Sull’intelligence israeliana sono stati versati fiumi di inchiostro in quest’ultimo anno: di miti e leggende, di successi ma soprattutto di sanguinari flop, si è detto praticamente tutto. Eppure, rimangono innumerevoli zone d’ombra, in particolare del Mossad, in questa guerra infinita contro il terrorismo di Hamas ed Hezbollah, ed il ruolo, con relativa minaccia nucleare, dell’Iran. Poco o nulla, infatti, è stato scritto di quell’intelligence diplomacy, la diplomazia dell’intelligence che, da mesi, vede impegnato il capo del Mossad, David Barnea, così come quello della Cia, William J. Burns e i meno noti omologhi dei mukhabarat arabi, fare spola fra Gerusalemme, Doha e Il Cairo per incontri, nemmeno poi tanto segreti, al fine di pattuire una tregua fra Israele, appunto, e i suoi più acerrimi nemici del momento, Hamas in primis.
Sullo sfondo, la sorte dei prigionieri israeliani ancora nelle mani di Hamas, quella cinquantina, forse ancora in vita e, si dice, messi al sicuro in Egitto da quest’ultima o in procinto di esserlo, attraverso i tunnel ancora esistenti in Gaza. Così, almeno, è stato scritto in articoli apparsi sul londinese Jewish Chronicle (per poi smentire)1 e il tedesco Bild, utilizzando un’informazione riservata, propria di un documento militare ebraico, violato e fatto trapelare, già a settembre, da Eliezer Feldstein2, il portavoce e funzionario poco fedele, a quanto pare, del gabinetto di guerra di Netanyahu, con almeno altri tre soggetti legati all’ambiente militare e di sicurezza ebraici.
Nel mirino, però, ora vi è Netanyahu, sul quale è calata l’ennesima accusa, quella di aver favorito la spiata di Feldstein al fine di silurare un accordo per la restituzione degli ostaggi e di prolungare la guerra a Gaza, e dimostrare così, ancora una volta, il suo mantra, ossia la cattiva fede di Hamas, i negoziati come guerra psicologica imposta dai terroristi e la necessità della prosecuzione del conflitto per la messa in sicurezza, con un controllo duraturo, del corridoio di Filadelfia lungo il confine tra Gaza e l’Egitto. Insomma, una manipolazione dell’opinione pubblica ebraica ad esclusivo vantaggio del premier. Anche per questi motivi, la soffiata non è stata gradita ai vertici, appunto, dell’intelligence ebraica, che hanno deciso di andare fino in fondo alla questione. Da qui l’avvio del BibiLeaks, un ennesimo capitolo di questa lunga guerra di Israele, del suo premier, dell’intero ambiente di intelligence e del suo popolo, quello che reclama dal 7 ottobre 2023 il ritorno in Israele dei propri famigliari rapiti.
L’intera vicenda israelo-palestinese, e da sempre, ha evidenziato il ruolo cruciale dell’intelligence, dell’una come dell’altra parte: solo con le informazioni su persone, nomi, complici interni, organigrammi, logistica e tutto quanto ruota intorno al mondo della sicurezza di un Paese o una comunità, è possibile affrontare la minaccia terroristica o militare alla propria esistenza. Tuttavia, Israele ha impegnato tutte le proprie energie nell’intelligence, considerando la componente militare e quella di sicurezza come fattori dominanti anche nel processo decisionale, sino ad arrivare ad eclissare l’apporto della diplomazia tradizionale in un modo che non ha eguale nel mondo moderno. Tutto ciò deriva da quella costante percezione di minaccia e di accerchiamento da nemici vicini di cui è pervasa la cultura di sicurezza ebraica e, di conseguenza, l’opinione pubblica interna.
