Militari... la solita ordinaria follia

(di Walter Raleigh)
23/11/19

Il mondo militare è quanto di più complicato si possa immaginare; è un sentore che si può cogliere già nella differenza degli sguardi di chi ha le stellette da tempo, e di chi le vorrebbe indossare.

Uno degli aspetti più complessi sta proprio nella motivazione, o meglio in quella che dovrebbe essere una vocazione, termine sacerdotale che tuttavia, nel migliore dei casi, si attaglia ai reclutamenti solo con una pallida approssimazione; tra gli arruolati, chi regge meglio stress e delusioni non sono coloro che hanno profonde idealità, subito delusi, ma quelli che guardano alle contingenze con pragmatico realismo.

Intendiamoci, non si può vivere di romanticismi, ma certo la carenza di aspirazioni più astratte non può non incidere, specialmente quando si rivestono incarichi di comando, e si decide della sorte e della vita di persone. Con i fanti una volta si poteva anche scherzare, con i santi no: come cambiano le cose! I termini proverbiali sono drasticamente mutati, e le certezze di un tempo hanno lasciato il passo a labilità ed insicurezze che non possono non lasciare il segno.

Diciamoci la verità: i militari, in ogni latitudine, non hanno mai goduto di particolari affezioni popolari. Guardiamo al nostro Paese: una volta unito si è a lungo identificato nella lanterna dei Carabinieri che, sia in pace che in guerra, rappresentava un’imposizione, una disciplina cui sottoporre i coscritti che, da Lissa in poi, se invece avessero potuto scegliere liberamente, avrebbero magari optato per continuare la loro esistenza di pescatori, contadini, borghesi; per non parlare delle campagne condotte dai Reparti di Bersaglieri nel Meridione a seguito di un plebiscito che, così unanime, forse non è mai stato.

L’esperienza del ventennio fascista ha tentato, con esiti disastrosi, di intervenire su di un DNA assolutamente privo di qualsiasi gene bellicista o nazionalista, raggiungendo invece picchi di grottesche apologie.

Colpe? Di tutti, a cominciare da quelle di una classe politica trasformista che non ha mai saputo instillare alcun sentimento di Patria in un popolo che ha sempre fatto dell’individualismo il suo credo, e della vicinanza politica di un’autorità di fatto estera, e che dai suoi pulpiti non ha mai mancato di orientare idee e convincimenti, in una commistione di sacro e profano.

Ma le responsabilità le hanno anche i militari, e tante, e gravi. Secondo alcuni aforismi in voga, i militari sono come bambini che, si spera, diventino presto adulti, o sono comunque come soggetti che, nella loro incapacità di fornire sicurezze, sono assimilabili ai medici, per cui nulla è salutare, o ai teologi, per cui nulla è innocente. Del resto, se lo stesso Clemenceau asseriva convintamente che la guerra fosse cosa troppo seria per lasciarla ai generali, qualche fondamento ci sarà stato (e magari c’è tutt’ora).

Ormai lo avrete compreso: non parleremo di sistemi d’arma o di strategie, ma di qualcosa di più complesso, tratteremo di esseri umani, di coloro che, indossando un’uniforme, rappresentano l’elemento onnipresente dell’organizzazione, di un organo vivo, esteso, sensibile, estremamente vulnerabile come lo è la pelle per un essere vivente; un organo spesso trascurato, abbandonato e vigliaccamente spendibile nelle steppe russe, in un’amena e tragica isola greca come Cefalonia, in un blindato minacciato da IED in Medio Oriente, o più semplicemente in una fermata della metropolitana o a guardia di una discarica di immondizia, degna sostituta dell’ormai obsoleto e stantio bidone di benzina.

È passato il tempo in cui bastava aver fatto il militare a Cuneo per essere uomini di mondo: il problema è che, non tutti, specialmente all’interno dell’organizzazione, sembrano essersene avveduti.

Chi comanda qui?

Il tempo è passato ma, malgrado le inevitabili evoluzioni, quel che ancora manca del tutto, è la valorizzazione di ciò che, in ambito civile, è stato definito come capitale umano. Non stiamo dunque parlando di benefattori o personaggi votati alla santità, ma di imprese create per la realizzazione di profitti per i quali l’impegno del personale è fondamentale: non si tratta di romantica affezione, ma di prosaici ricavi.

Dunque, se è vero che le apicalità dell’organizzazione statale tentano di imitare il modus operandi delle alte managerialità private, perché risaltano, invece, gli aspetti più retrivi?

Esistono o no la capacità, e soprattutto la voglia, di esaltare l’insieme di conoscenze, competenze, abilità, progettualità acquisite dal proprio personale al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati?

In sintesi: le greche ne sono davvero capaci, vogliono esserne in grado, o dobbiamo attendere di ritrovarci ancora una volta davanti a De Niro/Al Capone che apostrofa l’agente Ness dicendogli che è solo chiacchiere e distintivo?

Francamente non sembra che la leva gestionale costituita dal capitale umano sia stata compresa ed elevata alla stessa dignità delle altre (risorse finanziarie ed economie di scala). Ciò che manca clamorosamente, alla faccia degli anglicismi a la page che individuano nello Strategic Human Resources Management la chiave di volta della riuscita della gestione del personale, è la comprensione dell’intangibilità del valore di questo capitale, con buona pace di tutti i corsi di alto livello forieri solo di accattivanti e variopinte sequele di stemmi da indossare, corsi spesso non formativi ma puramente selettivi secondo paradigmi variabili non sempre equamente premianti, e che sembrano stigmatizzare la regola aurea per cui qualsiasi tentativo di miglioramento può essere riconosciuto solo se compiuto da soggetti predestinati e non sempre così meritevoli. Ma del resto, chi decide se non i vertici?

