Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un’escalation di eventi che alla fine ha portato all’invasione delle truppe russe dell’Ucraina. Nonostante la spietata repressione del dissenso interno, già dopo le prime ore dall’aggressione russa una donna pare sia andata sulla Piazza Rossa di Mosca e abbia mostrato un cartello con la scritta “La guerra con l’Ucraina è una vergogna per la Russia”, Pozor Rossii, in russo. Una vergogna che, anche per effetto delle immagini della sofferenza delle popolazioni locali, di giorno in giorno sta assumendo dimensioni epocali.
La complessità dello scenario geopolitico e le possibili implicazioni sull’economia globale, comunque, rendono la crisi non limitata alle sole Ucraina e Russia, ma presenta profonde implicazioni internazionali, rendendo difficile prevedere degli scenari futuri in un contesto in cui la volatilità e l’incertezza restano i fattori dominanti.
La partita che il presidente Putin aveva giocato fino al giorno prima, infatti, seppure oltremodo cinica e aggressiva, era rimasta entro i limiti della dialettica. Ciò aveva sostanzialmente portato Putin a dividere l’Europa, come sempre titubante quando c’è da prendere una posizione internazionale, aveva inferto un ulteriore colpo alla credibilità della NATO, poco tempo prima dichiarata da Macron in stato di morte cerebrale, aveva permesso che l’immagine di Biden, già in notevole difficoltà in Patria, venisse ulteriormente deteriorata dai continui annunci di invasione (con dovizia di particolari, date e orari) puntualmente smentite dalla prosecuzione della schermaglia diplomatica, aveva ridotto Macron a una sorta di cameriere che faceva la spola tra il padrone e l’indecisa servitù.
Se si fosse fermato all’occupazione militare dell’area geografica contesa dalle due autoproclamate repubbliche indipendentiste del Donbas, consolidando di fatto una situazione presente da otto anni sul terreno, senza sparare un solo colpo avrebbe ottenuto una sostanziale vittoria e il raggiungimento degli obiettivi dichiarati.
Facendo un paragone sportivo, Putin in quel momento era il centravanti che si trovava solo davanti a una porta vuota. Sarebbe bastato appoggiare la palla in rete per raggiungere il successo, che si sarebbe inevitabilmente riflesso anche sul fronte interno. Invece Putin ha voluto fare un gol di potenza (invasione dell’Ucraina) e ha calciato… sulla traversa, attirandosi gli strali di gran parte del mondo, Russia compresa, e ottenuto risultati geopolitici contrari a ciò che egli prevedeva.
Il superamento della linea di separazione tra i contendenti e l’inizio dell’invasione dell’Ucraina hanno, infatti, immediatamente ricompattato l’Europa, rivitalizzato una NATO in crisi (riavvicinando anche il rissoso alleato turco), ridato luce alla sbiadita figura di Biden, che ha riguadagnato molto consenso interno) e recuperato il ruolo mediatore di Macron. Perfetta azione contrapposta a Re Mida.
Una variante di situazione che ha preso di sorpresa tutti gli osservatori, compreso il sottoscritto. L’attacco all’Ucraina ha colto di sorpresa anche i mercati, normalmente molto attenti ai vari segnali di destabilizzazione, determinando la discesa delle borse, il crollo del rublo e una forte impennata dei prezzi delle materie prime, in particolare petrolio e gas naturale. Novità di cui non si sentiva davvero il bisogno.
Non sapremo mai se una tempestiva conversione verso la neutralità da parte di Kiev avrebbe veramente dissuaso Mosca dal mettere in atto il piano di invasione. Ciò che possiamo fare oggi è provare a comprendere quali effetti avrà questa tragedia che si è manifestata in Europa.
Il quadro geopolitico
L’approvazione della risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 3 marzo ha rotto un assordante silenzio dell’ONU, immobilizzata da un’organizzazione obsoleta e dalla possibilità di veto, visto che è coinvolto uno dei cinque rappresentanti permanenti del Consiglio di Sicurezza (sic!). Da notare, comunque, che per quanto si ricordi la partecipazione di 160 Paesi a una riunione straordinaria è già un fatto straordinario per sé. L’approvazione della risoluzione con una così larga maggioranza dei partecipanti, inoltre, la dice lunga sul biasimo che l’azione russa ha generato nel mondo. Ma, al di là di quanto scritto nella formula di condanna dell’aggressione, la riunione del 3 marzo ha dato interessanti indicazioni circa il possibile assetto geopolitico mondiale del post-guerra e ha sottolineato i noccioli duri degli opposti schieramenti.