Per affrontare tale questione, e dal 1948, i leader israeliani hanno forgiato una strategia tridimensionale. In primo luogo, hanno cercato di garantire il primato militare di Israele su tutti i propri nemici, vicini e lontani. In secondo luogo, hanno mantenuto stretti legami con le potenze occidentali, in particolare quelle che hanno un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, come gli Stati Uniti, con i prevedibili vantaggi in caso di voto. Infine, e quello che più è evidente oggi, hanno investito pesantemente risorse nella creazione di una rete diplomatica informale, a fianco di quella tradizionale, in grado di rompere l'isolamento israeliano. Per l’implementazione di questa dottrina strategica, inoltre, tutte le agenzie di intelligence, nessuna esclusa, hanno operato con ruoli determinanti. E ciò, per Israele, avviene da sempre, a prescindere da Hamas od Hezbollah. Ed è in questo contesto dottrinale, che emerge ora preponderante l’intelligence diplomacy.
Il ricorso all’intelligence diplomacy non è, comunque, esclusivo ebraico e nemmeno di recente invenzione: l’impiegano, infatti, i governi quando la natura dell’interlocutore, le relazioni, le questioni, il momento o il contesto politico, o tutti questi fattori insieme, rendono attraente e vantaggioso l’uso di attori e di relazioni di intelligence; od anche solo quando l’influenza e la persuasione, sulla base della conoscenza effettiva di fatti, sono essenziali per ottenere risultati politici con interlocutori evanescenti, come i leader di organismi/fazioni armate e/o terroristiche. Dai servizi di intelligence inglesi, così come il KGB prima e gli FSB e SVR russi in seguito, e la stessa CIA, nei complessi scenari più moderni, ne hanno ampiamente fatto ricorso3, seppur non pubblicamente come invece avviene ora per Israele. Inoltre, e probabilmente, nessun altro stato al mondo utilizza le proprie agenzie di intelligence per perseguire la sua agenda diplomatica nella stessa misura dello Stato ebraico.
In pratica, Israele e l’intelligence diplomacy, a cui sta ricorrendo da mesi nella guerra in Gaza, ma da alcuni anni per gli Accordi di Abramo (con l’allora capo del Mossad, Yossi Cohen)4, hanno reso esplicito che, nelle più moderne relazioni mondiali, si è imposto il superamento della convinzione, propria degli Stati liberali del XX secolo, secondo cui gli antidoti all’intelligence segreta, quella pericolosa degli agenti provocatori e dei doppiogiochisti, fossero solo la diplomazia trasparente e le istituzioni sovranazionali. La trasparenza, infatti, da sola non garantirebbe più la stabilità internazionale e i consessi di dialogo e di indirizzo, come le Nazioni Unite, si sono rivelati impotenti di fronte all’aggressività di protagonisti armati, quali attori non-statali, come l’Isis, dapprima, ed ora Hamas ed Hezbollah.
Ne è derivato che non solo il Mossad, ma anche l’Aman, l’intelligence militare israeliana, e il dipartimento delle relazioni estere dell’IDF, hanno assunto, e da tempo, un ruolo crescente nell’ambiente diplomatico, tanto da parlare apertamente anche di military diplomacy, la diplomazia militare5. Un ossimoro? Forse. All’apparenza, e non certo per Israele. Sicuramente una sfida epocale, dato che Israele è un piccolo paese con persone culturalmente avverse alla diplomazia, dove domina la mentalità di "ranger solitario", risalente alla descrizione biblica di "una nazione che abita da sola"6.
La tumultuosa storia di questo Paese, inoltre, ha visto molteplici casi di diplomazia militare giocare un ruolo vitale e salvare la situazione fin dalla sua istituzione. Le operazioni di accumulo di capacità militari erano cruciali per l'esercito nascente, rendendo necessari sforzi diplomatici creativi ed ostinati.
Due dei tanti esempi sono le spedizioni di armi cecoslovacche del 1948 per aggirare l'embargo sulle armi delle Nazioni Unite, che permisero all'IDF appena creato di respingere l'invasione degli eserciti arabi; così come l'operazione Nickel Grass, il ponte aereo strategico americano per ricostituire le risorse di Israele durante la guerra dello Yom Kippur nel 1973, che potrebbe aver avuto un impatto pratico limitato ma che inviò un segnale potente nel convincere la leadership egiziana che il capitolo delle guerre doveva essere chiuso.
