Il Gattopardo in salsa iraniana: valzer di potere tra tradizione e modernità

(di Gino Lanzara)
08/07/24

Immaginazione e trascendenza politica accomunano in queste ore le stanze del potere teocratico e medievale di Teheran con lo sfarzo della sala da ballo del Principe di Salina. Sul ritmo scandito dalle note di un ingannevole valzer risuonano le parole di Tancredi, pronunciate in una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro, con una perla di atemporale saggezza politica per cui se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Manca la splendida figura del Principe che, in controtendenza rispetto a costumi nazionali poi inveterati, rinuncia al seggio senatoriale propostogli dal basito Chevallier. Eroe bello e impossibile Don Fabrizio, percependo di appartenere ad un altro tempo e ad altri ideali, decide di respingere un incarico che non può essere solo onorifico.

Se l’Ayatollah Khamenei (foto) è di fatto un inedito e scaltrito Tancredi, il presidente Pezeshkian non può tuttavia essere il Principe di Salina: troppo avvinto al passato, troppo fedele alla personificazione di un potere che personaggi troppo umani hanno dato comodamente trascendente e dunque indiscutibile, Massoud non può indossare le vesti dell’uomo della provvidenza in un Paese troppo grande, troppo composito, troppo eterogeneo, con troppa storia sulle spalle per poter continuare a vedersi rappresentato da teocrati rigidi e non volti ad un futuro sempre più nebuloso.

Sicuramente il buon Pezeshkian saprà essere utile al Rahbar obbligato, da un’età che la laica anagrafe non sconta a semi divinità acquisite, a pensare ogni giorno di più ad una successione che perpetui un medioevo anacronistico. L’equilibrio interno è fondamentale, non fosse altro perché deve evitare interferenze e garantire l’ossigeno finanziario di investimenti veri, concreti, occidentali, non più procrastinabili ed a basso prezzo come quelli ispirati da un est multiforme ed interessato alla variazione di ordini egemonici ma senza fornire alternative bilanciate. Chi pensa che Pezeshkian possa essere un epigono di Locke o John Stuart Mill è fuori strada: Massoud è un personaggio presentabile, accettabile per una leadership che celebra comunque trionfalmente un’astensione elevata che, a logica, qualcosa dovrà pur pericolosamente rappresentare, per esempio il possibile reiterarsi di manifestazioni capaci di incrinare legittimità politica e credibilità.

Il presidente porta cromosomi azeri, come quelli della Guida Suprema, e curdi: una irripetibile liaison genetica di minoranze inquiete che Teheran deve controllare alla stessa stregua di fazioni conservatrici del tutto disomogenee, votate alla preservazione più pura del potere ed all’occultamento della polvere dei dissidi sotto le morbide falde di pesanti tappeti di Isfahan.

Politicamente Khamenei ha indovinato tutto, ovvero l’accettazione del candidato meno compromesso e l’allontanamento di ortodossi divisivi e capaci solo di imprimere ulteriori e deleterie spinte disgreganti, fonti di incertezze tali che voci non confermate dipingono Ghalibaf quale sponsor di Pezeshkian e non di Jalili. Del resto Massoud, pur non soddisfacendo completamente i riformisti conserva un aplomb che garantisce un tranquillo 6 politico, corroborato da un phisique du role al contrario e tale da spegnere le scintille delle piazze. Insomma, secondo un Cencelli teocratico, il candidato perfetto. Rimane comunque lo scontento verso il regime e verso il sistema di potere innervato dai pasdaran, inclini ad un secolarismo che sta isolando un Paese di suo già estremizzato. Non ci saranno dunque cambiamenti, ma la conferma iniziale della linea politica precedente, sia pur con sfumature più accettabili, soprattutto in ambito economico. L’interesse di Khamenei è pragmatico, temendo che il campo riformista possa trasformarsi in partito d’opposizione in grado di muovere masse, specialmente quelle che non hanno votato, quelle che puntano a mettere in forse l’ascesa di una nuova Guida Suprema che dovrà porre la massima attenzione al parallelo rafforzamento militare dello stato nello stato: i pasdaran.