Esiste una capacità manageriale in grado di valorizzare le intangibilità? I dubbi sono molti, e si fondano su una considerazione: come può produrre ricavi un’impresa che, a fronte delle esteriorità, continua a basarsi su una burocrazia rigida e statica pari a quella cervellotica stigmatizzata dal film Brazil e ridicolizzata da Asterix nelle sue 12 fatiche quando messo di fronte alla casa che rende folli?

Una burocrazia rigida e punitiva con alcuni ed estremamente flessibile ed accondiscendente con altri, può essere valida? La domanda è puramente retorica. Dov’è la valorizzazione del talento se perennemente imbrigliata in norme di infimo livello normativo?

Diciamo un’altra verità scomodissima: da parte dell’establishment c’è una paura costante, strisciante, di trovarsi di fronte ad individualità capaci, motivate e con titoli di pregio conseguiti spesso a proprie spese presso istituzioni di valore, ma prive della sacralità dell’unzione fornita da scuole ed Accademie. Che la formazione accademica sia valida può essere vero, che tutti coloro che vi si sottopongono ne siano all’altezza, un po' meno; eppure quest’organizzazione di marca sabauda, ancora pregnante benché si viva nel 2019, non può accettarlo per principio, e preferisce continuare ad ignorare capitale umano talmente più valido di buona parte degli eletti, da costituire un pericolo da evitare, ed al diavolo talento e capitale soprattutto se mettono in discussione scelte non ponderate e comunque improduttive.

Continuiamo ad essere abrasivi e domandiamoci se un imprenditore privato adotterebbe lo stesso metro di giudizio; propendiamo per un deciso no, a meno che non si voglia relegare l’imprenditore in questione alla meritata permanenza nel girone infernale dei bischeri. Secondo punti di vista espressi da studi universitari, Il lavoratore è un talento che va gestito, ma anche valorizzato. […] E per poterlo fare al meglio sono necessarie “apertura mentale e capacità di gestione di una risorsa”, una missione impossibile, data anche la permanente sensazione del personale di trovarsi coinvolti in un modello lavorativo privo di senso e di motivazione. In tutto ciò, il personale a tutti i livelli – eccezion fatta per gli eletti - cosa vive, cosa sente? Come può relazionarsi a fronte di una gestione che talvolta discrimina e che, comunque, sempre più spesso è condizionata da circoli o, se preferite, secondo un’accezione da manuale Cencelli stile I Repubblica, da cordate caratterizzate da comuni appartenenze regional cittadine tali da creare ambiti ancora più ristretti per i soliti eletti? Come si può vivere una condizione quotidiana dove la penalizzazione inflitta a chi intende solo incrementare il proprio valore aggiunto per porlo al servizio di un’organizzazione che divide i suoi appartenenti in figli e figliastri è automatica e porta anche a discriminazioni nell’impiego? A cosa può condurre questo stato di cose se non ad una guerra tra poveri? Evviva il divide et impera, al diavolo l’una acies.

Schegge impazzite, vulnerabili..

Le ripercussioni di una gestione non attenta alle esigenze ed alle aspirazioni del personale non sono lievi. La Legge fondamentale di Murphy, ancorché in modo scherzoso, con il suo paradosso per cui “Se ci sono due o più modi di fare una cosa, e uno di questi modi può condurre a una catastrofe, allora qualcuno la farà in quel modo” ci riporta drasticamente alla realtà, e ad uno degli aspetti più tragici e sottaciuti: quello dei suicidi tra gli uomini e le donne in divisa, la cosiddetta strage silenziosa, una strage che presenta numeri altissimi se si tiene conto che la cifra media dei suicidi tra la popolazione è la metà rispetto a quella del personale in uniforme.

Le cause? Molteplici. Sofferenze interiori, disagi personali, mancati ricongiungimenti che provocano rotture dei nuclei familiari, problemi economici, supporti psicologici carenti o comunque visti non come un aiuto, ma come un rischio per le possibili implicazioni di carattere disciplinare o matricolare, l’emarginazione conseguente alla denuncia di situazioni irregolari.

Dov’è mai stato il Comando in questi casi? Arroccato, pronto ad offrire soluzioni che hanno il gusto amaro della beffa punitiva. Del resto, cosa diceva il paradosso del Comma 22? “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. Diverse le considerazioni, sia interne all’organizzazione sia politiche; l’atto in sé viene relegato esclusivamente alla sfera individuale, quasi a voler negare che il militare sia una parte integrata del sistema; in più, in un Paese votato ad un buonismo senza se e senza ma, come può essere riconosciuto un disturbo post traumatico da stress conseguente all’inserimento in una situazione conflittuale, laddove la società dormiente immaginava la consueta distribuzione di bottiglie d’acqua e medicinali? Anche qui, dov’era il Comando, dov’erano i vertici?

Malaparte diceva che è assai più difficile perdere una guerra che vincerla, perché a vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla. Possiamo dire che, nell’impresa del personale, ci si sia dedicati con attenzione a non deludere lo scrittore toscano.

Foto: U.S. Army / web / ministero della difesa / U.S. DoD