Con la Russia (che ha votato contro la risoluzione ONU) si sono apertamente schierati, infatti, solo Siria, Bielorussia, Eritrea e Corea del Nord. Tra i 35 Paesi astenuti spiccano l’India, il Pakistan, la Cina e quasi tutti i Paesi del centro-Asia. Ciò non deve far pensare che gli astenuti abbiano in qualche modo appoggiato Putin. L’astensione ha, infatti, il significato di dimostrare il proprio appoggio indiretto sulla materia. È con questa chiave di lettura che vanno interpretati i voti in aula. Basti pensare agli Stati Uniti e a Israele che, dopo 50 anni di voto contrario alla revoca dell’embargo verso Cuba, il primo novembre 2016 si sono astenuti e hanno consentito all’ONU di revocare la misura. Un’astensione che è stata accompagnata dall’applauso dell’Assemblea Generale.
Per quanto attiene ai tre popolosi Paesi che si sono astenuti, l’India ha da sempre rapporti economici con la Russia anche in tema di forniture militari. Un settore molto delicato, vista la contrapposizione geopolitica e militare di Nuova Delhi con Pechino, ingombrante vicino e importante competitor nel continente asiatico e nel teatro Indo-Pacifico. Il Pakistan è un altro Paese dotato di armi nucleari, anch’esso con rapporti commerciali nel settore militare con la Russia, e che ultimamente si è molto avvicinato alla Cina prevalentemente in chiave anti-indiana, rivale storica, fornendo tra gli altri importanti porti per le navi cinesi.
Da parte sua la Cina sembra nascondere a fatica una certa contrarietà alle mosse di Putin contro un’Ucraina con la quale Pechino aveva in corso buoni affari commerciali, ma una certa comunanza di obiettivi con la Russia, non ultimo l’antipatia per gli USA, hanno finora suggerito al gigante asiatico di non entrare direttamente in gioco, neanche come mediatore. D’altronde, come sottolineato anche da altri osservatori, la baraonda che Putin ha sollevato in Europa, fa in qualche maniera il gioco di Xi Jinping. La rinnovata attenzione di Washington per un’Europa dalla quale gli USA si stavano gradualmente allontanando, per effetto di una discutibile politica iniziata da Obama, porta infatti con sé un parallelo allentamento dell’impegno nell’Indo-Pacifico, dove Pechino continua a nutrire ambizioni di egemonia marittima e riconquista di Taiwan, da sempre rivendicato come territorio appartenente alla Repubblica Popolare cinese. Un allentamento che, per continuare a tenere sotto osservazione le mosse della Cina e a contenerne le ambizioni, comporta un maggiore impegno da parte degli altri partecipanti al Quadrilateral Security Dialogue (QUAD), un’alleanza strategica informale di sicurezza regionale formata da USA, Australia, Giappone e India.
Anche se, visto il recente successo dell’Assemblea Generale, le Nazioni Unite hanno convocato per lunedì 7 marzo una riunione del Consiglio di Sicurezza, il Palazzo di Vetro ha manifestato una volta di più la propria incapacità di poter assolvere la missione assegnata di mantenimento della pace e della sicurezza mondiale, di sviluppo della cooperazione internazionale e di relazioni amichevoli tra le nazioni. In sostanza di essere efficace arena per la composizione pacifica delle dispute. Urge, pertanto, una profonda riforma che permetta di gestire al meglio le crisi e la cooperazione internazionale, a partire proprio dal Consiglio di Sicurezza, come da tempo l’Italia chiede a gran voce. Senza di ciò il Palazzo di Vetro rimarrà sostanzialmente un inutile baraccone imprigionato nella sua sterile burocrazia.
