USI OBBEDIR SUBENDO

(di Marco Bertolini)
11/03/19

Senza troppi clamori, sta passando un provvedimento che sarebbe stato definito sovversivo anche da parte di quanti, nelle Forze Armate e nel mondo che ruota loro attorno, sembrano ora accettarlo con rassegnazione e “disciplinatamente”. Parlo della sindacalizzazione, brandita come un grande risultato da una parte del governo (mentre l’altra sta zitta), che eliminerà alla radice ogni pretesa di specificità per le stesse. Verranno infatti cambiati sostanzialmente i rapporti tra i vari livelli gerarchici con l’inclusione di nuovi interlocutori che, nelle illusioni dei vertici militari, saranno dedicati a trattare questioni analoghe a quelle in precedenza riservate alla rappresentanza militare, ma che in pratica si incisteranno molto più pericolosamente di questa tra i Comandanti e i loro sottoposti. E in un’epoca nella quale sono i TAR, spesso, ad avere l’ultima parola sui provvedimenti disciplinari, sulle schede valutative e sulle promozioni del personale, non c’è da stare tranquilli.

Si tratta di una novità che trova le sue premesse, concettualmente, nella “rivoluzione” che quasi vent’anni fa ha portato alla fine della coscrizione obbligatoria in nome di una professionalizzazione della quale c’era certamente bisogno, anche se se ne sono abbracciati poi alcuni degli aspetti deteriori. Professionalizzazione che negli auspici dei sedicenti “moderati” doveva portare ad un risparmio grazie alla contrazione di uno strumento che si giudicava sostanzialmente inutile, antieconomico e folcloristico, mentre per la sinistra doveva trasformare i militari da machi fascistoidi in normali “lavoratori”, senza pretese assurde. Ecco fatto!

Per questo, l’apertura alle “pari opportunità” fino al punto di eliminare gli standard fisici di un tempo, l’adozione di parole d’ordine suicide per le quali il mestiere delle armi sarebbe roba per tutti e non per i migliori, la resa ai dettami assurdi di un certo tipo di antinfortunistica incompatibile con un’attività pericolosa per natura, ed ora la sindacalizzazione, si inscrivono in questa logica, per la quale la smilitarizzazione delle Forze Armate non è un ossimoro ma una necessità.

In particolare, con la fine della coscrizione si era già operata un’inversione etica che dal “servizio” militare, inteso come obbligo, dovere a cui corrispondere in linea col dettato costituzionale e con una radicata tradizione precedente, si passava ad un “diritto” all’impiego che, come tale, non poteva essere negato a nessuno, o quasi.

E questo non è un cambiamento da poco se si tiene conto che per natura il Soldato è destinatario di doveri molto più cogenti dei suoi diritti, di una magnitudine assolutamente non confrontabile con quella delle altre professioni, comportando l’uso delle armi non come strumento di difesa ma come mezzo per raggiungere un fine, nonché il sacrificio della vita stessa, della propria incolumità e salute, se reso necessario dal semplice assolvimento del compito. Dall’assolvimento del compito, ripeto, non da un’emergenza, come per la difesa della propria famiglia o di se stessi, o per prestare soccorso a vittime di calamità. Non è la giustizia, la solidarietà o l’emergenza, infatti, per le quali il soldato deve essere pronto a sacrificare tutto, ma la “ragion di Stato”, fosse anche per una causa che per altri Stati è ingiusta.

Proprio per questa caratteristica, il rapporto tra il Soldato e l’Istituzione inizia con un atto di liturgia laica rappresentato dal Giuramento al proprio Comandante Supremo, non a caso il Capo dello Stato, cosa molto più vincolante che non un semplice giuramento in un tribunale o la firma di un contratto in uno studio notarile. Un giuramento che è analogo a quello prestato dalle più alte cariche dello Stato, come i militari obbligate a mettere il bene dello Stato in cima ad ogni altra considerazione, anche alla propria vita. E non ci possono essere condizionamenti o diversi interessi personali, non ci possono essere cause perse in partenza sufficienti per sollevare da tale dovere, giusto o sbagliato che sia.

Insomma, senza scomodare i famigerati commissari politici delle Forze Armate dell’ex Patto di Varsavia per controllare l’ortodossia comunista del personale, si vorrebbe ora inserire nell’ordinamento militare una realtà estranea alla logica della subordinazione e ad essa contrapposta, incrinando quel retaggio della tradizionale disciplina militare che ancora sopravvive. E a poco valgono le rassicurazioni, i se e i ma con i quali le autorità di vertice militari cercano di rassicurare se stesse prima che la parte della società preoccupata da tale provvedimento, in quanto sarà alla realtà percepita che si dovrà ineluttabilmente adeguare la realtà normata, presto o tardi. E questo, chi spinge per questa “riforma epocale” lo sa benissimo. Lo vuole!

