Marco Patricelli
Ed. Solferino
pagg.277
Che fosse accaduto qualcosa di grosso nel pomeriggio dell’8 settembre 1943 a Roma l’aveva capito persino chi non aveva ascoltato di nascosto la radio alleata. […] Al Quirinale c’era un traffico anomalo di automobili nere e grigioverde opaco. Arrivavano e scendevano tutti alti ufficiali, soprattutto generali. Tante “greche” in un colpo solo erano un segnale chiaro che c’erano riunioni da fare e decisioni da prendere, di quelle importanti. Con queste parole l’autore, già professore di Storia dell’Europa contemporanea all’Università Gabriele d’Annunzio di Chieti, ci introduce a questo suo saggio, dove viene descritto, con dovizia di particolari, il comportamento dei vertici politici e militari in uno dei giorni più drammatici della storia d’Italia.
Subito dopo l’annuncio, dato dal generale Eisenhower, alle 18, da Radio Algeri, della firma dell’armistizio da parte dell’Italia, era stata convocata d’urgenza una riunione al Quirinale, che prevedeva la presenza del re, del capo del Governo Badoglio e delle più alte cariche politiche e militari. Il principe Umberto venne tenuto all’oscuro di tutto “A Casa Savoia, come da ferrea tradizione, si regna uno alla volta e per lui non c’è spazio neppure per il coinvolgimento da comprimario in un momento così grave”. A dire il vero anche i vertici della Marina e dell’Aeronautica, pur essendo a conoscenza delle trattative in corso, non sapevano ancora della firma dell’armistizio (e delle relative condizioni armistiziali), avvenuta a Cassibile, il 3 settembre e, così, per 5 giorni, “avevano continuato a impartire ordini e direttive in contrasto logico con lo stato delle cose, a partire dalla programmata ultima missione della Regia Marina per contrastare senza speranza quello che sarà lo sbarco alleato a Salerno”. Inoltre, poiché “gli Alleati si erano riservati di decidere loro il momento della proclamazione”, c’era chi, come il generale Castellano - colui che appose la firma sulla capitolazione, a Cassibile, il 3 settembre – “era giunto autonomamente alla conclusione che prima del 12 settembre l’armistizio corto non sarebbe stato ufficializzato”. Da qui i vani tentativi di Badoglio, una volta apprese le intenzioni degli Alleati di rendere nota l’8 settembre la firma dell’armistizio, di spostare l’evento al 12, facendo riferimento alla “rapida occupazione di Roma da parte germanica ed insediamento di un governo tedesco-fascista”. Ma toccò proprio a Badoglio, su esortazione del re durante la riunione, recarsi alla sede dell’EIAR e, da lì, dare il fatidico annuncio, nonostante la mattina il re stesso aveva assicurato, a un rappresentante del governo tedesco, l’assoluta fedeltà dell’Italia all’Asse.
Erano le 19.42 dell’8 settembre. “Non è la notizia dello sganciamento dell’Italia a stupire i tedeschi, ma il modo in cui avviene”. I tedeschi, infatti, avevano già pronto, da mesi, il piano da applicare in caso di tradimento dell’Italia, e così, a pochi minuti dall’annuncio, “tracimavano in Italia dilagando dall’Alto Adige verso sud”. Da parte italiana esisteva l’OP 44, dove erano contenute le disposizioni per i comandi superiori delle forze armate riguardo all’atteggiamento da tenere verso i tedeschi dopo l’armistizio. Ma nessuno dei vertici militari e politici si prese la responsabilità di renderlo operativo, in pratica “il capo di Stato maggiore generale Ambrosio voleva l’autorizzazione del governo e Badoglio non voleva assumersi la responsabilità di provocare i tedeschi. I comandi periferici a loro volta pretendevano ordini dal Comando supremo che non arrivavano”. Il caos fu inevitabile!
Ci fu però chi, come il generale Gioacchino Solinas, comandante della 21^ divisione Granatieri di Sardegna, in mancanza di chiari ordini, di sua iniziativa, alle 22.10, sulla via Ostiense, aprì il fuoco contro la colonna tedesca. Ma per un generale che si faceva onore, decidendo di difendere Roma ce ne furono altri, i più alti vertici delle forze armate, che, invece, Roma decisero di abbandonarla, direzione Pescara, assieme alla famiglia reale. “Attorno a Roma si sparava, si combatteva, si moriva. Nei palazzi del potere si preparavano invece bagagli e valigie e si scaldavano i motori delle automobili”.
