Qualche giorno fa la Russia ha annunciato il ritiro dal Grain Deal e di voler ricorrere al diritto di visita ed ispezione delle navi neutrali dirette nei porti dell’Ucraina o in partenza da essi. Lo stesso ha annunciato l’Ucraina per le navi dirette nei porti russi o in partenza da essi.
Premesso che un attacco in mare aperto contro una nave mercantile di un Paese neutrale (fosse anche Nato) solo perché proveniente o diretto verso l’Ucraina non farebbe il gioco dei russi, ciò non toglie che questa significativa dichiarazione possa ricondursi almeno, come spiegato da Mosca, all’utilizzo del “diritto di visita”, previsto sotto e al di sopra degli stretti internazionali e delle acque arcipelagiche dei belligeranti conformemente al diritto internazionale generale.
Tuttavia all’Onu non è ancora pervenuta la formale denuncia dell’accordo da parte del Cremlino. Questo può significare che Vladimir Putin non voglia uscire anche de jure dalla "Black Sea Grain Initiative", ma che punti a rinegoziarne i punti favorevoli a Kyiv.
La tesi ufficiale di Mosca è che i corridoi navali nel Mar Nero, istituiti per salvaguardare le rotte del grano, siano stati utilizzati dagli ucraini a scopo militare, colpendo obiettivi russi facendosi “scudo” delle garanzie date dall’accordo di Istanbul firmato a luglio 2022.
Il ritiro dei funzionari russi dal coordinamento congiunto di Istanbul che monitora il rispetto dell'accordo sul grano è un altro gesto politico del Cremlino con un grande significato. La Russia preme sulla Nato e ritiene che una escalation politico-diplomatica relativa all’accordo sul grano possa spingere quelli che considera gli unici suoi interlocutori nel campo nemico a riaprire alcuni dossier.
I violenti bombardamenti cui sono sottoposte infrastrutture importanti per l’Ucraina (e per il mondo), come il porto di Odessa, ed il posizionamento di mine nel Mar Nero sono segnali della nuova strategia russa, basata tutta sul “potenziale di ricatto” nei confronti dell’Occidente.
Occorre tenere presente che, per come sono strutturate, le operazioni di minamento russe hanno una chiara connotazione offensiva, volta ad interdire la navigazione agli ucraini e ad intimorire il naviglio civile neutrale.
L’obiettivo ultimo non è militare ma politico in questo caso (ma funzionale a strozzare la controffensiva delle Forze armate ucraine): fomentare, sulla base dell’accordo del grano, le divisioni tra Nato e Ucraina.
La campagna aerea russa ha, invece, un doppio scopo: militare e politico.
Il primo volto a fiaccare in profondità la logistica ucraina mentre le forze di Kyiv sono impegnate nella in una offensiva che stenta a decollare. Dal fronte ci si aspetta una accelerazione a breve, anche per rispondere alle pressioni che la Nato esercita in tal senso sugli ucraini.
Già il generale caduto in disgrazia con Putin, Surovikin, aveva sostenuto l’importanza di strutturare una campagna che sfruttasse la superiorità aerea russa per disarticolare la catena logistica nemica e gettare la popolazione nel terrore.
Clausewitz nel “Della Guerra” spiegava che, al momento dell’allungamento delle linee di comunicazione e rifornimento (GLOCS) di un esercito all’offensiva, per i difensori sarebbe stato opportuno tentare attacchi in profondità nelle retrovie.
Colpire con missili e droni le città ucraine risponde a questa strategia.
Sotto il profilo politico, bombardando Odessa, il Cremlino vuole dimostrare che l’Ucraina non è in grado di garantire la sicurezza delle rotte del grano, colpendole direttamente alla “fonte”, senza un rientro della Russia nella "Black Sea Grain Initiative".
Tutto sommato, l'accordo sul grano resta l’unico strumento nelle mani della politica russa per tentare un “dialogo muscolare” con gli Usa e con la Nato, trattando l’Ucraina non come un interlocutore ma come “oggetto” dei colloqui.