Al di sopra dei rumori di fondo rimangono le principali figure delle leadership nazionali, che non hanno saputo leggere correttamente l’attuale fase storica. Forse troppo intenti a curare le proprie questioni interne, forse eccessivamente indaffarati a ricercare la vittoria politica eclatante, non hanno fatto tesoro degli insegnamenti della storia, spesso costruita sul sangue delle vittime. Eppure una ragionevole strada era stata indicata già nel 2014, all’epoca dell’occupazione russa della Crimea. In un suo editoriale sul Washington Post del 5 marzo, un (mentalmente) giovane novantunenne Henry Kissinger si domandava se la comunità internazionale sapeva verso dove stata andando, e suggeriva all’Ucraina di diventare un ponte tra Est e Ovest, rinunciando a partecipare alla contrapposizione tra le due parti. Solo così avrebbe potuto sopravvivere e prosperare. Nello stesso pezzo, il diplomatico suggeriva alla Russia di astenersi dal voler far diventare Kiev un satellite di Mosca ed evitare di fare gli stessi errori del passato. Non mancavano neanche sollecitazioni per l’Unione Europea, invitata a essere meno dilatoria nelle questioni internazionali e a non subordinare le questioni strategiche alle questioni interne, cosa che normalmente permetteva a un negoziato di trasformarsi in crisi.
Le implicazioni economiche
Era nell’aria da qualche giorno. Eppure, quando la mattina del 24 febbraio Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa, ha invaso l’Ucraina, le Borse hanno subìto perdite complessive per circa 331 miliardi di euro di capitalizzazione. A Piazza Affari il Ftse Mib è sceso sotto la soglia dei 25.000 punti. Il giorno dopo, venerdì 25 febbraio, tutto già appariva significativamente diverso, e Milano chiudeva la seduta con un +3,59% e Wall Street riportava segno positivo su tutti i principali indici, dal Dow Jones al Nasdaq. La ripresa azzerava le perdite del giorno prima. Ma le tensioni, come ha dimostrato l’apertura dei mercati di lunedì 28 febbraio, sono rimaste forti, tant’è che il 1 marzo Piazza Affari ha ancora fatto vedere il segno meno. Sotto maggiore osservazione sono, in particolare, i settori più legati alla fornitura di materie prime, petrolio e gas, con le intuibili conseguenze su Pil e inflazione e i contraccolpi sui risparmi dei cittadini.
Tuttavia, anche se la diplomazia non è riuscita a evitare l’entrata delle truppe russe in Ucraina, tutto il mondo si è attivato per cercare di limitarne i devastanti effetti. I paesi occidentali hanno approvato una serie di misure economiche restrittive nei confronti di Mosca, che si sono intensificate con il passare dei giorni, fino alla decisione dell’esclusione selettiva della Russia dai sistemi di pagamento internazionali (SWIFT) e al blocco degli assets detenuti dalla Banca Centrale Russa. La risposta da parte di Mosca non si è fatta attendere, e Putin ha platealmente annunciato la decisione di mettere in stato di preallerta l’arsenale nucleare del Paese. Una misura più propagandistica che effettiva.
La situazione è in continua evoluzione e, come già avvenuto al tempo dell’insorgere della pandemia, ogni variante può cambiare in un senso o nell’altro l’impatto del conflitto sugli scenari economici e finanziari mondiali.
Va considerato che la crisi in Ucraina è giunta in un momento di ribasso dei mercati da inizio anno, a seguito delle tensioni inflattive e delle conseguenti decisioni delle autorità monetarie di rialzo dei tassi di interesse. In tale ambito è ragionevole attendersi un periodo di alta volatilità degli indici di borsa che potrebbe essere superato anche rapidamente, come già successo in altre fasi di ribasso, ove la crisi rientri in tempi ragionevolmente brevi e il sistema delle sanzioni imposte alla Russia e il forte aumento dei prezzi delle materie prime non compromettano la crescita economica globale. Se ciò non avverrà, le tensioni sui mercati energetici allungheranno il sentiero di rientro dell’inflazione.
