Il 13 aprile la stampa USA riporta che Biden ha dichiarato che gli USA si ritireranno dall’Afghanistan entro l’11 settembre 2021. Ovvero esattamente dopo 20 anni dall’inizio del “caso Afghanistan” (l’attacco alle “torri gemelle”) il dossier di tale paese viene chiuso, indipendentemente dall’eventuale raggiungimento o meno di obiettivi che non siano quelli di inviare un chiaro messaggio all’audience interna (leggasi “elettorato”) negli “States”. Non so se la decisione sia stata assunta da un pianificatore militare o da un esperto di propaganda elettorale. Comunque, propenderei decisamente per la seconda opzione!
Riepiloghiamo brevemente. L’amministrazione Trump, senza preventiva consultazione né con gli “ascari” (scusate, intendevo gli “alleati”) né con il governo di Kabul, avviò i colloqui di Doha con i Talebani (foto apertura), giungendo a definire quale data ultima per il ritiro delle forze “straniere” dall’Afghanistan il 1° maggio 2021. Anche in quel caso non mi risulta che la data fosse scaturita da un incessante spremere di meningi di qua e di là dell’Atlantico da parte di pignoli pianificatori militari. Occorreva giungere a un risultato da dare in pasto all’elettorato statunitense in vista delle imminenti elezioni presidenziali. Punto!
Una volta concordata la data con quelli che fino a poco prima venivano descritti quali rappresentanti del “male assoluto” (i Talebani), tale data venne resa nota agli Alleati e contestualmente comunicata (imposta?) ad un reticente governo di Kabul (che ricordo essere un governo democraticamente eletto!). Governo di Kabul di fatto obbligato dagli USA a liberare migliaia di pericolosi terroristi in base ad accordi di cui non era stato parte. Vi erano indubbiamente delle precondizioni che impegnavano anche i Talebani e che “formalmente” erano vincolanti. Peraltro, tutti erano consci che i Talebani non le avrebbero rispettate e che nessuno fuori dall’Afghanistan ne avrebbe fatto un caso.
Molti in Europa si illudevano che con l’arrivo dell’amministrazione Biden (che si ritiene intimamente multi-lateralista e non più schiava del motto sovranista “America First”) le cose sarebbero cambiate radicalmente.
In merito all’Afghanistan, il primo assaggio di questo “mutamento” è avvenuto nel corso della periodica riunione dei ministri Difesa NATO tenuta il 17 e 18 febbraio a Bruxelles. La prima in cui gli USA fossero rappresentati dal nuovo segretario alla Difesa, il generale Lloyd J. Austin III. Immagino che molti stati maggiori europei si attendessero di essere messi al corrente in quel contesto dei piani della nuova amministrazione per l’Afghanistan (d’altronde il problema Afghanistan era ben noto sia al presidente sia a tutti gli uomini chiave della sua amministrazione: era prevedibile che avessero già una strategia).
Era prevedibile che gli USA non si sarebbero attenuti a quanto pianificato da Trump e Pompeo, se non altro per poter inviare il messaggio all’interno e all’estero che si era voltata pagina. Ma cosa intendevano fare?
Ritengo che gli Alleati si attendessero indicazioni precise da Austin su cosa fare e quando farlo. Non arrivarono. Almeno non ufficialmente.
Non posso ovviamente sapere se Austin si sia consultato almeno con i ministri che rappresentavano i maggiori contributori di forze (in primis l’Italia), per concordare un calendario che recepisse le loro preoccupazioni ed esigenze. Mi augurerei certamente di sì. Ufficialmente, però, da tale incontro non emerse una roadmap. Almeno non una roadmap ufficiale e condivisa
In tale occasione, il segretario generale (il norvegese Stoltenberg) aveva dichiarato che la NATO “sosteneva con forza” il processo di pace in Afghanistan (senza mai rimarcare come l’Alleanza non sia stata tenuta in alcuna considerazione dagli USA nel corso degli accordi di Doha che scandivano tappe e modalità di tale processo). Stoltenberg aveva anche evidenziato come l’Alleanza avesse significativamente adattato la propria presenza nel Paese in accordo con tale processo (ovviamente senza dire che si è limitata a far finta di essere parte di un processo decisionale da cui era esclusa).
Stoltenberg aveva tuttavia avuto il coraggio di rimarcare che i colloqui di pace rimanevano fragili e che il livello di violenza nel paese restava “inaccettabilmente elevato”.
Con la decisione dei moschettieri di Dumas quando urlavano “tutti per uno,uno per tutti” il segretario generale aveva infine dichiarato "Seppur nessun alleato voglia rimanere in Afghanistan più a lungo del necessario, non partiremo prima che sia il momento giusto". Impegno che, se fosse stato serio avrebbe implicato almeno un ulteriore decennio di presenza militare nel Paese. Peraltro, credo che neanche Stoltenberg nel dirlo si prendesse sul serio. Ma forse Stoltenberg intendeva in realtà “solo quando ce lo dirà Washington”.
Privi di indicazioni dal “capo branco” che si “avvaleva della facoltà di non rispondere”, ai ministri degli altri paesi non restava che coralmente ribadire l’impegno delle loro nazioni a favore della missione Resolute Support - con addestramento e finanziamenti a favore delle forze di sicurezza afghane.
La realtà è che la NATO di fatto per prendere qualsiasi decisione in merito alla propria presenza in Afghanistan deve aspettare che gli USA prendano prima la propria decisione.
A febbraio Austin affermò che il problema dell'Afghanistan era in fase di profondo riesame, era evidente che l’Alleanza non sapesse né come comportarsi né come giustificare all’opinione pubblica i propri tentennamenti.
