Storie curiose della Seconda guerra mondiale

Aa.Vv.
Ed. Odoya, Città di Castello (PG) 2024
Pagg.311

“La domenica di Pasqua, il primo aprile 1945, giorno di preghiera e di speranza nel mondo in guerra, il tempo è splendido sul Mare Cinese Orientale. L’oceano è calmo e il sole ardente. Sull’orizzonte appaiono, sfumati, i ripidi pendii di Okinawa che, di lì a poco, entreranno nella storia”. Quella che sta per essere narrata, in una delle trentatrè storie che compongono questo saggio, è la battaglia di Okinawa, la più grande battaglia aeronavale della storia. Da una parte gli americani, con “la più grande flotta a memoria d’uomo che sta navigando nel cuore delle acque del Giappone, per impossessarsi di Okinawa”. Dall’altra i giapponesi, con i loro kamikaze. Avrebbe dovuto essere un’azione rapida, della durata di meno di un mese. Terminò a giugno inoltrato con la vittoria statunitense. 110.000 morti, 16 navi da guerra, compresa la Yamato, 8.830 aerei distrutti e 2.655 caduti in incidenti, furono le perdite giapponesi; 12.000 morti, 36 navi perdute e 368 danneggiate, furono quelle americane. “Ci sono state battaglie terrestri più grandi e campagne aeree più lunghe di quelle di Okinawa. Ma Okinawa fu un’operazione combinata che non ha uguali per ampiezza, portata e accanimento; una lotta senza quartiere, combattuta in terra e in mare, e sopra e sotto di essi. Mai prima di allora c’era stata una lotta tanto estesa e insidiosa di aerei contro aerei e di navi contro aerei”.

Non poteva mancare, tra le storie, quella relativa agli assi dei mezzi d’assalto italiani. Erano circa le 21.00 del 18 dicembre 1941 quando, dal sommergibile Scirè, fuori dal porto di Alessandria dove erano ormeggiate le corazzate britanniche Valiant e Queen Elizabeth, uscirono sei uomini, a cavalcioni di tre “maiali”, con il compito di raggiungere le navi ed affondarle. Si trattava del tenente di vascello Luigi Durand De la Penne e del suo secondo, il capo palombaro Emilio Bianchi, che avevano il compito di affondare la Valiant; del capitano del genio navale Antonio Marceglia e del palombaro Spartaco Schergat, che avevano il compito di affondare la Queen Elizabeth; del capitano delle Armi navali Vincenzo Martellotta e del secondo capo palombaro Mario Marino, che avevano il compito di affondare una petroliera di squadra. Una volta posizionate le cariche esplosive, De la Penne fu scoperto e, insieme a Bianchi, fu portato a bordo della Valiant. Poco prima dell’esplosione, programmata per le 6.06, De la Penne chiese di parlare con il comandante, il capitano di vascello Charles Morgan. “La vostra nave salterà in aria tra dieci minuti” gli disse. “Non voglio che degli uomini muoiano inutilmente. Vi consiglio di chiamare tutta la gente in coperta”. Grazie a questo avviso nessuno dei 1.700 uomini della Valiant morì a causa dell’esplosione, tanto che, nel 1945, durante una cerimonia, dove era presente anche il viceammiraglio sir Charles Morgan, capo delle forze navali britanniche nel Mediterraneo e già comandante della Valiant, il principe Umberto gli lasciò il compito di appuntare sul petto di De la Penne la medaglia d’oro al valor militare.