Si tratta di un azzardo diplomatico poiché mira a forzare la mano all’Occidente con la minaccia della crisi alimentare, ma che rischia di alienare alla Russia (ed i segnali ci sono tutti) le simpatie di una parte degli Stati africani o di influenzare negativamente la percezione di quelli che si sono mantenuti fin qui “neutrali” rispetto al conflitto in corso.
È un’ipotesi che, però, non viene presa in considerazione dagli occidentali, anche perché, secondo i dati Onu, il “ricatto della fame” agitato dai russi come una bandiera riguarda 400 milioni di persone, cifre che Mosca deve tenere in considerazione per capire fin dove “tirare la corda”.
A proposito di Africa, si deve ricordare che essa è uno dei “fronti periferici” della guerra russo-ucraina, un continente sul quale Mosca sta spendendo importanti risorse politiche.
In un articolo pubblicato sul sito del Cremlino il 24 luglio, Vladimir Putin ha ricordato la cooperazione russo-africana, che affonda le sue radici nell’anticolonialismo dell’URSS.
Il presidente russo ha ricordato come, grazie al sostegno sovietico, alla metà degli anni ‘80 in Africa siano state costruite oltre 330 grandi infrastrutture e industrie, come centrali elettriche, sistemi di irrigazione, imprese industriali e agricole, proponendo “soluzioni africane ai problemi africani”.
Ancora una volta, quindi, Putin ha ricollegato l’attuale presenza russa in Africa al passato sovietico, quando facendo leva sul comunismo e sull’anticolonialismo, Mosca riusciva ad influenzare gli Stati del continente nero, facendo da contraltare agli Usa ed ai loro alleati europei.
L’anticolonialismo ed il terzomondismo sono ancora le leve ideologiche che la Russia sta tentando di utilizzare con i Paesi africani anche a proposito della questione Grain Deal.
Per Putin, lo scopo iniziale dell’accordo sul grano era “garantire la sicurezza alimentare globale, ridurre la minaccia della fame e aiutare i paesi più poveri dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina”, poi trasformatosi in una grande frode da parte di statunitensi, europei ed ucraini, con un totale di 32,8 milioni di tonnellate di forniture sono state esportate da Kyiv, con oltre il 70% delle esportazioni che finivano in paesi ad alto e medio reddito, compresa l'Ue.
Putin sottolinea poi come “delle 262.000 tonnellate di merci bloccate nei porti europei, solo due spedizioni sono state consegnate: una delle 20.000 tonnellate in Malawi e una delle 34.000 tonnellate in Kenya”, bloccando, inoltre, le forniture gratuite russe di fertilizzanti e prodotti minerari ai Paesi africani.
I due Paesi citati nello specifico sono quelli che hanno chiesto in questi giorni alla Russia di ripensare alle sue scelte e di riaprire al negoziato.
La Russia sarebbe uscita dalla Black Sea Grain Initiative perché l’accordo avrebbe tradito gli scopi umanitari per i quali era stato siglato.
L’Africa per la Russia resta essenziale, tant’è vero che, nonostante l’affaire Prighozin, la Wagner è rimasta al suo posto e né il Cremlino né i vertici della Difesa moscovita hanno tentato di smantellarne la rete nel continente.
Una Russia tagliata fuori dai suoi tradizionali mercati a causa delle sanzioni, è costretta a ritagliarsi spazi altrove e, al di là del suo avvicinamento strutturale – indotto – alla Cina (che sta anche fornendo equipaggiamento militare ai russi), nel sud del mondo tenta di giocare un ruolo di primo piano per prendersi quegli spazi che le sono negati altrove.
Ecco perché Putin non può subire i contraccolpi politici e d’immagine causati dall’uscita “de facto” (non anche “de iure” per il momento) dal Grain Deal.
Certo è che, se “chiudere” il Mar Nero può giovare sotto il profilo militare, sotto quello politico-diplomatico la Russia ha compiuto, probabilmente, una mossa azzardata.
Le questioni ucraine vanno sempre osservate con un “occhio globale”.
Foto: Cremlino (Ria Novosti)