Sotto il profilo legale, il provvedimento si baserebbe su una sentenza della Corte Costituzionale che ribalterebbe una prassi in vigore in Italia da sempre per la quale la sindacalizzazione del comparto militare era proibita, come d’altronde lo è l’iscrizione ai partiti politici. È stata una prassi rispettata anche durante il “deprecato ventennio”, quando la Milizia non ebbe il diritto di indossare le stellette proprio per la sua caratura “politica”, del tutto estranea a quella del Regio Esercito. Ovviamente si trattava di norme finalizzate a garantire la terzietà delle Forze Armate nell’agone politico, che trova maggior significato in un contesto particolare come quello italiano attuale. Parlo della contrapposizione tra parti politiche visceralmente opposte, che si dividono anche sui “fondamentali” dell’indipendenza, dell’unità e della difesa dei confini, e che ha dato origine ad un turn-over forsennato di governi di orientamento diametralmente opposto su punti fondamentali di politica interna e soprattutto estera. E questa, certamente, è la base della nostra irrilevanza internazionale, dovuta all’impossibilità di stabilire linee strategiche di portata anche solo quinquennale, senza che vengano ribaltate dal governo che seguirà. Da qui, la mancanza di ragioni condivise circa la necessità della componente militare, strumento di politica estera per eccellenza, ma costretta da decenni ad una avvilente ed indecorosa campagna per giustificare la propria esistenza, fino alla recente invenzione del precetto del “doppio uso”.

D’altronde, a chi si barrica dietro questo pronunciamento della Suprema Corte per rassegnarsi all’ineluttabilità della frana e puntellare meglio il solito alibi dell’Usi Obbedir Tacendo, basterebbe far osservare che se un giudice per assurdo sancisse che non esistendo leggi che impediscono al Sole di sorgere di notte è necessario dotare le guardie notturne di occhiali affumicati, lo stesso trarrebbe una conclusione sbagliata da un presupposto giusto. Il Sole, infatti, attiene alla realtà oggettiva di fronte alla quale la legge non può nulla. E anche le Forze Armate fanno parte della realtà, come la guerra di cui sono una conseguenza: imporre per legge che “brillino di notte” può quindi essere giusto sotto un profilo teorico, per le fini papille di qualche leguleio, ma non per il mondo reale, almeno il nostro, a meno di forzarle ad essere quello che non sono. Quindi, le sentenze si rispettano, certamente, ma chi si butterà nel pozzo per primo?

Insomma, pare proprio in fase avanzata un ennesimo provvedimento finalizzato a incrinare l’autorevolezza dei Comandanti, umiliandoli con una misura basata sul falso della loro inadeguatezza a preoccuparsi dei propri sottoposti, e aprendo le porte ai tanti faccendieri che già da anni si sono autoproclamati esperti in questioni militari, senza averne alcuna conoscenza reale. Quanto al morale dei giovani quadri, come gli Ufficiali e Marescialli che iniziano in questi anni la loro carriera nel mestiere delle armi, pare se ne preoccupino in pochi. Dovranno rassegnarsi a far impiegare il proprio personale da altri per compiti di mero piantonamento quasi si trattasse di guardie giurate, a sottomettersi alle ubbie di tanti estranei al mondo militare ma con la pretesa di insegnare loro a quali regole devono informare il loro operato, Accademia o non Accademia, a mascherare la loro vocazione guerriera per non scandalizzare gli sciocchi e gli ipocriti, a trasformarsi in semplici amministratori di risorse umane buone per ogni compito, dal controllo di qualche accampamento di zingari al censimento delle discariche abusive. I più motivati, e coraggiosi, dovranno ricorrere ad ogni sotterfugio per praticare quelle attività nelle quali si sbuffa, si mangia poco e male e si cammina tanto, si impreca, ci si sporca, ci si infanga, ci si sbertuccia mani, piedi e fondo schiena, in addestramento o in operazioni, fregandosene se qualche esperto in “sicurezza del lavoro” troverà da ridire e sperando in bene. Ma credo che uno sguardo alla flessione drammatica delle domande di arruolamento nella truppa dovrebbe far capire che anche ai livelli minori sussiste una crisi motivazionale che affonda le sue ragioni nella caduta vertiginosa dell’addestramento, nonché nella fine delle fasi più impegnative ed anche sanguinose delle operazioni in Iraq e Afghanistan, che evidentemente erano più “sexy” dei piantonamenti delle stazioni della Metro.

È vero, tutte cose già viste e vissute in passato, ma ora è proprio dura. Ora è veramente tempo da duri!