Proprio in relazione agli aspetti energetici, i leader di Italia, Germania e Francia hanno rassicurato i propri connazionali circa le rispettive disponibilità e, per quanto attiene all’Italia, il presidente del Consiglio Draghi, nel corso del suo intervento al Senato del 1 marzo, ha rassicurato sulla tenuta energetica del Paese. I tre presidenti hanno anche dichiarato che, in futuro, si procederà con più decisione di quanto si sia fatto finora nella direzione di un maggiore utilizzo delle energie rinnovabili o del nucleare (solo Francia). Sono stati tre interventi attesi dai mercati, in quanto una carenza nelle forniture potrebbe incidere direttamente sulla redditività di molte aziende, in particolare italiane anche se, su tale aspetto, devono essere considerati anche i contraccolpi derivanti dall’aumento dei costi delle fonti energetiche o i colli di bottiglia delle catene di fornitura, qualora le sanzioni imposte dai paesi occidentali e dagli Stati Uniti isolassero completamente Putin a livello economico e finanziario, o viceversa la Russia decidesse di interrompere gli approvvigionamenti.
Anche se nell’immediato la questione appare essere sotto controllo, resta l’incognita circa le ricadute economiche del conflitto nel medio-lungo periodo. Un’apprensione condivisa dalle principali economie occidentali, soprattutto in ragione del fatto che la Russia è il principale fornitore di gas, in particolare per il nostro paese. Secondo Infodata de Il Sole 24 Ore, infatti, l’Italia importa il 46% del gas dalla Russia, che utilizziamo per produrre circa il 22,3% dell’elettricità.
La Russia, inoltre, è anche uno dei più importanti produttori al mondo di petrolio e da Mosca arrivano poi metalli largamente utilizzati in ambito industriale come l’alluminio, il nichel e il palladio, mentre da Kiev vengono importati mais e grano. Una carenza nelle forniture di questi prodotti fondamentali potrebbe incidere direttamente sulla redditività di molte aziende italiane e anche sulla filiera alimentare, con tutte le intuibili conseguenze.
C’è poi da considerare anche l’importanza degli scambi commerciali. Per quanto riguarda l’Italia si può stimare un volume d’affari complessivo, secondo fonti del Ministero degli Affari Esteri, intorno ai 20 miliardi di euro. E qualcuno si è chiesto cosa potrebbe succedere al nostro Pil.
L’aumento dei prezzi dell'energia potrebbe, infine, innescare una nuova fiammata dell’inflazione e una riduzione del Pil. Ciò nonostante, al momento i principali indicatori economici rimangono stabili, facendo ben sperare per la situazione a più lungo termine. Gli eventi precedenti, infatti, ci insegnano che nonostante la prima reazione sia stata caratterizzata da inevitabili effetti negativi, nei giorni successivi i mercati tendono a riassestarsi.
Non è la prima volta che succede. Accadde la stessa cosa nel 2014, all’epoca della guerra di Crimea. Anche in quella circostanza l’invasione russa, che portò a un inasprimento delle sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti, fece salire sensibilmente il prezzo del petrolio, che raggiunse il suo picco proprio in concomitanza con l’attacco. Ma non ci fu nessun effetto a lungo termine sui principali assets finanziari, e la volatilità venne ben presto riassorbita. Tornando ancora più indietro nel tempo, la stessa situazione si verificò anche in occasione dell’invasione del Kuwait nel 1991 e dell’inizio del conflitto in Iraq nel 2003, quando i mercati subirono effetti solo temporanei.
Conclusioni
Ora il presidente russo si è infilato in un cul-de-sac dal quale vede crescere il dissenso interno, con decise prese di posizione anche da parte di personaggi vicini al suo “cerchio magico” o comunque a lui legati da interessi economici e in grado di indirizzare l’opinione pubblica. Una situazione interna che è stata immediatamente chiara agli osservatori attenti, dato che accanto alle immagini della repressione dei dissenzienti mancano del tutto le immagini di manifestazioni a supporto dell’operato del governo, quasi sempre organizzate dai regimi dittatoriali per sottolineare il “volontario e convinto” sostegno della popolazione. Una situazione che, sotto il profilo politico, non promette nulla di buono, a meno che Putin non torni ad ascoltare chi, dei suoi collaboratori più stretti, dimostri di essere più colomba che falco. Come il ministro degli Esteri Lavrov, che durante la fase pre-crisi ha dato l’impressione di voler evitare l’irreparabile. Tuttavia, vista la propensione di Putin a eliminare (letteralmente) il dissenso, anche Lavrov ha recentemente assunto comportamenti rapaci concretizzati, secondo quanto riportato dai media nazionali, in una lettera formale pervenuta tramite l’Ambasciatore russo a Roma, con la quale con toni decisamente poco diplomatici il ministro russo minaccia i cittadini e le strutture della UE coinvolti nella fornitura di armi alle Forze Armate Ucraine circa eventuali conseguenza di tali azioni. Una manifestazione di arroganza, come ha sottolineato il ministro della Difesa Guerini, che denota come “…siamo in presenza di una situazione che anche da questo punto di vista rischia di essere esplosiva nella capacità di controllarla…”i.
