“Spetta alle forze armate egiziane intervenire per proteggere la sicurezza nazionale libica ed egiziana se vedono una minaccia imminente per la sicurezza dei due Paesi” ed ancora “i pericoli posti dall’occupazione turca rappresentano una minaccia diretta per il nostro Paese e per i Paesi vicini, in particolare per l’Egitto”. Questi sono alcuni stralci della nota stampa rilasciata qualche giorno fa dal Parlamento di Tobruk, l’assemblea legislativa libica eletta nel 2014 che non ha mai approvato il governo di Sarraj a Tripoli e che rappresenta il “braccio politico” del maresciallo di Libia Khalifa Haftar.
Una richiesta d’aiuto in piena regola quella del Parlamento cirenaico rivolta al Cairo nel momento in cui le milizie tripoline – con il sostegno dei mercenari siriani e dei “consiglieri militari” turchi – sono a pochi chilometri da Sirte.
Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha accolto la richiesta di Tobruk e proprio ieri il Parlamento dei Cairo ha autorizzato lo schieramento di truppe in Libia qualora si ritenesse minacciata la sicurezza nazionale; tradotto, l’Egitto non tollererà l’occupazione di Sirte e la conseguente avanzata nella “mezzaluna petrolifera” da parte dei turco-tripolini. Ormai il governo egiziano non nasconde nemmeno più il fatto che il suo vero nemico sia la Turchia, considerata una potenza occupante e soprattutto capace di insidiare i molteplici interessi politici, strategici ed economici del Cairo (e del blocco sunnita emiratino-qatariota) in Libia.
Sono schermaglie politiche quelle in corso tra Ankara ed il Cairo ma gli attori direttamente sul campo sono consci del fatto che è sulla loro pelle che si sta giocando la delicata partita del riassetto territoriale libico: a Tobruk sostengono a spada tratta la vecchia proposta egiziana di cessate-il-fuoco che prevede in sostanza la divisione (e la spartizione) della Libia in due Stati e che salvaguarderebbe la Cirenaica, considerata dal Cairo come zona di suo esclusivo interesse. Una proposta mai considerata da Tripoli e da Ankara, che non ha riscosso successo nemmeno in ambito internazionale proprio perché gravata dal veto della controparte nel conflitto libico, ma che è vista ormai come l’unica ancora di salvezza dal presidente del Parlamento cirenaico Agula Saleh Issa viste le sonore sconfitte subite da Haftar nelle scorse settimane.
La scorsa settimana proprio Saleh è volato a Roma per incontrare il presidente del Consiglio Conte, il ministro degli Esteri Di Maio ed i presidenti di Camera e Senato Fico e Casellati. In sostanza il politico libico ha chiesto all’Italia di sostenere il cessate-il-fuoco egiziano e la ripresa del dialogo sottolineando anche che in Cirenaica – nonostante il blocco petrolifero nuovamente imposto dalle autorità di Tobruk a dispetto dell’accordo caldeggiato dalla NOC – gli interessi italiani, su tutti quelli dell’ENI, non vengano messi in discussione.
La visita di Saleh nella capitale italiana è parte di un processo politico che vede Roma sempre più in rotta con Tripoli (di cui pure era stata il principale sponsor anche quando non conveniva esserlo e tutto lasciava presagire una facile vittoria di Haftar) e sempre più vicina alle istanze della Francia che, nel frattempo, conscia del fatto che il sostegno diretto al maresciallo potrebbe essere dannoso, sta orientando l’asse della sua “politica libica” verso Agula Saleh.
Una scelta pericolosa, nonché una conferma del “doppiogiochismo” di cui Tripoli accusa l’Italia e che la Turchia alimenta senza che Roma batta un colpo. Incapaci di tenere la posizione in un momento storico del conflitto libico, gli italiani hanno preferito spostarsi con i perdenti commettendo un errore che costerà caro in un’area di primario interesse.
Se i tripolini attaccassero – come hanno in proposito di fare – Sirte nei prossimi giorni e gli egiziani mantenessero fede alle promesse intervenendo militarmente in Libia, tutti i nodi irrisolti della fallimentare strategia italiana verrebbero al pettine. Sarebbero sacrosante la defenestrazione di chi, tra i tecnici, ha gestito il dossier libico a Roma e le dimissioni dei decisori politici; quantomeno per una questione di dignità nazionale.
Foto: Al Marsad News