Sono rientrato dall’Ucraina meno di dieci ore fa e vorrei dare il mio punto di vista sulla discrasia tra quello che si vede nei media e quello che succede veramente nelle strade di Kiev.
A guardare i telegiornali sembra che oramai nelle strade del paese vi siano frotte di militari col kalashnikov in pugno pronte a sparare all’invasore Russo alle porte. La realtà è molto diversa e l’ho percepita fin dall’arrivo all’aeroporto. Girando per la città non si vede nulla più e nulla di meno di quello che si può incontrare in una normalissima città d’Europa, gente che va al lavoro, prende i mezzi pubblici, qualche bambino che gioca e studenti che vanno a scuola e nelle università.
I venti di guerra che tanto vediamo sui TG nazionali sembrano non esserci. L'unica cosa a ricordare le schermaglie internazionali è una risicata manifestazione in piazza Majdan. La stessa piazza che nel 2014 innescò la miccia del conflitto. I manifestanti mi dicono di essere rappresentanti della comunità americana che vive a Kiev, e sono lì a manifestare per la pace e contro Putin.
La sensazione, a essere sinceri, è che i nostri notiziari si sono accorti solo ora che in Donbass vi è un conflitto; purtroppo va avanti da ben otto anni e ha lasciato sul terreno - da ambo le parti - circa quarantamila tra morti e feriti e un milione di sfollati (in questo conflitto neanche le cifre sono chiare). Lo scontro, che fino a qualche settimana fa non fregava niente a nessuno, ora mette in allerta il mondo.
Le persone con cui ho avuto modo di chiacchierare convivono da tanti anni con la guerra. Per rendere meglio l’idea: è come se due regioni d’Italia avessero deciso di separarsi, armi alla mano. Le proteste sfociate nelle violenze di piazza Majdan hanno generato una profonda frattura tra il popolo Ucraino e quello Russo, da sempre fratelli.
Anche le narrative di parte sembrano mutate. Se da una parte c’è il presidente Putin che cerca di demarcare la fratellanza strettissima alla Russia, soprattutto in tutte quelle regioni russofone, dall’altra il presidente Zelens'kyj invita a non soffermarsi su questa differenza linguistica ma a concentrarsi piuttosto sull’appartenenza alla madre patria Ucraina, superando i fattori divisivi come la lingua parlata. In effetti la lingua a oggi non sembra un elemento dividente in quanto se è vero che la legge impone di utilizzare l’Ucraino come lingua ufficiale, ne è riprova ad esempio la segnaletica stradale, l’insegnamento universitario viene fatto in Russo.
Sicuramente la storica fratellanza tra le due nazioni è cambiata dopo il 2014, l’annessione della Crimea e il conflitto in Donbass, hanno segnato una profonda ferita tra i due popoli, che a oggi non sono mai stati più distanti l’uno dall’altro.
Confrontandomi con l’analista locale Tara Semeniuk ho maturato l’idea che in Ucraina se realmente scoppiasse una guerra su larga scala sarebbe a tutti gli effetti una proxy war, combattuta tra i due storici nemici ovvero USA e Russia su un suolo non di loro competenza. E in questo scenario chi avrebbe tutto da perdere è proprio l’Ucraina e non è neppure scontato il coinvolgimento di altri paesi dell’Alleanza o della Unione Europea. Lo scenario mi ricorda (parzialmente) quanto accadde nei Balcani dopo la dissoluzione della Jugoslavia.
Le persone con cui ho parlato non mi hanno trasmesso la paura di un imminente conflitto ma più di una grande manovra geopolitica per allargare spazzi d'influenza da parte Russa, oltre che a una grande mossa politica dell’amministrazione Biden nel ricordare al mondo che è pur sempre una super potenza anche all’indomani della figuraccia afgana.
Se guardiamo a quanti militari occidentali sono dislocati nell’area, non possiamo non notare le cifre risicate rispetto a quelle russe.
Al netto delle grandi manovre, la domanda vera è: quanto sono disposte le nazioni occidentali a impegnare proprio personale militare sul campo, in una guerra lontana e di scarsissimo interesse, con un ingente sforzo economico e possibili perdite sul campo?
Foto: autore