltro, sempre in base a quanto deciso a monte individualmente dai singoli paesi donatori, paesi che non sono solo membri NATO.
Nella Declaration, oltre a tante dichiarazioni di principio (che di principio restano), alle accuse rivolte alla Russia definita “the most significant and direct threat to alllies’ security” (accuse che, per quanto giustificate, lasciano il tempo che trovano) e alle intimazioni rivolte a Cina, Corea del Nord e Iran di smettere di sostenere lo sforzo bellico russo (intimazioni che possono apparire stonate dato che anche noi sosteniamo militarmente uno dei belligeranti), appaiono solo due misure concrete di un certo respiro: la costituzione del NATO Security Assistance and Training for Ukraine (NSATU) e l’impegno finanziario relativo al Pledge of Long Term Security Assistance for Ukraine.
Il NSATU avrà il compito di coordinare la fornitura, da parte di paesi NATO e partner, di armamenti e di addestramento all’Ucraina, in maniera organica e prolungata, in modo da garantire che il sostegno all’Ucraina sia incrementato, prevedibile nel tempo e coerente con le esigenze. Il NSATU sarà dislocato in un paese Alleato (in Germania a Wiesbaden) e fornirà supporto alla difesa ucraina. La Declaration dice che “il NSATU, non renderà la NATO parte del conflitto”. Su questo punto sarà interessante vedere cosa ne pensino i russi, perché sembra tanto il classico tirare il sasso e nascondere la mano.
Il Pledge of Long Term Security Assistance for Ukraine sembra tanto un tentativo dell’amministrazione Biden di correre ai ripari e bloccare nel tempo gli aiuti all’Ucraina prima del probabile arrivo di Trump. Il piano prevede una donazione che includa supporto militare e finanziario di 40 miliardi di dollari l’anno (la fetta italiana sarebbe di 1,7 miliardi di dollari). Senza entrare nello specifico e nell’entità della cifra, ciò che preoccupa è che non si tratti di un “one-shot”, bensì di un “long term support”, ovvero un impegno a tempo indeterminato (almeno finché non cambi radicalmente la posizione di Washington al riguardo).
Era prevedibile che la Declaration trattasse anche dell’accesso dell’Ucraina alla NATO (viene dichiarato “Ukraine’s future is in NATO”) ma non vengono definite date. Argomento scottante, su cui dibattono tutti i Summit NATO sin dal quello di Bucarest del 2008, quando gli USA di Bush avrebbero voluto avviare il processo di invito per Ucraina e Georgia, cui con lungimiranza all’epoca si opposero Francia e Germania. Viene di fatto strapazzato l’articolo 102 del trattato Atlantico, ma non è la prima volta: da 30 anni a questa parte ci siamo abituati all’accesso di nazioni che non hanno la potenzialità di contribuire alla sicurezza dell’Alleanza (come invece l’articolo prevede) e che devono dipendere da aiuti esterni anche per funzioni basilari, quali la difesa del proprio spazio aereo.
Sono note le diverse posizioni nazionali al riguardo dell’accesso anche in relazione al dettato dell’articolo 53 del Trattato Atlantico. Personalmente non sarei entusiasta di un accesso affrettato dell’Ucraina nella NATO, prima che vengano attuate le “democratic and security sector reforms” richieste anche dalla Declaration (parag.16). Inoltre, l’accesso dell’Ucraina (e in prospettiva di Georgia e Moldavia, come promesso da tempo) comporterebbe un’Alleanza ancor più preoccupata del fronte Est e indifferente a quello Sud.
Peraltro, ritengo molto più preoccupante il più volte promesso rapido accesso alla UE, non solo per motivi di ordine economico finanziario facilmente intuibili, ma anche in termini di difesa. Pochi sembrano rendersi conto che l’articolo 42 comma 7 del Trattato sull’Unione Europea4 in tema di obblighi di difesa comune nel caso un paese membro sia oggetto di attacco sono più stringenti rispetto a quelli dell’art. 5 del Trattato Atlantico!
Continua il tentativo USA, iniziato già con Obama e proseguito con Trump di coinvolgere sempre di più la NATO nel confronto tra USA e Cina nell’Indo-Pacifico. Ciò è dimostrato, oltre che dai ripetuti attacchi alla Cina nel testo della Declaration, dalla presenza dei partner USA in quella regione: Giappone, Sud Corea, Australia e Nuova Zelanda. Chi scrive ritiene che la componente europea della NATO abbia già sin troppi problemi connessi con la crisi ucraina (con la quale ci si sta bene o male confrontando) e con l’instabilità in Nord Africa (oggetto di preoccupante penetrazione russa e cinese) e in Medio Oriente (inclusa la minaccia Houthi alla libera navigazione) per farsi coinvolgere in questo allargamento verso l’Indo-Pacifico.
