Si abbassano gradualmente i riflettori sull’Ucraina per concentrarsi molto più a sud, su una guerra che ormai molti hanno il coraggio di chiamare un conflitto di sterminio, quello in atto in Palestina. Nella giornata di Natale il 25 Dicembre il presidente israeliano Benjamin Netanyahu, ormai con un basso consenso nel suo paese, ha lanciato un altro attacco aereo che ha generato oltre 100 morti fra i civili, facendo così salire il bilancio delle vittime dall’inizio del conflitto scoppiato il 7 ottobre a 20.674. Vittime sono soprattutto donne e bambini.
Del resto Netanyahu è stato chiaro anche con Biden che, in questo caso, cercava di indossare le vesti di paciere del conflitto: Israele continuerà la guerra fino a quando non saranno raggiunti tutti i suoi obiettivi che prevedono oltre al rovesciamento del gruppo terroristico di Hamas, anche la liberazione degli ostaggi detenuti nella Striscia.
Una guerra di odio seppur le ragioni di Israele siano chiare dopo il primo attacco di Hamas che ha acceso la miccia. Una devastazione che rende ancora più difficili gli interventi dell’ONU che sta adottando strategie per rafforzare l’ingresso di aiuti umanitari in Palestina. Il vero problema oggi è come portare i soccorsi in Palestina bypassando ospedali che celano, stando all’intelligence, depositi di armi e cunicoli sotterranei, e continui attacchi aerei.
Intanto in Israele il dissenso politico avverso al governo Netanyahu è sempre più dilagante nonostante il presidente diffonda discorsi patriottici che in realtà suscitano l’effetto opposto fra una buona parte della popolazione, quella che osserva fondamentali i rapporti commerciali e diplomatici con l’occidente al termine del conflitto.
C’è anche da dire che la proposta egiziana in tre fasi per concludere il conflitto è stata rispedita al mittente dalla Jihad Islamica e Hamas, quindi è un incognita dove si prevede ancora troppo sangue innocente. Cioè di quella maggioranza di persone estranee a Hamas che stanno pagando il conto più ingiusto e caro.
La Palestina conta circa 5milioni di abitanti e di questi ogni giorno centomila lavorano nel confinante Israele. Trai i lavoratori della Striscia più del 60% è impiegata nel settore edilizio e più in generale la manovalanza palestinese risulta un tassello fondamentale per il PIL israeliano. Decimare o sterminare una popolazione solo per aver la colpa di abitare una terra - la loro terra – nella quale ci sono anche dei gruppi terroristici è un mero abbaglio dal sapore di una cieca e sanguinaria vendetta. Un concetto troppo contrastante con la storia del popolo ebraico e lontano da quel concetto di civiltà che ci sia aspetterebbe dall’unica democrazia presente in Medio Oriente. Una condizione profondamente imbarazzante per gli ebrei nel mondo e al tempo stesso offensiva per la stessa comunità che abita Israele, che ricordiamo essere formata dal 74,2% di ebrei, il 17,8% da musulmani, il 2,0% da cristiani.