Pezeshkian, riformista in quanto a trascorsi e non perché esponente di partito, per il momento serve, a maggior ragione se si guarda alle elezioni novembrine negli USA ed all’evoluzione della querelle nucleare. La nomenklatura, per ora ha vinto; secondo la diaspora iraniana si tratta di una pura operazione di marketing orchestrata da Khamenei che presto mostrerà i suoi intendimenti circa il tipo di collaborazione che intende instaurare. Altro aspetto che non deve essere dimenticato è che in Parlamento siede una chiara maggioranza conservatrice, ago della bilancia specie in occasione sia dell’approvazione dei bilanci, terreno minato già a suo tempo per Rouhani, sia delle valutazioni securitarie, così lontane dal background di Pezeshkian. Massoud rimane un outsider, un personaggio che non può rappresentare un rischio per il regime, visto che le vere decisioni rimangono in capo al Rahbar.

C’è dunque poco da credere in miracoli politico elettorali; quella che conta è la strategia pasdaran del guadagno di tempo per arrivare all’atomica di Allah. Ecco dunque Pezeshkian, riformista e maschera perbene di un regime che così riuscirà a far uscire allo scoperto gli oppositori; ecco allora Massoud, già impigliato nella rete del potere religioso dei mullah e di quello militare dei pasdaran eppure sostenuto, per mancanza di alternative, da Khatami e Zarif. Tante le questioni sul tavolo, a cominciare dall’instabile situazione al confine israelo-libanese tra Hezbollah e Tsahal, passando per il poco reclamizzato, ma importante, ingavonamento-rovesciamento per cause ancora imprecisate della Sahand a Bandar Abbas, unità nuova, classificata come caccia ma con dislocamento da fregata e con evidenti criticità tecnico-ingegneristiche. Nel frattempo arrivano le felicitazioni di chi, temendo un avvicinamento con gli USA, paventa la dissolvenza di interessati rapporti commerciali: di greggio con Pechino, di droni con Mosca, di missili con Sana’a.

Attenzione poi alla già citata diaspora, accompagnata da più che qualificata dissidenza che, come quella di Narges Mohammadi dalle celle delle carceri, esercita un peso non indifferente, così come lo ha esercitato la cultura del regista Rasoulof, opportunamente riparato all’estero, con il suo film, Il male non esiste, sulla pena di morte in Iran, altro tema delicatissimo associato alle intemperanze della polizia morale.

Torniamo alla più concreta politica; se da un lato Pezeshkian è stato l’utile (e relativo) rimedio anti astensionismo pro Ayatollah, dall’altro Khamenei ha tenuto a rammentare come un ipotetico riavvicinamento agli USA non sia espressione di una buona politica e che chi lo persegue non possa essere considerato in grado di governare il Paese. Duole giungere alla conclusione che il dottor Massoud debba essere considerato un presidente sotto tutela alla stessa stregua, prima di lui, di Khatami e Rohuani, un limes invalicabile e perfettamente noto anche all’elettorato. Ecco dunque un leader non di rottura rispetto al regime, ancorché favorevole a maggiori aperture politiche interne ed estere, soprattutto in ambito economico, quello che più interessa la classe dei bazari, quanto mai desiderosi di temperare un regime sanzionatorio che sta colpendo troppo duramente i loro incassi.

La scena del valzer del Gattopardo è di rara maestria cinematografica; ma è anche il momento politico più intenso del film, quello dove l’immobilismo più frenetico trova il suo motivo d’essere. Nella sala dove Pezeshkian è costretto ad espressioni tranquillizzanti a favore di principi che, al contrario di quello di Salina, anelano alla conservazione del potere, il ballo diventa orpello di espressioni di dominio sulfureo e concreto, privo di afflati ideologici ormai dissolti da decenni. La sala da ballo rimane una stanza sigillata, un’antitesi della democrazia delle piazze anche a Teheran, dove non rimane neanche la fugace soddisfazione di musica e colori.

Foto: IRNA