Tuttavia, accanto ai proclami di fuoco, non mancano gesti che fanno pensare a una pur sempre possibile de-escalation. È come se Mosca (o una parte di essa) stesse inviando dei segnali. A partire dalla scelta della zona dove condurre gli incontri, che è stata appannaggio della Russia. La zona di Brest, infatti, è stata teatro di alcuni momenti cruciali della storia russa, come la firma dell’armistizio che pose fine alla partecipazione della Russia alla Prima Guerra Mondiale (3 marzo 1918). Sempre quest’area, l’8 dicembre 1991, ha visto la pacifica fine dell’URSS, con la firma dell’atto di indipendenza di Russia (Boris Yeltsin), Ucraina (Leonid Kravčuk) e Bielorussia (Stanislau Šuškevič).
Anche gli ultimi interventi di Putin sembrano relativamente meno aggressivi. Segno che i numerosi autorevoli appelli al cessate il fuoco (ma anche una taglia per il suo arrestoii) gli stanno facendo comprendere che non passerà alla storia come il benefattore della Madre Russia?
Ad ogni modo, qualunque cosa stia passando per la mente dell’uomo forte (ma quanto ormai?) del Cremlino, la comunità internazionale si interroga su quali scenari è oggettivamente possibile ipotizzare, in una situazione estremamente fluida come quella attuale? Angosciose incertezze che generano interrogativi complessi, come complessa è la situazione generale. Ogni previsione geopolitica, infatti, si basa sulla valutazione delle informazioni conosciute al momento. Diversamente sarebbe come leggere una palla di vetro. Pura fantasia dialettica.
Il peggiore scenario possibile è l’ampliamento del conflitto, con il coinvolgimento dei Paesi della NATO. Sia tratta di uno scenario apocalittico, giacché il potenziale nucleare dei contendenti sarebbe tale da non assicurare solo la mutua distruzione, ma anche la fine del genere umano. Tuttavia, va ricordato che la NATO è un’alleanza politico-militare difensiva e un suo intervento militare è previsto qualora ricorrano le condizioni previste dall’art. 5 del Trattato. Al momento appare abbastanza impensabile un’aggressione russa a un Paese NATO.
Vista l’ostinazione di Putin ad andare avanti fino al raggiungimento degli obiettivi prefissati e la (comprensibile) caparbietà della resistenza ucraina, una vittoria militare della Russia passa attraverso un bagno di sangue da una parte e dall’altra e la sostanziale distruzione delle infrastrutture chiave e dell’organizzazione statale ucraina. In questo caso Mosca, non avendo le forze per presidiare efficacemente quel vasto territorio si “accontenterebbe” di porre un fantoccio alla presidenza e si ritirerebbe dietro una linea da stabilire. A ovest del fiume Dniepr dimezzerebbe la superficie da controllare con il suo esercito, aiutato da un confine naturale e dal sostegno dei gruppi armati russofoni del Donbas. Ancora più a ovest, ai confini geografici del Donbas, potrebbe invece assicurare maggiore controllo dell’area, ma rinuncerebbe alla continuità territoriale verso la Crimea e all’importante porto commerciale di Mariupol. Rimarrebbero comunque da spiegare ai russi le motivazioni delle operazioni militari ben oltre una linea che si sapeva non sarebbe stata mantenuta. Priva di organizzazione statale e con un presidente disinteressato a curarne gli interessi, l’Ucraina ridimensionata potrebbe però trasformarsi in un paradiso per malviventi e organizzazioni terroristiche che, con la scusa di combattere l’occupazione russa, potrebbero prendere il controllo di quel territorio, con possibili future ripercussioni sulla sicurezza dell’area, e non solo. Non si tratterebbe di finlandizzazione ma di iraqizzazione dell’Ucraina.
