Craxi, Erdogan e la politica dell’”onesto bastardo”

19/03/18

Il paragone sembrerà ardito ai più, perché in apparenza Bettino Craxi e Recep Tayyip Erdoğan non hanno altro in comune se non il rapporto molto pratico e poco sentimentale di amicizia con Silvio Berlusconi. Per il resto, l’uno è stato un leader dell’eurosocialismo e presidente del consiglio di lungo periodo negli anni ottanta, ancora oggi vittima di una damnatio memoriae che impedisce un’analisi serena del quarto di secolo che va dall’elezione a segretario del PSI durante lo storico congresso all’Hotel Midas di Roma fino alla morte, nell’ultimo anno del XX secolo, nel volontario esilio di Hammamet. L’altro da 15 anni, con comportamenti da padre-padrone della nazione turca, influenza pesantemente i destini di una vasta regione che va dal Nord Africa all’Iran, passando per il Caucaso, la Mesopotamia, la Penisola Araba e i Balcani, oltre che la vita civile ed economica della Turchia, con riforme liberaliste in economia e… di ben altra natura nei suoi rapporti con le minoranze etniche, le opposizioni, i giornalisti e l’istruzione. Di certo, siamo di fronte a due personaggi di cui i libri di storia parleranno ancora a lungo quando leader oggi più venerati dai media main stream saranno bell’e dimenticati da un pezzo. A ben vedere, però, i due hanno un elemento in comune molto marcante, che informa appunto la loro presenza internazionale e i loro rapporti con la potenza egemone in questa parte del mondo e con la principale organizzazione per la sicurezza internazionale e regionale: ovviamente, parliamo degli Stati Uniti d’America e della NATO. L’elemento marcante è, come dal titolo di questo pezzo, l’aver impostato detti rapporti a un modo di fare da “onesto bastardo”. Ma andiamo per ordine…

L’Italia di Bettino Craxi gioca un ruolo fondamentale nella difesa del fianco meridionale della NATO durante l’ultimo decennio della guerra fredda: mentre in Germania i socialdemocratici esitano a dare un consenso pieno all’installazione dei missili pershing e cruise puntati contro l’Unione Sovietica, in Italia non manca il sostegno forte del leader del PSI, che in questo modo dà un contributo essenziale alla sconfitta sovietica nella Guerra Fredda1-2.

Craxi un atlantico a tutto tondo? Sì, nel senso della disponibilità a dare un sostegno serio nel momento del bisogno, ma non oltre. La politica estera del segretario socialista si tenne sempre e apertamente autonoma rispetto a un americanismo e a un atlantismo di altri, incapaci di produrre una linea politica al punto da diventare solo servili imitatori, per non dire camerieri, di quella altrui. Non era questo il caso di Bettino. Se il sostegno al dittatore socialista somalo Muhammad Siad Barre è da intendersi come profetico, col senno di poi, alla luce di quasi trent’anni di conflitti ininterrotti nella nostra ex colonia dopo la sua cacciata, non meno lungimirante è l’impegno italiano a salvare la vita a Muhammar Gheddafi prima dei raid americani sulla Libia nell’aprile 1986, considerando il leader della Gran Giamahiria un pericolo ben minore rispetto a una Libia in preda a una guerra civile infinita o controllata da un governo ostile all’Italia3.

Ben più famose e discusse sono le vicende del sequestro della nave da crociera Achille Lauro, battente bandiera italiana, e della seguente crisi di Sigonella, che vedono Craxi ancora una volta giocare a carte quasi scoperte una partita con gli Stati Uniti, che oggi nessun politico italiano oserebbe affrontare così apertamente. Ricordiamo che negli anni ottanta siamo ancora in piena Guerra Fredda e che dall’altra parte c’è Ronald Reagan, un presidente che a confronto il Barak Obama che mosse come pedine Silvio Berlusconi e i suoi ministri durante la crisi libica del 2011, fa la figura di una mezza porzione di fronte a un pranzo intero. Ma Craxi è di un’altra pasta… Lui sa tenere testa agli americani non come un Maduro qualsiasi, ma da alleato che per prima cosa mette l’interesse nazionale e la stabilità della rete di relazioni costruite dal proprio Paese, senza odio ideologico. Ricordiamo, per i più giovani, che in quella notte convulsa tra il 10 e l’11 ottobre, tre cerchi composti da - all’interno - un cordone di avieri e carabinieri, nel mezzo incursori dei Navy Seal e - all’esterno - un secondo cordone di carabinieri, che erano nel frattempo arrivati dalle vicine caserme di Catania e Siracusa, si sfidano per ore, armi in pugno, senza sparare un colpo, il tutto nella parte della base sotto la giurisdizione italiana. Infine, alle 5:30, il comandante dei carabinieri, generale Riccardo Bisogniero fa intervenire (su ordine di Craxi) i blindati dell'Arma e altre unità di rinforzo: al ché, nonostante enormi pressioni diplomatiche oltre che militari, il reparto speciale americano ricevono l'ordine di rientrare.