Altra storia riguarda il maggiore William Martin, l’uomo che non fu mai. “Nel cimitero della cittadina spagnola di Huelva, sulla costa Atlantica, duecento chilometri a nord di Gibilterra, è sepolto un suddito britannico. Morì di polmonite tra le umide nebbie dell’Inghilterra nell’autunno 1942, senza certo supporre che avrebbe riposato per sempre sotto il cielo assolato della Spagna. In vita non aveva fatto niente di speciale per il suo Paese. Dopo la morte gli rese un servigio che salvò probabilmente migliaia di soldati”. Al suo cadavere, dagli inglesi, venne dato il nome di William Martin, maggiore dei Royal Marines. Trasportato con il sommergibile Sephar, fu lasciato a largo di Huelva il 30 aprile 1943, dove fu trovato da un pescatore. Addosso, oltre ad effetti personale che avrebbero dovuto contribuire a rendere credibile la sua identità, aveva anche dei documenti di grande importanza e segretezza, dove era riportato che “il maggior attacco alleato sarebbe avvenuto non in Sicilia, ma in Sardegna, con uno sbarco sussidiario in Grecia”. La trappola, preparata per i tedeschi, riuscì perfettamente, in quanto a giugno il Comando Supremo delle Forze Armate tedesche emanò un ordine che disponeva il rinforzo della Sardegna, mentre un intero gruppo di dragamine fu spostato dalla Sicilia alla Grecia.

C’è poi il mistero dei palloni giapponesi.“Il bombardamento di Tokyo, da parte del generale Doolittle, il 18 aprile 1942, ferì profondamente l’orgoglio dei giapponesi”. Fu così che, come rappresaglia, essi idearono una campagna transoceanica di palloni, la prima del suo genere. “Ci vollero loro due anni per essere pronti, ma nei sei mesi che seguirono il primo novembre 1944 lanciarono 9.000 involucri a gas, ingegnosamente costruiti, studiati in modo da lasciar cadere bombe incendiarie, a frattura prestabilita, sulle foreste, sulle fattorie e sulle città americane”. Un migliaio furono i palloni che raggiunsero il continente americano. Negli Stati Uniti e nel Canada, però, la stampa e la radio accettarono, per impedire ai giapponesi di conoscere l’esito della loro campagna, una censura volontaria, “che si dimostrò uno dei prodigi della guerra”. Alla fine di aprile, infatti, il generale Kusaba, che era alla testa della campagna dei palloni, aveva ricevuto l’ordine di cessare ogni operazione, con questa motivazione: “I vostri palloni non raggiungono l’America. Se vi arrivassero, se ne avrebbe notizia sui giornali. Non è possibile che gli americani riescano a tener la bocca chiusa per tanto tempo”.

E sempre dal Giappone arriva la storia della nascita dei Kamikaze. “La flotta giapponese aveva subito una rovinosa disfatta nella Battaglia del Mare delle Filippine; la forza aeronavale dei giapponesi era ridotta a poca cosa. Tutti sapevano che soltanto un miracolo avrebbe potuto salvare dal disastro l’Impero giapponese. Fu allora che nacque l’idea disperata dei Kamikaze”. Secondo l’ammiraglio Takijiro Ohnishi, comandante della Prima Flotta Aerea e considerato il maggior fautore della guerra dell’aria, c’era solo un modo per fermare il nemico: “precipitando sui ponti di volo delle sue portaerei con i caccia tipo Zero carichi di bombe da 250 chilogrammi”. Il 25 ottobre 1944 ci fu il primo attacco riuscito dei kamikaze. “Quando il Giappone capitolò, 2.519 aviatori, fra ufficiali e uomini della Marina Imperiale, avevano sacrificato la propria vita”. L’ammiraglio Ugaki, comandante della Quinta Flotta Aerea, poche ore dopo l’ordine di cessazione delle ostilità del 15 agosto 1945, “prese la decisione di morire come tanti piloti che egli aveva mandato a morte”. L’ammiraglio Ohnishi, vicecapo dello stato maggiore navale di Tokyo, quella sera s’infisse nell’addome una spada samurai.

Queste sono solo alcune delle storie narrate in questo saggio. Grazie ad esso il lettore avrà modo di approfondire la conoscenza di alcuni eventi della Seconda Guerra Mondiale.

Gianlorenzo Capano