Vista la disparità di forze in campo, una vittoria militare dell’Ucraina appare abbastanza remota nel breve termine. Kiev continua a combattere confidando nella limitata autonomia russa, anche per effetto delle sanzioni economiche inflitte dalla comunità internazionale. Già oggi numerose testimonianze danno l’idea, per esempio, di una catena logistica russa meno che affidabile, con mezzi abbandonati per mancanza di carburante e soldati che vagano affamati. Tuttavia, il perdurare del conflitto fino all’eventuale esaurimento delle forze russe potrebbe richiedere ancora mesi e mesi di duri combattimenti, relative perdite umane ed enormi distruzioni. Ma l’Ucraina confida soprattutto nell’efficacia della sua tattica di opposizione all’aggressore che, alla lunga, con il prevedibile stillicidio di vite russe, potrebbe causare significativi problemi di sostenibilità per l’opinione pubblica russa(e il suo regime). Il risultato sarebbe comunque un’area dove ci vorrebbe moltissimo tempo per ricostruire la presenza di uno Stato, con tutte le prevedibili implicazioni economiche e le conseguenze di ordine pubblico.
Un altro scenario ipotizzabile è la destituzione del presidente Putin, attraverso un’azione di forza condotta dai dissenzienti e appoggiata dalla popolazione. Ciò, dopo gli inevitabili contraccolpi iniziali, potrebbe portare all’immediata cessazione delle ostilità, anche se da ambo le parti i morti sul campo potrebbero rappresentare un pesante fardello e un ragguardevole ostacolo a una rapida definizione di eventuali successivi accordi di pace.
Un felice (e rapido) esito dei negoziati in corso appare come l’unica soluzione ragionevole in grado di porre fine agli scontri senza squilibrare completamente gli assetti statali ucraini e, probabilmente, permetterebbe a Putin di salvarsi (politicamente parlando), almeno per il tempo necessario a potersi organizzare un qualche luogo sicuro per godersi la pensione. Il negoziato, comunque, non si esaurirà certamente in un giorno. Una ragionevole ipotesi di lavoro potrebbe essere rappresentata dalla definizione di uno Stato neutrale che allontanerebbe la NATO dal confine geografico russo, accogliendo le più sentite istanze di Mosca. In pratica, accogliere il citato suggerimento di Kissinger del 2014. Tuttavia, sono tante le variabili che possono ancora influire sul buon esito delle trattative per un’uscita dalla crisi, compresa la caparbietà dei partecipanti e le relative eccessive pretese. Quando si tratta è normale iniziare con richieste che puntano in alto ma, strada facendo, per arrivare a destinazione ognuno deve cedere qualcosa. Non si può prescindere da questo principio.
In questi momenti è particolarmente importante agire con cautela, evitando di lasciarsi trascinare dall’emotività e avendo ben presente il quadro geopolitico di riferimento.
Al di là delle motivazioni che hanno portato a questa tragedia, materia per gli storici futuri e (forse) per i giudici, va ribadito con forza che l’aggressione armata non rappresenta una risposta civile per la composizione delle dispute.
Una cosa è certa: nulla sarà come prima. Ucraini e russi ben difficilmente accetteranno di immaginarsi ancora come popoli fratelli. Qualora la soluzione del problema non riesca a passare attraverso una decisa presa di coscienza della popolazione russa, anche quando Mosca sarà riammessa sul mercato internazionale (le materie prime e l’energia servono comunque) i russi saranno indicati come paria da buona parte del mondo e dovranno passare almeno due generazioni affinché Mosca possa tornare a essere un interlocutore relativamente attendibile per la comunità internazionale. Ci vorranno decenni per rendere un po’ meno vivido e doloroso il ricordo del tradimento, dei furiosi combattimenti, delle giovani vite strappate, dei bombardamenti, delle distruzioni, delle sofferenze causate da quella che verrà trascritta sui libri di storia come la Pozor Rossii.
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