Davide Bennato, Manolo Farci, Giovanni Fiorentino
Guerini Scientifica, 2023.
pagg. 211
Questo libro nasce da una serie di seminari – per la precisione, due incontri, svolti in rete nel 2022 – e riprende nel titolo il Corso di mediologia generale di Régis Debray (1991): i tre curatori, insieme a Giovanni Ragone, che firmano la Premessa e la Introduzione, tengono a precisare che non si tratta di un instant book e che la parola mediologia, e non media, è stata scelta proprio per assegnare un preciso senso al contenuto di queste pagine.
Di che senso si tratta? Possiamo qui richiamare l’idea che i media non sono solo mezzi di comunicazione ma sono essi stessi comunicazione e produttori di sense making: contribuiscono a costruire le visioni del mondo e la cultura o la percezione della popolazione, rendono possibile a delle idee di avere forza e di plasmare in certo senso la società. Quindi, mediologia – nonostante che la Treccani la descriva come “lo studio dei mass-media” e “lo stesso che massmediologia” – non coincide con lo studio dei mezzi di comunicazione di massa e non è l’analisi dei contenitori dentro i quali sono trasmessi i contenuti, prendendo in considerazione la genesi dei messaggi e il modo in cui essi sono assorbiti e vissuti delle persone. Ecco i richiami ai processi piuttosto che agli oggetti, ai simboli piuttosto che ai mezzi, e anche alle istituzioni che in tutto questo agiscono come produttori ed indirizzatori di senso.
Così, le ventinove parole che compongono il testo si richiamano a dimensioni diverse che ruotano, tutte, intorno a una necessità, ben espressa dalla seguente frase: “mentre si consuma lo spettacolo della guerra non si può dismettere di pensare” (p. 19).
Il lettore sarà sicuramente attratto dal capitolo intitolato Armi (a firma di Tiziana Migliore) in cui si centra l’attenzione sulla narrazione costruita intorno agli strumenti di difesa e offesa nel contesto di una guerra “da subito trasfigurata in una narrazione archetipica che rimanda allo scontro del bene contro il male” (p. 45), come si legge nel capitolo sull’Autenticità di Manolo Farci. Ma anche le pagine che trattano la digital war, la cyber war, l’utilizzo di strumentazioni sofisticate e gli approcci elaborati di propaganda risultano affascinanti dato che si tratta di tematiche lette e discusse da un vertice originale e poco frequentato. Forse sarebbe stato opportuno dedicare un capitolo specifico alla guerra psicologica (spesso oggi indicata riduttivamente come guerra cognitiva), ma è anche vero che diverse indicazioni esplicite e, più spesso implicite, alla guerra psicologica sono contenute in capitoli dedicati alle narrazioni, alle ricostruzioni, alla gestione delle informazioni – però non mi sembra che il tema della infodemia abbia trovato una giusta collocazione.
Davanti a una guerra per metà combattuta come se fossimo tornati alle trincee del primo conflitto mondiale e per l’altra metà proiettati nel futuro con droni, guerra elettronica e robot killer, nel capitolo dal titolo Umanità, richiamando il lavoro di Susan Sontag Davanti al dolore degli altri, Antonio Rafele si domanda se “è ancora attuale questa parola di fronte alle immagini di guerra” (p. 183): una domanda centrale che introduce il lettore ai due capitoli finali che affrontano i seguenti due temi: Z (a firma di Giovanni Boccia Artieri) e Zelensky (Vincenzo Susca).
In questo scenario anche il ruolo del giornalismo è molto cambiato e Carlo Sorrentino si chiede, nel capitolo Giornalismo, “quali sono le specificità del giornalismo di guerra nell’era della comunicazione digitale, che ha reso molto più labili i confini tra fonti, giornalisti e pubblico” (p. 103).
Interessanti i capitoli Nemico (Emiliana De Blasio), Narrazione (Federico Montanari) e, naturalmente, Propaganda (Fausto Colombo), in cui è richiamato il libro di Philip M. Taylor, con le sue oltre trecentocinquanta pagine, dal titolo Munitions of the Mind: A History of Propaganda from the Ancient World to the Present Era (Manchester University Press. III edizione, 2003).
Ma “dov’è la guerra? Per noi telespettatori la guerra è principalmente in TV. Nella buona, cara, vecchia televisione generalista. Ciò che vediamo sono i servizi realizzati dagli inviati delle reti generaliste” (p. 166) e rimangono così impressi volti e luoghi associati ai reportage: è la teleguerra (capitolo a firma di Stefano Cristante) in qualche modo associabile all’emergere di TikTok, di cui scrive Ilenia Colonna, ricordando che questa piattaforma non solo ha reso visibili i giovani soldati, ma ha implementato la cosiddetta Open Source Intelligence (OSINT), “cioè la raccolta di informazioni di intelligence tramite fonti aperte e accessibili a chiunque” (p. 174). In questa scia è pure da segnalare l’attenzione data alla memetic warfare (capitolo a firma di Emiliano Chirchiano): “i memi che, dall’inizio del conflitto, alimentano i canali della memetic warfare ucraina si possono suddividere in tre filoni: evidenziare l’eroismo dei soldati e dei civili ucraini che combattono in prima linea per sollevare il morale del paese; deridere le truppe russe per la loro inettitudine e denigrare il loro presidente, Vladimir Putin; criticare l’immobilismo occidentale, in particolare quello di Nazioni Unite e NATO” (p. 118).
Si potrebbe concludere affermando che questo libro tratta di una modalità importante di costruzione & decostruzione delle (molteplici) realtà. Un fenomeno che questa guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina ha ben messo in evidenza fin dai primi accenni di propaganda che hanno preventivamente introdotto, per così dire, la guerra vera e propria.
Andrea Castiello d’Antonio