Purtroppo, il “fronte Sud” continua ad essere la cenerentola dell’Alleanza. Se ne accenna velocemente solo in uno degli ultimi dei 38 paragrafi della Declaration: il 32°. Dopo vengono trattati argomenti di urgentissima trattazione, quali il cambiamento climatico (34° paragrafo) e il progetto Women Peace and Security (35°).
Non si accenna alla situazione della Libia (nel caos da 13 anni dopo la brillante operazione NATO Unified Protector e dove da anni c’è una ingombrante presenza russa che dovrebbe preoccupare Roma), del Sahel (dove i francesi e statunitensi vengono cacciati e sostituiti dai russi) e soprattutto della preoccupante situazione in Israele, Gaza e Libano. Troppo difficile trovare un accordo?
Il paragrafo comunque sottolinea l’esigenza di un nuovo approccio nei confronti del Nord Africa e Medio Oriente e prevede la designazione di uno “Special Representative” per confrontarsi con i paesi della regione. Occorrerà poi vedere quali poteri e quale deleghe di fatto verranno attribuite a tale Rappresentante Speciale, augurandosi che non sia un incarico solo di facciata e che gli venga assegnato uno staff adeguato (cosa che potrebbe essere più difficile). Si assisterà alla solita corsa dei politici per “piazzare” nell’incarico un italiano piuttosto che un francese o un turco, ma ci si preoccuperà anche delle competenze assegnate all’incarico? Temo di no.
In merito al “fronte Sud” stupisce che, invece, non si vogliano valorizzare e rinvigorire due partenariati rodati dell’Alleanza il Dialogo Mediterraneo (peraltro, voluto a suo tempo proprio dall’Italia), che raduna vari paesi del Nord Africa e del Medio Oriente (tra cui Israele) e l’Istanbul Cooperation Initiative, che riunisce vari paesi arabi del Golfo Persico. Una occasione persa.
Una buona notizia, per il fronte Sud, è invece l’apertura d un Ufficio di Collegamento NATO in Giordania. Sarebbe importante per l’Italia se la NATO riuscisse ad aprirne uno anche in un paese del Nord Africa (anche se sarebbe ben più difficile).
In conclusione, è stato celebrato il compleanno di un’Alleanza che non sembra in forma smagliante, che fa la voce grossa sulla crisi ucraina, senza però assumersi reali responsabilità nei confronti di Kiev, che teme per un possibile cambio di inquilino alla Casa Bianca (dimostrando quanto l’Alleanza sia diventata dipendente dagli USA), che accetta di seguire le sirene dell’Indo Pacifico senza rendersi conto di non avere la capacità di avventurarsi i quegli oceani insidiosi e che, per contro, si occupa solo con estrema sufficienza dei rischi immediati provenienti dal suo fianco sud.
Insomma, a Washington Biden sembra non essere l’unico a non essere invecchiato bene.
1 Ci si riferisce in particolare ai seguenti due periodi della vita dell’Alleanza:
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dal 1949 al 1989 (anno della fine della “guerra fredda”): ha rappresentato l’intelaiatura militare prima che politica della difesa europea dalla minaccia sovietica e “base oltremare” per il mantenimento di assetti militari USA stabilmente sul continente europeo;
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dal 1989 al 2001 (anno dell’attacco alle Torri Gemelle e dell’avvio della global war on terror statunitense ): ha agito questa volta da struttura politica prima che militare, capace di riempire il vuoto lasciato dallo sfaldamento del Patto di Varsavia e di assolvere le funzioni di “faro” per l’avvio del processo di “democratizzazione” dell’Est Europa, che la UE non sarebbe stata ancora in grado di assolvere da sola (e che comunque gli USA non volevano lasciare alla sola UE). In questo periodo la NATO ha assolto un importante e insostituibile ruolo sia militare sia politico per la pacificazione e stabilizzazione della ex Jugoslavia (con l’avvio di efficaci interventi militari in Bosnia, in Kosovo e in Nord Macedonia);
2 L’Articolo 10 del Trattato di Washington recita: “Le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire a questo Trattato ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell'Atlantico settentrionale. Ogni Stato così invitato può divenire parte del Trattato depositando il proprio strumento di adesione presso il governo degli Stati Uniti d'America. Il governo degli Stati Uniti d'America informerà ciascuna delle parti del deposito di ogni strumento di adesione”.
3L’articolo 5 del Trattato di Washington recita: “Le Parti convengono che un attacco contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le Parti e, di conseguenza, convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la Parte o le Parti attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente o di concerto con le atre Parti, l’azione che giudicherà necessaria, compreso l’uso delle Forze Armate, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza. Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.
4L’Articolo 42 para 7 del Trattato sull’Unione Europea recita:.”Qualora uno Stato membro subisca un'aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri”