"Rivendicare con orgoglio" o vergognarsi con umiltà

(di Nicolò Manca)
06/07/20

I responsabili della non esaltante politica nazionale, resa più cupa dalle fosche prospettive economiche, recentemente hanno finto o quanto meno enfatizzato un sussulto di orgoglio allorché la Corte di Giustizia del Tribunale Internazionale dell’Aja ha sentenziato che la competenza giudiziaria sulla vicenda che il 15 febbraio del 2012 coinvolse i fucilieri di marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone spetta all’Italia e non all’India. Chi ha memoria della cronaca di quei giorni, che riferiva di risarcimenti già versati alle “parti lese” (e da queste accettati), ritiene superfluo il corollario di raccomandazioni perché la “parte lesa sia risarcita sulla base di accordi diretti tra Italia e India”, corollario che tuttavia suona come un campanello d’allarme per i motivi di cui si dirà più avanti.

Appena avuto notizia della sentenza dell’Aja i vertici nazionali hanno “rivendicato con orgoglio questa vittoria”: dal capo dello Stato a quello del Governo, dal ministro degli Esteri a quello della Difesa fino ai vertici militari, e non sono mancati i ringraziamenti per i predecessori (inclusa quindi la Bonino, all’epoca ministro degli esteri notoriamente poco favorevole al mondo militare) che negli anni “si sono impegnati strenuamente in questa dura battaglia”.

“​Minchia, signor tenente”, impossibile fingere di non sentire aleggiare nell’aria questa ineguagliabile esclamazione di ammirata meraviglia da vecchio najone. Ma subito dopo quello stesso najone aggiunge: “Ma siamo sicuri che anche due soldati inglesi o francesi o americani o israeliani o tedeschi o russi o turchi e via all’infinito avrebbero subito la stessa trafila riservata a Massimiliano e a Salvatore? E cioè: consegna e successiva riconsegna alle autorità indiane, arresto e detenzione, o pseudo tali, in India e successiva attesa di otto anni per sentirsi… finalmente liberi? No! Per essere processati in Italia con l’accusa di omicidio volontario per aver fatto il proprio dovere obbedendo all’ordine, opinabile o discutibile per chiunque ma non per un soldato, di difendere dalla pirateria una nave mercantile battente bandiera italiana”.

Ecco allora che il najone in questione ha un sussulto e anziché unirsi al coro dei “rivendicatori con orgoglio” passa nel gruppo di chi si vergogna un po’. Si vergogna un pò anche perché ricorda le parole con cui il 3 maggio del 2013 chi scrive motivò la restituzione al Governo della Repubblica delle onorificenze di commendatore e di cavaliere …“In segno di protesta per la condotta carente di coraggio e di orgoglio seguita dal governo italiano nella vicenda che ha coinvolto i due marò …”. Nel nostro najone infatti è radicata la convinzione che un altro paese non avrebbe lasciato due suoi soldati nelle mani degli indiani, ma li avrebbe riportati subito a casa delegando alla diplomazia e alla magistratura il compito di sbrogliare la matassa.

Proprio questo riferimento alla magistratura innesca però nel naione un altro elemento di perplessità legato a una specifica domanda: come mai analoga impennata di orgoglio non è stata dimostrata dalla classe politica quando un altro organismo internazionale, la Suprema Corte per i Diritti dell’uomo di Strasburgo, ha sentenziato che la condanna per frode emessa nel 2013 contro il capo del Governo Berlusconi fu una montatura ordita “molto in alto”, per usare un’espressione di collaudata ipocrisia politica adottata da tempo, per condizionare illegalmente e in spregio alla Costituzione la vita politica dell’Italia? Per questa seconda sentenza nessuna ”rivendicazione con orgoglio”, anzi, una cortina fumogena al limite della censura, come per qualsiasi altra notizia non funzionale alla glorificazione della classe politica.

E così svaniscono nella nebbia di un malcelato disinteresse anche le notizie sullo stato dell’arte dell’immigrazione clandestina e le relative conseguenze nel campo dell’ordine pubblico e della situazione sanitaria, sui dati statistici della nostra catastrofica situazione economica e sulla liberazione dei circa 500 condannati per mafia di cui si parla meno che dell’ennesima evasione del solito Mesina.

Con analoga nonchalance vengono sfiorati i dati Istat sull’enorme numero di disoccupati, sulla crescente popolazione costretta a consumare i pasti presso le mense della caritas e sull’esercito di quanti (800.000 unità!) NON cercano un lavoro (forse perché trovano più conveniente unirsi ai milioni di percettori di reddito di cittadinanza o reddito di emergenza o altro sussidio/elargizione parassitaria messo in piedi dal governo?).

Il campanello d’allarme cui si è accennato sopra, che suscita apprensione nel nostro najone, nasce dalla domanda: siamo sicuri che nel processo ai due fucilieri non verrà replicato il “metodo Stano”? La nostra magistratura, Palamara insegna, ci ha abituato a tutto, anche all’assoluzione in sede penale di un comandante, il generale Stano appunto, che inviato in Iraq con l’ordine buonista di operare tra la gente-per la gente-con la gente, una volta incappato nelle tre tonnellate e mezzo di tritolo dell’attentato di Nassiria, è stato condannato in un secondo tempo, con procedimento civile, a risarcire i parenti delle 19 vittime dell’attentato. Parenti, si badi bene, già adeguatamente risarciti dallo Stato.

Il najone si chiede ora se la magistratura non sia tentata di replicare questo metodo condannando “civilmente” Girone e Latorre a risarcire, con la decurtazione dei rispettivi emolumenti vita natural durante, la “parte lesa” a causa del loro operato.

Alla meditazione di chi sostiene che un soldato di professione, a differenza di quello di leva, deve mettere in conto una simile eventualità, si può solo proporre un brano tratto dal Bhagavad Gita, il poema sacro indù, nel quale il principe Arjuna così parla dei suoi guerrieri: “Costoro, nel giorno in cui le colonne del cielo cadevano, nel giorno in cui franavano le fondamenta della terra, seguirono la loro vocazione di mercenari e percepirono la paga e morirono”. Il nostro najone è portato però a pensare che se un soldato di professione non muore negli “incidenti di mestiere” che possono accadere specie nelle missioni fuori area, al rientro in patria potrà trovare ad attenderlo al varco una magistratura che gli chiederà conto del suo operato.

Paventando questa prospettiva il nostro najone è tentato di suggerire cameratescamente ai due fucilieri di chiedere, in aggiunta al patrocinio legale, anche l’assistenza di una delle 29 sigle sindacali militari nate grazie all’opera di una delle figure che “si sono impegnate strenuamente nella dura battaglia” per i due fucilieri di marina. Il riferimento è a 29+1, ovvero alla Trenta, come viene chiamata da chi, non avendone apprezzato l’operato sindacale, è restio a farne il nome. Ma anche per questo aspetto c’è chi pensa che ci sia qualcosa da rivendicare con orgoglio e chi invece formula una sentenza del tutto opposta.

Questa è la democrazia, bellezza! … o almeno quel che ne rimane.