Badoglio aveva il terrore di cadere nelle mani dei tedeschi. Il principe Umberto, “l’unico che manifesta perplessità e vorrebbe rimanere a Roma”, racconterà, successivamente, che il capo del governo “soffriva di incontrollabile depressione nervosa”. Il re, invece, sosterrà, che la sua decisione di allontanarsi da Roma, fu presa “per creare in piena libertà un governo legittimo, ricostruire un esercito, come subito avvenne, evitando che i soldati delle divisioni italiane rimaste al Sud fossero considerati prigionieri di guerra”. È anche vero che Badoglio lo aveva rassicurato sul fatto che, prima di lasciare la città, aveva dato le disposizioni necessarie. Ma purtroppo non era stato così. “Il generale Carboni, comandante della piazza di Roma, in quel fatidico 9 settembre aveva fatto perdere le sue tracce per buona parte della giornata. Non era al comando e non comandava nonostante fosse suo preciso dovere. I reparti, slegati tra di loro, agivano in autonomia e in evidente confusione, ingessati dalle direttive centrali nebulose e dalla mancanza di ordini precisi, sballottati dagli eventi, con gli ex alleati che si comportavano da nemici”. Badoglio, come anche altri ufficiali, si era sbarazzato dell’uniforme.
Il convoglio, partito da Roma, nella tarda mattinata fece sosta al castello di Crecchio, dove i reali e il loro seguito furono ospiti, a pranzo, dei padroni di casa, i duchi di Bovino, per poi ripartire verso le 15 in direzione di Pescara, dove, nell’aeroporto, si tenne un Consiglio delle Corona. “In quest’occasione il consilium regis decide non cosa si debba fare per salvare l’Italia dal caos, ma come salvare i vertici dello stato: non con gli aerei, la scelta più logica, ma con le navi, per raggiungere un’imprecisata località tra Bari e Brindisi”. Le navi, messe a disposizione dall’ammiraglio De Courten, ministro della marina, erano l’incrociatore Scipione l’Africano, e le corvette Scimitarra e Baionetta, alla fonda rispettivamente a Taranto, Brindisi e Pola.
A Roma, intanto, “c’è il crollo verticale del sistema. I ministeri, descrive Paolo Monelli, avevano mandato a casa tutti gli impiegati, nessun ufficio rispondeva al telefono, a certi comandi militari si bruciavano carte e archivi”. Sul Baionetta, nella notte tra il 9 e il 10 settembre imbarcarono, dal molo di Ortona - che l’autore definisce “il molo della vergogna”- il re e la regina, mentre Badoglio e De Courten si trovavano già a bordo: in tutto, 57 persone. “È partita la caccia agli abiti civili. […] Pezzi di uniformi gravide di mostrine e medaglie vengono lasciate sul molo, giacche e pantaloni di raffinate sartorie militari vengono barattati con vestiti modesti e d’uso quotidiano”.
La corte, con il suo seguito, approdò a Brindisi, scelta “per timore di un attacco della Luftwaffe dopo l’avvistamento da parte dell’aereo tedesco che verosimilmente aveva segnalato la posizione delle due navi da guerra italiane”. Da qui, prima il re e poi Badoglio, l’11 settembre rivolsero il loro primo messaggio agli italiani. “Il regno di Vittorio Emanuele governato da Badoglio è un rimasuglio dell’Italia: la Sardegna, Bari, Brindisi, Lecce e Taranto. Tutto il resto era occupato o dagli angloamericani o dai tedeschi dopo la proclamazione della resa italiana”.
Questo fu il risultato della gestione di una classe dirigente certamente non formata da eroi e che “era stata capace in tre giorni nell’impresa impossibile di far dissolvere qualcosa come settantadue divisioni tra quelle in linea l’8 settembre”. Questo fu il risultato della gestione di uomini che “ancora mercoledì 8 settembre avevano in mano tutte le chiavi per impedire un’implosione fuori controllo, e giovedì 9 non ebbero la forza né di controllare né di indirizzare gli eventi. Purtroppo per loro e, soprattutto purtroppo per la nazione, non erano né strateghi né statisti”.
L’atto che, quindi, quella classe dirigente compì il 9 settembre, fu una fuga o un trasferimento, una scelta razionale oppure una risoluzione sciagurata? L’autore non ha dubbi. Se le intenzioni del re “erano quelle di tutelare il supremo senso dello Stato, non avrebbe dovuto portare con sé il capo del governo e neppure i capi militari, ai quali avrebbe dovuto imporre la sua volontà di capo di quello stesso Stato e di comandante supremo, ordinando di restare a Roma e di battersi, perchè questo era il loro mestiere e il loro incarico”. Ma questo non avvenne. “La responsabilità personale”, infatti, “richiedeva il sacrificio fisico e quello morale, che una classe dirigente inadeguata non era in grado di mettere sul piatto della bilancia della storia”.
Quella da Roma fu quindi una fuga che, come sostiene Elena Aga Rossi, ebbe “come motore l’esigenza dell’incolumità personale e non l’interesse della nazione”. Mancò, quindi, a quella classe dirigente “la consapevolezza del ruolo e si smarrì la dignità di quel ruolo nel nome del privilegio”.
Gianlorenzo Capano