“Adottare tutti i provvedimenti atti acché non si verifichino inconvenienti e tenersi in misura di fronteggiare l’imprevedibile”, questa, in sostanza, la direttiva che qualunque comandante ipocrita e di facciata impartisce ai suoi sottoposti per “chiamarsi fuori” da eventuali grane future. Lo stesso spirito sembra aleggiare sia nelle direttive politiche per le missioni cosiddette “di pace” sia nella motivazione della sentenza con la quale la Cassazione ha condannato in via definitiva il generale Bruno Stano a risarcire i familiari dei caduti (peraltro già risarciti dallo Stato) a seguito dell'attentato del 12 novembre 2003 a Nassirya.
Ad avvalorare questa ipotesi può essere utile un inciso che aiuti a collocare nella gusta luce lo squilibrato rapporto che intercorre tra il terrorismo e le “missioni di pace” con le quali si pretende di contrastarlo. È noto che il terrorista non ha remore morali, tanto che non esita a servirsi anche di bambini-kamikaze. Oltre a questa orrenda eventualità un soldato in “missione di pace” deve fronteggiare una serie inimmaginabile di tragiche opzioni: oltre all'uomo e alla donna kamikaze, occorre infatti fare i conti con i cecchini che si fanno scudo di donne e bambini; incombe poi il possibile impiego di gas, di sostanze radioattive e di veleni da immettere nell'aria e negli alimenti, la diffusione di virus, gli attentati con i drones, il lancio di missili su centri abitati fino a salire ai dirottamenti stile Twin Towers ed al più abusato impiego di automezzi imbottiti di esplosivo (fino alle tre tonnellate e mezzo di tritolo del caso Nassirya: il decuplo del quantitativo impiegato per gli attentati contro Borsellino e Dalla Chiesa).
Non è da dimenticare infine il pericolo rappresentato dalle forze “amiche” locali, quelle addestrate dalle stesse “forze di pace”; emblematico quanto accaduto il 18 gennaio 2011 a Balah Murgab, dove “unu giuda assassinu bestiale a Luca Sanna at colpidu inie” (questi i versi scritti da Antonio Sanna, padre dell'alpino sardo Luca Sanna ucciso a tradimento dal soldato afgano col quale aveva condiviso vitto, addestramento e ...servizio anti-terrorismo).
Il criterio seguito dai giudici della Cassazione per la condanna di Bruno Stano è stato in concreto il seguente: poiché l'intelligence aveva comunicato che sussisteva il forte rischio di un attentato, il generale Stano avrebbe dovuto “adottare tutti i provvedimenti atti acché ...ecc ecc”. Tutto il resto è stato considerato dai giudici di secondaria importanza, incluso il fatto che le allerte quotidiane fossero di ordinaria amministrazione e che fosse alquanto complesso abbandonare una struttura che si era voluta nel centro abitato, in ossequio all'italico dettame buonista di apparire “con la gente, per la gente, tra la gente”.
La pervicacia con cui la magistratura ha perseguito per 16 anni la condanna definitiva di Stano richiama alla mente altri due episodi giudiziari: il primo riguarda Mauro Moretti, prestigiosa figura di manager, Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato, condannato in via definitiva a sette anni di reclusione a seguito del noto incidente ferroviario di Viareggio dovuto al malfunzionamento di uno dei milioni di scambi della rete ferroviaria nazionale. Il secondo riguarda invece Graziano Delrio, ministro alle infrastrutture del Governo Gentiloni, che nonostante fosse il destinatario di ripetute segnalazioni di pericolo-collasso del Ponte Morandi, non è stato raggiunto da alcuna comunicazione giudiziaria... neanche come “atto dovuto”. In pratica Delrio risulta essere del tutto estraneo al disastro annunciato.
Occorre uno sforzo non indifferente per allontanare il sospetto che si siano adottati un peso e una misura per giudicare il militare Stano e il “confindustriale” Moretti e un altro peso e un'altra misura per vagliare le responsabilità di Graziano Delrio, ministro di area politica democratica.
Chi meglio del Quirinale e del CSM potrebbe fugare i sospetti che serpeggiano nell'opinione pubblica?
Certo è che per il caso Stano molti militari si aspettavano se non una presa di posizione quanto meno un segnale da parte del Comandante Supremo delle Forze Armate, ma il silenzio da parte del Quirinale si è ripetuto, ancorchè già sperimentato per il caso Cirinnà (la gentile senatrice che ha postato su facebook il suo edificante messaggio “DIO-PATRIA-FAMIGLIA:CHE VITA DE MERDA”) e confermato in occasione del divieto di sventolare il tricolore durante la recente manifestazione nella piazza di Montecitorio. (Impossibile immaginare che analoghe disposizioni possano essere impartite in qualsiasi altra capitale europea o del resto del pianeta).
Sic stantibus rebus e in virtù del fatto che quanto accaduto a Bruno Stano sarebbe potuto accadere anche a chi scrive, avendo avuto entrambi l'onore di indossare le stellette e il privilegio di comandare la Brigata Sassari, condivido in toto la sua amarezza per la condanna inflittagli ed esprimo il mio disprezzo per un certo modo di fare politica nei confronti del mondo militare nonché il mio ribrezzo per il modo irriguardoso con cui, col pretesto dell'ordine pubblico, è stato trattato il Tricolore, cui sono stati riservati minor considerazione e rispetto di quelli dimostrati verso un qualsiasi vessillo arcobaleno o un rosseggiante drappo di partito. Infine esprimo il mio imbarazzo, oltre che una profonda delusione, di fronte ai silenzi di cui sopra.
La morale è che anche per il soldato Bruno Stano vale la formula nata nel mondo politico contemporaneo, la cui attenzione è sempre più monopolizzata dal prioritario problema dall'accoglienza indiscriminata dei migranti clandestini: STAI SERENO, SOLDATO, che al tuo rientro in Patria dalle “missioni di pace”, dove si può morire come in guerra, la classe politica e la magistratura ti aspettano...al varco.
Foto: U.S. Army / web