Giuseppe Mazza
Prospero Editore, Novate Milanese, 2023
pp. 527
“Nessuna attività umana ha come la guerra la capacità di diventare narrazione… Si può anzi dire che la modernità della guerra consista, oltre che nell’aumento della capacità distruttiva, nella sfrenata accelerazione della sua fabula” (p. 291). Ma quale favolistica? Quale narrazione? Quale – si direbbe oggi – storytelling? Nelle pagine di questo libro, pagine dense e molto ben supportate da documentazione, riferimenti e resoconti, è proposta una risposta a queste domande che tiene insieme la propaganda (certamente!) ma anche la pubblicità e la ricerca di marketing con le sue analisi delle aspettative della clientela – nel nostro caso rappresentata dai cittadini di una nazione.
Slogan, reclame, poster, messaggi pubblicitari, incitazione all’azione, alcuni sottili e appena accennati, altri pesanti e colpevolizzanti l’ignaro passante che, ad esempio, si sentiva traditore se non avesse contribuito allo sforzo bellico in una qualche modalità.
È il discorso della e sulla guerra che prende corpo, la guerra narrata e rivisitata che, ad un certo punto, e per mano di alcuni (giornalisti, registi cinematografici, documentaristi, reporter di guerra o, più semplicemente, reduci e veterani) scopre il suo lato drammatico, deforme e deformante; quel lato del resto ben descritto da coloro che iniziarono a riportare l’esperienza della vita nelle trincee della prima guerra mondiale, una vita di fango e scarafaggi, in cui (come ho letto tempo fa da qualche parte), il 90% del tempo era noia, e il 10% puro terrore.
L’autore inizia il suo discorso prendendo l’argomento alla lontana, richiamando l’Odissea, poi Sigmund Freud e la sua visione non certo ottimistica del vivere umano, e Karl Kraus con le sue taglienti critiche alla società; ma ecco emergere il tema della pubblicità, del coinvolgimento di giornalisti, scrittori e artisti nella rappresentazione della guerra e, curiosamente, ecco visualizzarsi un nipote di Sigmund Freud, Edward Louis Bernays (Vienna, 22 novembre 1891 – Cambridge, 9 marzo 1995), pubblicista, pubblicitario, esperto di pubbliche relazioni, antesignano degli spin doctors, ben presto arruolato nel Committee on Public Information (1917-1919) come consulente.
L’insieme di psicologia, pubblicità e propaganda iniziò a prendere forma: dai volantini ai messaggi pubblicitari su cartelloni, dagli slogan ai messaggi subliminali e alle rappresentazioni plastiche di video e film, passando attraverso l’Office of War Information, creato nel 1942, o il Servizio P italiano, nato a valle della disfatta di Caporetto. Così Giuseppe Mazza compie i suoi puntuali resoconti: i messaggi sono prodotti e media insieme, sono mezzi di comunicazione e arte linguistica e figurativa, e servono a rappresentare, di volta in volta, la nobiltà della guerra giusta, la bestialità del nemico, la necessità di contribuire con il proprio corpo alla difesa della nazione – vedi le campagne We needs you! oppure lo slogan Tu puoi guardarlo negli occhi? a supporto dell’immagine di un soldato ferito nei combattimenti – la legittimità di difendersi o di attaccare, la virtù del coraggio e quella del soccorso (simbolizzato dalle infermiere), tenendo sempre ben presente che in tutta questa opera di advertising “la morte in guerra non rientrava tra le merci proponibili” (p. 115). Ma la guerra era, ed è, difficilmente comunicabile agli stessi combattenti e alcune pagine del libro sono dedicate a come le informazioni e le rappresentazioni dei conflitti bellici circolavano nelle trincee e tra le truppe al fronte. Chi, invece, ha avuto meno problemi a utilizzare il conflitto bellico per i propri fini espliciti è l’industria delle armi e di ogni genere di equipaggiamento. Ad esempio, le marche Burberry e Aquascutum idearono impermeabili molto eleganti per gli ufficiali, anche se “ben presto l’aspra verità della guerra avrebbe preso il sopravvento su questa narrazione, e sarebbero stati proprio gli ufficiali a farne le spese: quando i cecchini tedeschi capirono ciò che li distingueva dai soldati semplici, fu per loro molto più facile colpirli” (p. 254-255).
La narrazione della guerra ha reclamato alcune vittime anche tra gli stessi militari che sono stati presi ad emblema e come simbolo di gesta eroiche, schiacciati dall’esposizione sociale e dal peso del ruolo imposto dai media che dovevano continuare a tenere sulle loro spalle. E nulla ha valso il martellamento delle frasi ad effetto sugli esiti dei vari fronti di guerra: martellamenti spesso in tono sempre più sottile e contenuto come nella seguente, esemplificativa, serie: Abbiamo vinto! – Stiamo vincendo! – Rimarremo fino a che non vinceremo!
A riportare il mondo alla realtà furono i resoconti dei reduci, i documentari girati sul fronte, le fotografie e i film di guerra che, via via, tendevano a rappresentare la situazione vissuta dai soldati con modi sempre più realistici.
Andrea Castiello d’Antonio