In quell’occasione, pertanto, non fu assunta alcuna decisione definitiva sul futuro della presenza NATO in Afghanistan, a parte l’impegno degli alleati a continuare a consultarsi e coordinarsi strettamente, con l'avvicinarsi della scadenza del 1° maggio.
Ora a Washington hanno deciso la nuova data, che ritengo dettata più da riferimenti simbolici che da esigenze logistiche o di sicurezza connesse con il ritiro delle truppe e con l’eventuale handover ad unità afghane (nelle cui fila immagino un crescendo di diserzioni man mano che si avvicina il momento del ritorno dei Talebani).
La comunicazione “ufficiale “ di tale data agli Alleati è avvenuta il 14 aprile (ovvero il giorno successivo alla sua pubblicazione sulla stampa USA) nel contesto dell’incontro congiunto dei Ministri degli Esteri e della Difesa della NATO, cui hanno partecipato per gli USA il segretario di Stato, Antony J. Blinken, e il segretario della Difesa, Lloyd J. Austin III.
Da notare che nell’incontro preliminare con Austin, Stoltenberg ha incominciato parlando di Afghanistan e ripetendo il motto ormai un po’ stantio “in together out together”, mentre Austin nel rispondergli si è focalizzato sulla minaccia russa e su NATO 2030! Forse sintomatico che l’Afghanistan non accenda più l’interesse di Washington, che nello Studio Ovale ci siano repubblicani o democratici.
I Talebani, almeno formalmente, non prenderanno bene questo rinvio di 4 mesi e potrebbero fare qualche atto dimostrativo per rimarcare con il sangue di alcune decine di innocenti la loro contrarietà. In realtà, i capi Talebani saranno contenti perché, invece di modificare radicalmente la policy di Trump, la nuova amministrazione si è limitata a spostare un po’ più in là la data del ritiro. Un piccolo maquillage, tanto per far vedere che nulla di ciò che fu deciso in epoca Trump resterà così com’è con la nuova amministrazione.
In realtà, il cambiamento nella sostanza è irrilevante. Anzi, una volta che si dice pubblicamente che ci si ritira (e che tale ritiro è legato ad una data e non al raggiungimento di un obiettivo) prima si va via, meglio è (anche per la sicurezza del nostro personale in Teatro, vittima di questo estenuante yo-yo di date).
Anche in questo caso, Washington ha definito la data e la roadmap e gli Alleati si devono adeguare. Comunque, sinceramente, ci aspettavamo che andasse a finire così e, almeno personalmente, non posso dirmi stupito.
Vi è invece un altro aspetto della vicenda Afghanistan che, come europei e soprattutto come italiani, ritengo dovrebbe darci ancora più fastidio.
Mentre gli USA annunciano di ritirarsi dall’Afghanistan, e il resto dell’Alleanza si adegua, Erdogan si sta abilmente costruendo un nuovo ruolo anche in relazione all’Afghanistan. La Turchia, infatti, con il supporto del Qatar e sotto l’egida solo formale delle Nazioni Unite (ormai totalmente irrilevanti in relazione all’Afghanistan) ha organizzato dal 24 aprile al 4 maggio una importante conferenza di pace sull’Afghanistan da tenersi ad Istanbul, con la presenza sia del governo di Kabul sia dei Talebani. L’obiettivo dichiarato sarebbe di “accelerare e coadiuvare i negoziati intra-afgani a Doha per il raggiungimento di una soluzione politica giusta e duratura”.
Il fatto che, sicuramente con il placet USA, un paese membro della NATO particolarmente ostile all’Unione Europea prenda il testimone dagli USA come negoziatore tra il governo di Kabul e i Talebani non dovrebbe essere un segnale confortante per molti motivi.
Intanto, notoriamente Turchia e Qatar (che finanzia molte iniziative di Erdogan) sono strettamente legati all’Islam Politico. Pertanto, non ci paiono esattamente negoziatori super partes in questi colloqui.
La Turchia è forse il paese NATO che in Afghanistan ha accompagnato maggiormente il proprio (limitato) ruolo militare con una (importante) presenza di ditte turche operanti nel paese.
L’espansionismo neo-ottomano di Ankara nel Mediterraneo, in Libia e nel Corno d’Africa sarà inevitabilmente rinvigorito dal riconoscimento di un ruolo di mediazione in Afghanistan.
Chi sperava che dopo l’occhio benevolente di Trump nei confronti delle intemperanze di Erdogan, con Biden sarebbe cambiato registro e, almeno in nome dei diritti civili, gli USA avrebbero assunto una posizione più severa nei confronti di Ankara per il momento non può che dirsi deluso.
Per noi italiani, inoltre, essendo la Turchia il nostro più insidioso competitor nel Mediterraneo e in Libia certo non una bella notizia.
In conclusione. Gli USA hanno deciso e in Afghanistan ci ritireremo forse senza aver mai compreso perché ci siamo andati in primo luogo, ma sicuramente senza aver conseguito gli obiettivi per cui i nostri soldati hanno combattuto (anche con dolorose perdite umane) e per i quali il contribuente italiano ha pagato cifre importanti.
La NATO anziché foro di consultazione e condivisione tra Alleati con pari dignità, come era stata disegnata dal Trattato di Washington del 1949, appare sempre più strumento al servizio delle mutevoli politiche statunitensi.
Con il placet dello Zio Sam la Turchia del Sultano, fregandosene dei diritti umani e conducendo una politica aggressiva nel Mediterraneo, assume sempre maggior rilevanza.
In fondo, come diceva una canzone napoletana in voga nel dopo guerra “chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdámmoce 'o ppassato”. Good-bye Afghanistan.
Foto: web / ministero della Difesa / Nato / U.S. DoD / presidency of the republic of Turkey