Originariamente affidato interamente all'Aman, il coordinamento internazionale tra i militari israeliani è ora condiviso con una divisione separata dell'IDF incentrata sulla diplomazia e la cooperazione. Sebbene ogni ramo di servizio dell'IDF abbia una propria unità di relazioni estere, la Divisione di cooperazione internazionale (ICD) sovrintende alla cooperazione internazionale in tutto l'IDF e guida le relazioni a livello di personale, dalla gestione delle complessità della cooperazione transfrontaliera, attraverso la collaborazione spalla a spalla con alleati strategici, sino ai rapporti con gli attori chiave (ad esempio, la Russia in Siria). L'allineamento di tutti gli sforzi di diplomazia militare sotto la sfera operativa, piuttosto che quella della sola intelligence, si è rivelata come una profonda trasformazione. Mentre l'ICD risiede nella nuova Direzione della pianificazione strategica e cooperazione (J5), durante le contingenze è subordinata al ramo operativo (J3). Ciò significa che la diplomazia militare ebraica è ora inerente alla pianificazione e all'esecuzione operativa, con tutta l’ampiezza di manovra che ciò comporta.
Ne è derivato che, se gli obiettivi dell’intelligence sono generalmente percepiti come attività di raccolta di informazioni e di analisi delle stesse per agevolare le scelte dei decisori politici su obiettivi strategici da promuovere e minacce interne ed esterne da contrastare, sia l’intelligence diplomacy che la military diplomacy ebraiche si stanno invece rivelando ora come potente strumento di politica estera, utili in circostanze specifiche, come in questa guerra, a supportare la diplomazia convenzionale, che passa in secondo piano sino a scomparire del tutto, e a creare così linee di comunicazione più sottili ed esclusive.
In pratica, il coinvolgimento dell’intelligence in ambito diplomatico permette ai suoi ufficiali di navigare in terreni molto difficili, dove il contatto diplomatico tradizionale potrebbe necessitare di un riconoscimento formale, con il rischio di arenarsi in tempi lunghissimi. Ciò è particolarmente significativo quando fra gli interlocutori non vi è una normale relazione diplomatica aperta, come nel caso di una Israele non riconosciuta come entità statale da Hamas & soci, così come avviene per questi ultimi da parte di Israele. Non da meno, con il ricorrere alla diplomazia dell’intelligence è possibile evitare certi aspetti svantaggiosi della diplomazia vera e propria, quella aperta, come ad esempio “l’effetto pubblico”, in cui le azioni dei negoziatori sono influenzate dal modo con cui procede il processo negoziale e dalla pressione del giudizio dell’opinione pubblica. In pratica, ciò che Netanyahu è accusato ora di aver voluto manipolare con una soffiata finalizzata; un ennesimo smacco (tutto interno) alla propria intelligence, già nel mirino per i fatti del 7 ottobre.
Ci si chiede, allora, se l’intelligence e la military diplomacy, così come ne usciranno forgiate dopo i fatti Israele-Hamas-Hezbollah possano essere considerate sostituti della diplomazia più tipica. Interrogativi imposti dall’ impotenza conclamata di una diplomazia tradizionale e soprattutto dalla provata latitanza di quella preventiva, estranea oramai alla prassi per la risoluzione di conflitti nati dalle sfide più avanzate, latenti da alcuni anni ma esplose chiaramente con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia dapprima e poi con il vile attacco terroristico di Hamas ad Israele, e ormai proprie di un disordine mondiale ancora alla ricerca affannosa di una sua evoluzione verso un proprio centro di gravità, assestato, stabile e duraturo. Sicuramente è stata aperta una nuova via alla prassi diplomatica di cui dovremo tenere conto, tutti ed obbligatoriamente, con le intelligence civili e militari protagoniste pressoché assolute. Inevitabile conseguenza dell’era della grande massa di informazioni e delle nuove forme di conflittualità, asimmetriche ed ibride, a fianco del proliferare di soggetti armati non-statali come minacce alla democrazia e al quieto vivere civile.
6 Balaam, Pentateuco, Numeri 39:9
Foto: IDF / UN