Intervista al professor Arduino Paniccia, docente di studi strategici, direttore della Scuola di Competizione Economica Internazionale di Venezia – ASCE ed analista della Rivista Militare, su temi di politica estera, guerra asimmetrica, pace negativa, vittoria sufficiente e BRICS.
La teoria generale dei sistemi, è un concetto formulato per analizzare i processi degli attori sociali nel quadro dei propri contesti ambientali. Lo studio delle dinamiche internazionali è basato sull’autorevolezza in materia di politica estera e sulla stabilità economica di ogni singolo Stato, ossia la condizione geopolitica, l’impatto della tecnologia sull’economia, le comunicazioni, i trasporti e l’implementazione dei sistemi d’arma, e quanto questi incidano sulla distribuzione del potere. Questo sembra applicabile alla Federazione Russa, ma quest’ultima riuscirà a completare il viatico per assurgere allo status di superpotenza?
La strategia è un metodo che porta inevitabilmente a formulare un perimetro della realtà in cui ci si trova ad operare. Questa realtà è un sistema dove il tutto è superiore alla somma delle parti, e perciò non riconducibile ad un mero insieme di elementi. Ma sarebbe un errore ritenere che dal metodo strategico e dal modello si possano dedurre cartesianamente la condotta da seguire e il risultato finale.
La forza di uno stato all’interno del sistema internazionale è data quindi non solo dalla sua forza militare, ma da un insieme molto più vasto di fattori dove gli elementi di carattere non necessariamente militare, come quelli citati, diventano fondamentali. Consideriamo però che né Cina, né Russia, né tantomeno Stati Uniti hanno rinunciato a mantenere non solo arsenali nucleari, ma anche potenti forze armate convenzionali. Che danno loro un notevole peso contrattuale a livello politico-diplomatico e, accrescendone il prestigio internazionale, ne aumentano anche la credibilità a livello finanziario e monetario.
Per quanto riguarda la Federazione Russa, bisogna prima di tutto dire che ha ereditato direttamente dall’Unione Sovietica una capacità nucleare globale che, anche se indebolita, non è affatto scomparsa. E ai russi è piaciuto rammentarlo nel marzo e nel settembre scorsi, con il lancio di un ICBM e di un SLBM. Anche le forze convenzionali russe sono tutt’altro che scomparse, e per la Russia l’industria bellica è una voce fondamentale delle esportazioni, che non sono basate solo sulle forniture energetiche o di materie prime. Attualmente la strategia russa sembra essere più una “grande tattica”, basata soprattutto sul contenimento della spinta occidentale verso est in Ucraina e in Georgia, e sulla creazione di un nuovo sistema di “stati cuscinetto” tra Occidente e Russia. Però certamente la Russia punta al mantenimento del suo ruolo di potenza. Per Stati Uniti ed Europa si sta profilando quello che è il peggior scenario, ovvero la Federazione Russa sempre più facente parte di un blocco euro-asiatico unitamente alla Cina. Occorre avere il coraggio di ammettere che l’alleanza russo-cinese ha ormai aspetti più strategici che tattici.
L’efficacia della strategia dei terroristi nella guerra asimmetrica, è basata sulla capacità di convertire alla propria causa le grandezze tempo e spazio, abbinata ad una competenza nell’uso delle tecnologie libere, rese disponibili dai processi di globalizzazione, che minimizzano i costi ed al contempo amplificano gli effetti degli attacchi. L’Isis ha dunque appreso la giusta strategia per opporsi all’Occidente?
La “guerra asimmetrica” è un concetto antico (Davide-Golia), ma certamente ha assunto un nuovo significato dopo lo “stallo” tra le due superpotenze dovuto all’opzione nucleare che rendeva improponibile una soluzione del conflitto a livello militare tradizionale, che aveva fatto riscoprire la guerriglia come opzione praticabile, vedi Cina e Cuba. Però oggi penso che più che di “guerra asimmetrica” bisognerebbe parlare di “guerra non convenzionale”.
