Gianni Oliva: IL PURGATORIO DEI VINTI - La storia dei prigionieri fascisti nel campo di Coltano

Gianni Oliva
Ed.Mondadori, Milano 2023
pagg.206

Coltano, località alle porte di Pisa, è il luogo dove Guglielmo Marconi costruì, nel 1911, un centro radio e da dove, nel 1931, fece partire l’impulso radio che accese a Rio de Janeiro le luci del Cristo Redentore. Ma Coltano è anche il luogo che gli angloamericani scelsero per realizzare nel maggio del 1945, su 1.200 ettari, un campo di prigionia che ospitò trentaduemila prigionieri. Molti di loro “sono i vinti di della guerra civile, i ragazzi di Salò, adolescenti o poco più che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 hanno scelto la continuità con i valori del combattentismo nei quali il Ventennio li ha educati e che in nome di un senso malinteso della patria e dell’onore sono andati volontari a cercare la dannunziana bella morte”.

Il PWE 337, così venne indicato il campo di Coltano, fu caratterizzato dal sovraffollamento, dal vitto scarso, dalla repressione. “Si tratta di un campo di prigionia per nemici vinti al termine della guerra più drammatica della storia, e sicuramente le condizioni di vita sono pesanti”.

In totale i fascisti internati nei campi (oltre a quello di Coltano ci furono quello della Certosa di Padula, presso Salerno, e quello Collescipoli, presso Terni) furono circa cinquantacinquemila. E “Coltano appare soprattutto lo specchio dello smarrimento ideologico e morale lasciato dal 1943-45: molti dei prigionieri sono ragazzi del 1925-26, adolescenti o poco più infiammati dall’educazione littoria, avviliti dal tradimento dell’armistizio, indignati con il re e con Badoglio, che hanno reagito alla frustrazione schierandosi dalla parte sbagliata”. Uno di questo fu Raimondo Vianello, volontario nelle forze della Repubblica sociale come sottufficiale in un reparto di bersaglieri. “Non rinnego né Salò né Sanremo” sono le parole con le quali egli iniziò un’intervista pubblicata, nel 1998, sul settimanale Lo Stato, diretto da Marcello Veneziani. Un’intervista dove fece un’analisi della stagione drammatica 1943-45 e il cui scopo “è il riconoscimento della scelta, un messaggio di distensione verso la questione storica della Repubblica sociale”. “Lette oggi, le sue dichiarazioni appaiono semplici, sincere, per nulla sconvolgenti, ma venticinque anni fa risultano destabilizzanti e per questo, dopo lo scalpore dei primi giorni, vengono archiviate e dimenticate”.[…] Per il grande pubblico, che conosce il passato solo attraverso gli schemi della vulgata, scoprire che tra i militi della Repubblica sociale ha combattuto un personaggio come Raimondo Vianello, così seguito e amato, significa rimettere in discussione la percezione comune di quello stesso passato e domandarsi se avere scelto la parte sbagliata è stata davvero un’opzione figlia del male o non piuttosto la conseguenza dell’educazione ricevuta”.

A Coltano, nel luglio del 1945, giunse anche Enrico Maria Salerno, arruolatosi volontario, a 17 anni, nella Guardia nazionale repubblicana e diventato sottotenente quando la Repubblica sociale sta ormai franando. Nel suo caso “rispetto al passato repubblicano, nessuna abiura e nessuna rivendicazione da parte sua: semplicemente la consapevolezza di una stagione difficile, attraversata nell’età più fragile, l’adolescenza”.

Un altro personaggio che, secondo alcune fonti, sarebbe stato prigioniero a Coltano, è Walter Chiari che, entrato, nel 1944, nella Decima Mas di Junio Valerio Borghese, “non ha mai smentito le sue scelte giovanili”.

Altri personaggi che, avendo aderito alla Repubblica sociale, verosimilmente sono passati da Coltano sono Ugo Tognazzi, Enrico Ameri e il musicista Gorni Kramer, oltre al giornalista Mauro De Mauro.

Quello che, forse, tra i personaggi illustri che aderirono a Salò, ne uscì peggio fu il futuro premio per la letteratura Nobel Dario Fo. Icona dell’antifascismo militante, “nel corso degli anni, egli ha alternato parziali ammissioni, smentite, ridimensionamenti, querele, giustificazioni”. Il settimanale Gente, il 4 marzo 1978, pubblicò, a corredo di un’inchiesta di Luciano Garibaldi, “una fotografia, che mostra il giovanissimo Dario Fo insieme a due commilitoni, tutti con la divisa del Battaglione Azzurro”, costituito dai paracadutisti della RSI di stanza a Tradate. Egli ammise di essersi arruolato nella Scuola di paracadutismo di Tradate. Sostenne, successivamente, di non aver mai preso parte a rastrellamenti e “che il suo arruolamento è stato concordato con alcuni comandanti partigiani per fare il doppio gioco”. Forse, invece di querele, reticenze, smentite, parziali ammissioni “sarebbe stato meglio per lui ricordare semplicemente l’età” come sostenne Indro Montanelli: “Fo aveva allora meno di vent’anni, un’età in cui è possibile tutto, e tutto può e deve essere perdonato”. Di lui, però, non si ha certezza che sia passato dal campo di Coltano.

Il poeta americano Ezra Pound, trasferitosi in Italia, divenne “uno dei più efficaci propagandisti dell’Asse nazifascista”. Dopo l’armistizio aderì alla Repubblica sociale. Prelevato, il 3 maggio 1945, da due partigiani nella sua casa di Rapallo, fu rinchiuso, molto probabilmente, per pochissimo tempo a Coltano per poi essere trasferito nel campo di Metato, in provincia di Lucca, dove scrisse i Canti Pisani.