Il confronto spesso non è tanto con gli Stati Uniti quanto con le medie potenze dell’Alleanza Atlantica: ricordiamo, in tale proposito, come la Francia di Emmanuel Macron, abbia “giocato” l’Italia di Paolo Gentiloni con la questione nigerina. Ebbene, nel 1987 la leadership craxiana ha la meglio sulle manovre francesi per piazzare un uomo gradito a Parigi al posto del senescente Habib Bourguiba: avvertito per tempo, Zine El-Abidine Ben Ali toglie di mezzo il vecchio presidente e sbarra la strada al ritorno dei francesi al potere sotto mentite spoglie.

Dall’altra parte, abbiamo il primo ministro e - dal 2014 - presidente turco che dalla posizione strategica del proprio Paese e dalla partecipazione alla NATO ha saputo trarre vantaggi incalcolabili. Spesso dimentichiamo il “primo Erdogan”: quello che normalizza le relazioni greco-turche, apre una università turca a Irbil nel Kurdistan iracheno, si fa paladino del referendum per la riunificazione di Cipro e promuove riforme economiche e politiche per favorire l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Ebbene, non esistono un “prima” e un “dopo”: esiste la continuità di un leader “atlantico” che cerca di piegare con le buone e - quando queste non sono bastate - con le cattive - o addirittura con le pessime - le nazioni, i gruppi etnici e le economie della regione al supremo interesse di una Turchia neo-islamica e neo-ottomana, perfettamente inserita nella NATO. Armenia, Egitto, Grecia, Iraq, Italia, Norvegia Russia: non si contano più i Paesi minacciati dal nuovo Sultano di Ankara. Né quelli in cui le forze armate turche e i loro alleati sul campo hanno usato la forza: la Siria è solo il caso più macroscopico, ma in realtà dovremmo aggiungere anche “vittime” non scontate come Italia e Russia.

Eppure, la Turchia di Erdogan sta lì, ai vertici della NATO. L’organizzazione con sede a Bruxelles le ha permesso di fare il bello e il cattivo tempo, senza battere ciglio: rifiuto di aderire alle sanzioni occidentali contro la Russia per la crisi ucraina, relazioni a dir poco ambigue con Daesh (il così detto Stato Islamico), sostegno aperto ai Fratelli Musulmani (e poi al loro sponsor, il Qatar), gestione autonoma dei rapporti con la Russia di Putin nel modo più libero (fino all’acquisto dei sistemi antimissile S400, primo al mondo), pesanti interferenze nelle acque territoriali di Grecia e Cipro e occupazione manu militari di intere porzioni di territorio siriano, senza passare per la NATO né per Washington, ma col tacito consenso di Mosca.

Parliamo di uno stile diverso da quello di Craxi, ma a ben vedere anche di un Paese, la Turchia, ancora intrisa di militarismo e in questo molto lontana dall’Italia. Parliamo però di un identico comportamento da “bastardo” che fa tutto di testa sua, ma…onestamente, senza ambiguità e senza rompere la solidarietà atlantica nel suo elemento fondamentale, quello militare in caso di bisogno estremo.

Per il resto, a Roma negli anni ottanta e a Ankara oggi, la pensano uguale: a parte l’importanza di un minimo di concertazione atlantica… ognuno fa per sé.

Varrebbe la pena chiedere ai “vincitori” delle elezioni del 4 marzo se anche per l’Italia un comportamento un po’ più “da bastardo” non sarebbe il modo migliore di confermare una “solidarietà atlantica” che qualcuno vuol mettere invece in discussione per motivi ideologici. Insomma, fra Craxi / Erdogan da una parte e Chavez / Maduro dall’altra, chi scrive non ha dubbi quali scegliere.

David Rossi

 

1 “I tedeschi, con accanto il muro di Berlino e una opinione pubblica in parte attratta dallo slogan “meglio rossi che morti”, chiarirono che, se un solo grande Paese avesse vacillato e negato l'installazione dei missili, la Germania si sarebbe tirata indietro e quindi non se ne sarebbe fatto nulla. [...] L'Italia fu subito vista come l'anello debole, il “grande Paese europeo” che avrebbe potuto dire di no [...] L'anello debole dell'Alleanza Atlantica, l'Italia, era vicino a spezzarsi e si sarebbe spezzato senza la resistenza imprevista, testarda e durissima condotta dal Partito Socialista di Craxi. L'Italia alla fine installò i missili e così fecero pertanto tutti i Paesi europei”. Ugo Intini, L'occasione mancata della sinistra italiana, su ilsocialista.com, 4 novembre 2009.

2 "L'Amministrazione Usa (ma anche il Cancelliere Schmidt) ha chiaro da tempo che l'istallazione (cioè la contromossa che può mettere definitivamente Breznev con le spalle al muro) dipende solo dall'Italia; ora si è convinta, con buone ragioni, che la carta decisiva per consentirla è nelle mani di Craxi”. Gennaro Acquaviva, Una tragedia italiana, in Mondoperaio, n. 7-8/2014, p. 22:

3 Sui “famigerati” missili lanciati da Gheddafi contro Lampedusa, ricordiamo che non ne trovammo mai traccia, se non nelle informazioni fornite dagli USA.

(foto: web / Présidence de la République française / Türk Silahlı Kuvvetleri)