Come armi di guerra non convenzionale, oltre al classico terrorismo, sono da considerare soprattutto la competizione economica, la guerra informativa, il cyberwarfare e la manipolazione mediatica. Sono elementi che possono, e in genere sono, utilizzati nell’ambito di una strategia comune. Il fatto terroristico è sempre stato fortemente intrecciato alla manipolazione mediatica, ed è per questo che più il fatto di sangue è truculento, più è efficace. L’11 settembre 2001 ne è stato un esempio plateale. Oppure l’oscuramento dei siti musulmani “moderati” da parte di hacker islamici. Qui siamo alla guerra informativa: ottenere per sé l’informazione e negare l’informazione all’avversario.
Uno degli errori più gravi della passata strategia americana di “guerra al terrore” è stato il credere di poter combattere il terrorismo con interventi militari di carattere tradizionale. Qui una certa componente mediatica e di pubblico consenso interno ed esterno, sull’onda emotiva del “bisogna subito fare qualcosa” e del “bisogna farla pagare subito a qualcuno”, è stata importante nell’inizio dell’avventura afghana, che si è voluta intraprendere nonostante gli insegnamenti delle guerre ottocentesche degli inglesi e soprattutto dell’intervento sovietico di vent’anni prima. L’intervento in Irak è stato il risultato di teorie geopolitiche più elaborate, dovute al fatto che si voleva creare nell’area un paese petrolifero filo-occidentale che facesse da contraltare ai veri paesi che avrebbero dovuto essere occupati e che erano, loro sì, i veri “santuari” di al-Qaeda. E poi c’è tutto il discorso legato al passaggio, così ben argomentato da Rupert Smith, dalla guerra industriale alla “guerra fra la gente”: occupare un territorio al giorno d’oggi è più un passivo che un guadagno.
La guerra non convenzionale non è riconoscibile come guerra in quanto tale: il terrorismo, la cyberwar, la competizione economica non hanno una dichiarazione di guerra e un trattato di pace. Diventa piuttosto una generica condizione di conflitto quotidiano, interminabile. La cyberwar in particolare è diventata e diventerà sempre più determinante, nel quadro della “guerra senza limiti” concettualizzata dai cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui. Insomma, la guerra non convenzionale ha portato ad una zona grigia dove non esiste più il bianco della pace e il nero della guerra, ma una commistione dei due.
Nel suo libro “Trasformare il futuro”, accenna a Sun Tsu nella citazione che “uno stato senza strategia è uno stato morto”. Un assunto che rimanda alla guerra, e di fatto all’uso della forza. Ciò vuol dire avallare il concetto di “pace negativa”, riferito a quegli Stati non in grado di regolare correttamente la forza pubblica a contrasto della delinquenza comune e degli elementi eversivi?
Qui dobbiamo considerare bene due punti.
Punto primo: la “forza” è un fattore ineliminabile della convivenza civile: senza il monopolio della forza da parte delle forze dell’ordine, e il gioco di parole è rivelatore, si avrebbe il caos. Questo anche a livello internazionale. Non credo sia possibile per i marinai di un mercantile difendersi dai pirati somali senza fanti di marina o contractors a bordo. La storia finora ha sempre mostrato che, per quanto idealisti vogliamo essere, si finisce sempre inevitabilmente nel “si vis pacem, para bellum”. Guardando con occhi disincantati la realtà, non possiamo non constatare che il conflitto rimane sempre una “continuazione della politica con altri mezzi” nella vita delle nazioni.
Punto secondo: la strategia non ha nulla di inevitabilmente legato alle armi. Sintetizzando al massimo, la strategia è un metodo per raggiungere un obiettivo incerto all’interno di un ambiente complesso. Sono decenni che si parla di “strategie” di management, di marketing, di comunicazione. L’Italia oggi sta declinando soprattutto perché non ha una vera e concreta strategia di politica economica ed industriale proiettata nel lungo termine. Ma la strategia di cui si parla qui non è militare, è economica. Ho scritto un libro anni fa con Luttwak, “I nuovi condottieri”, in cui dimostravo come concetti che superficialmente si considerano “militari” poi non lo sono affatto, anzi influiscono addirittura sulla vita delle singole aziende, delle singole organizzazioni e delle società stesse.