Figura molto interessante è quella di Roberto Vivarelli, “uno dei maggiori storici del Novecento, docente alla Scuola Normale di Pisa, conosciuto per la nettezza delle sue posizioni antifasciste”. Sia lui che il fratello si arruolarono nella Decima Mas. Tenuta in silenzio, per anni, la sua storia di milite repubblicano, “nel 2000 sente tuttavia di voler fare i conti con il proprio passato e farlo pubblicamente con un libro” dove afferma “se qualcuno mi chiedesse se sono pentito di aver combattuto nelle file della Repubblica di Salò, risponderei che non soltanto non sono pentito, ma ne sono a mio modo orgoglioso.[…] Per noi il fascismo era un mito.[…] Ci avevano insegnato a credere, obbedire, combattere, ed ora continuavamo a credere con fede assoluta, eravamo pronti a obbedire, e quella di combattere era la nostra massima aspirazione.” Da questo deriva il non poter capire il rovesciamento di fronte dell’Italia e la “convinzione del tradimento del re e di Badoglio, che avevano vergognosamente abbandonato il campo lasciando allo sbaraglio l’esercito e la nazione tutta”. Ne deriva, da parte del Vivarelli, la considerazione che “la qualità di una causa e il giudizio storico che su di essa abbiamo il dovere di dare, è tutt’altra cosa dalla qualità degli uomini che quella causa hanno onestamente servito. […] Trovarsi dall’una o dall’altra parte della barricata dipende il più delle volte dalle circostanze: le ragioni della vita non coincidono con le ragioni della storia”.

Ma chi furono i prigionieri rinchiusi a Coltano? Se nei campi di prigionia del Centrosud vennero rinchiuse persone accusate “per le attività di spionaggio e agitazione del fascismo clandestino, oppure per i ruoli avuti durante il Ventennio”, nei campi del Nord, come quello di Coltano, furono rinchiusi “i militi e i simpatizzanti di Salò, protagonisti della guerra civile”, che si combattè, in Italia, tra il 1943 e il 1945, per venti mesi, con “un epilogo di furore, di cui piazzale Loreto rappresenta il simbolo tragico (ma non unico)”. Un campo, quello di Coltano, che “rappresenta un’esigenza insieme di detenzione e di protezione: da un lato fermare chi è stato nemico fino alla resa e verificarne eventuali responsabilità in eccidi e rastrellamenti; dall’altro sottrarre chi ha combattuto a Salò dalla giustizia sommaria”.

Dopo lunghe discussioni, tra Alleati e governo italiano, sullo stato giuridico da riconoscere ai militari repubblicani, dove, per l’Italia, questi erano da considerare dei traditori, mentre per gli Alleati dei prigionieri di guerra, prevalse, grazie anche alla Croce Rossa, quest’ultima tesi. All’interno del campo di Coltano, comunque, “la disciplina è rigida e il trattamento riservato ai fascisti è sicuramente peggiore di quello previsto per i prigionieri di guerra”. Mancanze di ogni genere venivano sanzionate con punizioni di vario tipo. “Per le colpe ritenute più gravi c’è la gabbia, uno spazio al sole in cui si viene rinchiusi con ciottoli aguzzi piantati nel terreno”.

Il 28 agosto 1945 la giurisdizione del campo passò dagli Alleati al ministero della Guerra italiano, con un conseguente miglioramento del trattamento dei prigionieri, ma con peggioramento delle condizioni generali. Infatti, “appena uscita dalla guerra, tutta la penisola è in emergenza e i fascisti prigionieri non sono certamente la priorità”.

L’approssimarsi dell’inverno, con il necessario adeguamento del campo alle condizioni ambientali più rigide; il fatto che i prigionieri di Coltano non siano soggetti ai quali siano state mosse accuse specifiche; la possibilità di attrarre, da parte dei partiti politici, voti per le future elezioni politiche e non ultimo, l’aumento dei decessi, sono tutte questioni che spinsero il governo a decidere per la chiusura del campo, che avvenne il 1°novembre 1945, “previa verifica della posizione dei singoli prigionieri e il trasferimento in altre strutture detentive di quelli giudicati non liberabili”.

Dei 28.070 soggetti esaminati, da trentuno commissioni, 26.042 furono giudicati liberabili. Dopo quello di Coltano, anche gli altri campi dove erano detenuti gli ex appartenenti alle forze militari repubblicane, vennero smantellati.

Perché è stato necessario dedicare un libro al campo di prigionia di Coltano, si chiede, nel finale l’autore. “Scrivere di Coltano non significa né assolvere né condannare: ma, ottant’anni dopo, cercare di comprendere perché tanti, in quegli anni disperati, hanno scelto la parte sbagliata”, senza dimenticare “che la criminalizzazione di Salò serve soprattutto ad assolvere tutti coloro che sono stati fascisti sino al 25 luglio e che negli anni del regime hanno costruito carriere, ricevuto onori, lucrato fortune più o meno illecite;[…] o per sorvolare su dichiarazioni e articoli pregressi di uomini diventati paladini della democrazia senza avere mai pronunciato una parola di autocritica o di scuse per il proprio passato”.

Un saggio, quindi, che si potrebbe definire coraggioso, questo del professor Oliva, perché scritto da uno storico che ha iniziato a fare politica attiva nel Partito Comunista per poi continuarla nelle successive mutazioni del partito stesso; uno storico, quindi, di sinistra che tratta, con il necessario distacco, un argomento non facile da trattare dalla sua parte politica di appartenenza. Uno storico, quindi, il professor Oliva che ha colto in pieno il suggerimento datogli, a suo tempo, da Alessandro Galante Garrone: “Quando scrivi un libro di storia nessuno di quelli che ti legge deve capire per chi voti”.

Gianlorenzo Capano