Il nuovo ordine mondiale è una diretta conseguenza della globalizzazione e della multipolarità, con l’affermazione di economie un tempo deboli come quelle della Cina e dell’India. È probabile che le aree di influenza si allargheranno all’Asia Centrale, al Mar Cinese Meridionale ed ai BRICS, dove si svilupperanno i nuovi equilibri del pianeta in uno stadio di fluidità finanziaria, politica e militare. Le radicali differenze politiche, sociali e culturali, non sembrano consentire una integrazione coerente fra i Paesi emergenti e quelli dominanti, pertanto la non facile coesistenza disperderà il potere in centri diversi. Sarà la nascita del mondo apolare, ovvero l’incapacità dei Grandi a gestire la logica dell’economia e della politica?
Nel mio ultimo saggio “Trasformare il Futuro”, ho affermato il mondo non sta passando dall’unipolarità alla multipolarità, ma dall’unipolarità all’oligarchia. La globalizzazione come forza positiva di unificazione, così come concepita da molti dopo la caduta del muro di Berlino, non si è avverata: la globalizzazione è rimasta incompiuta, anzi, si è assistito ad un ritorno degli stati e delle nazioni.
Esistono tre potenze mondiali egemoni, quella che ho voluto definire come la “triade maggiore”: Stati Uniti, Cina e Russia. La prima caratteristica che le contraddistingue è che, pur dovendo tener conto ovviamente della presenza degli altri attori globali e regionali, non soffrono dell’egemonia di altre potenze. Queste tre potenze hanno ognuna un fattore che le rende particolarmente forti: per gli Stati Uniti si tratta della capacità di proiettare la propria forza militare in qualsiasi parte del globo nel giro non di giorni, ma addirittura di ore. La Cina è diventata la prima potenza industriale al mondo, ed è questa essenzialmente la sua forza. La Russia basa la sua potenza soprattutto sulle forniture energetiche e di materie prime.
Esistono poi tre altre realtà, che formano invece una “triade minore”. Queste sono l’India, l’Unione Europea e il Giappone. Si tratta di una “triade minore” perché la potenza di questi stati (anche se l’UE non è uno stato, anzi, non si capisce bene cosa sia), è limitata da situazioni strutturali: l’India dalla presenza di una fortissima minoranza musulmana, il Giappone dalla vicinanza con la Cina e l’Unione Europea da tutte le contraddizioni e i problemi che ben conosciamo. Queste realtà non possono esprimere una politica internazionale e di potenza totalmente libera.
Quindi, secondo me, non si andrà verso un’apolarità, non ci troviamo di fronte ad un insieme di soggetti tutti più o meno dotati della stessa potenza; ci saranno comunque entità più forti che potranno esercitare un’egemonia su entità più deboli, e quindi, per quanto confuso, un certo “nuovo ordine”.
La “vittoria sufficiente” di Israele su Hamas nell’Operazione “Bandiera Protettiva”, ed il ritiro dei soldati russi dalla regione di Rostov, al confine Ucraino, sembrano l’applicazione pratica della teoria dei giochi di John Nash. Sono atti di distensione od una precisa strategia per affermare il loro potere regionale?
Non sono favorevole ad una matematizzazione della strategia. Come diceva sempre Sun Tzu, la strategia è la via del paradosso. Si sceglie di avanzare lungo le Ardenne perché la logica militare vuole che esse non siano un terreno adatto per un’offensiva. E si vince.
Sono clausewitziano, non jominiano. Non dimentichiamoci poi McNamara e il Vietnam. I modelli computerizzati del Pentagono, basati proprio sulla teoria dei giochi, furono sconfitti da un nemico che si richiamava a concetti strategici vecchi di centinaia e centinaia di anni. Qualsiasi modello matematico, per quanto logicamente conseguente, si basa sempre su dei presupposti, su degli assiomi indispensabili per semplificare e rendere così comprensibile il reale in modo da poterlo matematizzare, attraverso un processo di astrazione dall’accidentalità dei particolari. Basta un minimo cambio in quelle che in analisi matematica si chiamano “condizioni al contorno” perché la stessa identica equazione porti a risultati totalmente diversi.
Inoltre, bisognerebbe definire il concetto di “razionalità”. La razionalità cartesiana, astraente e matematizzante dell’Occidente non è certo la razionalità dell’Oriente confuciano, per non parlare poi dell’Oriente islamico. Il pay-off del gioco per un avversario è il petrolio, per l’altro il Paradiso. Una differenza non da poco.
Giovanni Caprara