Intervista a Nicolò Manca, generale ancora "alla (vana) ricerca di un Esercito"

(di Tiziano Ciocchetti)
09/02/19

La narrativa militare è piena di libri di memorie di generali in cui raccontano le loro gesta in tempo di guerra, spesso soffermandosi per molte pagine sui meriti mentre relegano in poche righe gli errori commessi.

Da Calamosca a Calamosca del generale Nicolò Manca (edito nel 2001) è un libro scritto in tempo di pace ma che parla della vita di un militare al servizio del proprio Paese.

Nella sua opera il generale, come si evince da sottotitolo, descrive come trascorra la carriera alla ricerca di un Esercito. Il suo scritto è un aperto atto d’accusa verso la classe politica italiana che ha condotto numerose campagne per delegittimare le Forze Armate e ridurne al lumicino gli stanziamenti.

Nel 1997, in seguito agli attacchi da parte dei parlamentari di area progressista alla brigata paracadutisti Folgore per le presunte torture in Somalia, nel corso dell’operazione Ibis (1992-94), Manca rassegna le dimissioni dall’Esercito.

Ma la decisione di dimettersi è anche frutto di una visione distorta che il Paese ha dello strumento militare, una visione che viene stigmatizzata in modo eccellente dal generale degli alpini Forgiarini, per motivare le sue dimissioni nel giugno del 1996, sulla Rivista Militare: …la nefasta e insistita rappresentazione dell’Esercito come istituto di beneficenza, sempre pronto a fornire ospedali da campo, tende, pasti caldi, badili, spalatori, materassi e altro, e mai come compagine pronta ad esprimere quella consistente capacità di intervento armato che rappresenta la ragione della sua esistenza.

Appena terminato di leggere il libro, abbiamo raggiunto telefonicamente il generale per comprendere meglio il suo - antico ed evidentemente inascoltato - grido di allarme.

Generale cosa l’ha spinta, in tempi di crisi dell’editoria e delle librerie, a ristampare il suo libro?

Ho preso questo impegno perché ho avuto la netta sensazione che le Forze Armate italiane sono giunte a un punto di non ritorno.

Parole grosse.

La concretezza dei numeri non lascia scampo. Diciotto anni fa, quando “Da Calamosca a Calamosca” vide la luce ed io ero ancora alla fiduciosa ricerca di un Esercito, l’Italia destinava alle Forze Armate l’1,5% del PIL, mentre il Regno Unito era attestato sul 3% e la Francia sul 3,1%.

Oggi, dopo il recente taglio di altri 500 milioni al bilancio della nostra Difesa, siamo attestati su poco più dell’1% del PIL mentre Regno Unito e Francia viaggiano sull’ordine del 2%. Tradotto in soldoni: le Forze Armate italiane possono contare su 20 miliardi di euro, quelle inglesi su 44 e quelle francesi su 43 miliardi. È evidente che la mia personale “ricerca di un Esercito” si è rivelata vana.

Perché un punto di non ritorno?

Winston Churchill, che di forze armate se ne intendeva, sosteneva che quando le condizioni di un apparato militare diventano gravi, serve molto tempo e molto denaro per rimetterlo in piedi.

I tempi e le idee di Churchill sono lontani.

Le guerre e i focolai che infestano il pianeta dovrebbero indurre al realismo. Basta una divergenza ideologica, un dissesto economico, un cataclisma, una dittatura o un terrorismo di qualsiasi matrice a scatenare un conflitto o una guerra civile. Si pensi al Venezuela di questi giorni, ai rapporti USA-Russia divenuti all’improvviso critici, all’espansionismo e al crescente potenziale militare cinese.

Sì, ma da qui a ipotizzare scenari di guerra...

Facciamo un passo indietro. Sorvoliamo sulla guerra del Vietnam col suo milione e mezzo di caduti e tre milioni di vittime civili e soffermiamoci sulla guerra del Golfo, un conflitto che mobilitò una coalizione di una decina di nazioni tra cui l’Italia. Tra i 700.000 soldati impiegati non c’era un italiano, in quanto non eravamo in grado di portare laggiù una brigata corazzata, mentre il nostro supporto aereo fu pari allo 0,03% dell’impegno complessivo; irrisoria anche la nostra componente navale. Comprensibile il sarcasmo espresso nei nostri confronti, al termine delle operazioni, dal generale Neal, portavoce del comandante in capo alle operazioni.

Ora bisogna ricordare che dopo ogni evento militare c’è sempre una torta da spartire; una torta che si traduce in influenza diplomatica, politica ed economica. È noto infatti che al seguito del soldato viaggia sempre l’imprenditore e l’uomo d’affari. Da ciò si deduce che avere Forze Armate credibili paga, paga sempre, senza che per questa credibilità si possa essere tacciati di essere degli attaccabrighe.

Anzi, paradossalmente, è proprio la credibilità militare che il più delle volte “esorcizza” il rischio di avventure sconsiderate. In altre parole: la Nazione che non è militarmente credibile in proprio o nell’ambito di un’Alleanza viene inevitabilmente considerata politicamente irrilevante e i suoi interessi economici vengono ignorati.

Le sue deduzioni?

Le stesse che trasse a suo tempo un Ministro della Difesa che colse l’essenza del problema, Arturo Parisi: senza un bilancio adeguato si mena il can per l’aia, perché resta sempre valido il principio che “c’est l’argent qui fait le guerre”. Se si gira intorno a questo problema si può fare della filosofia, proporre la sindacalizzazione militare, la lotta all’obesità militare, i concorsi alle Forze dell’Ordine, la riduzione del numero dei cappellani militari, l’impiego dell’Esercito per la bitumazione delle strade della Capitale (compito che ora sembra si voglia trasferire nelle mani degli ospiti delle carceri nazionali); oppure si può riciclare l’annoso argomento “uranio impoverito”, un tema che, alla luce di quanto sostenuto da anni da scienziati e oncologi e nella considerazione che nei poligoni sardi non è stato mai sparato un solo proiettile all’uranio, ha tutto il crisma della bufala, su cui peraltro vari personaggi hanno costruito per anni la loro visibilità.

In sintesi, rilanciare l’immagine del soldato tuttofare equivale a realizzare una cortina fumogena per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal problema dei problemi: il Bilancio della Difesa.

Una prospettiva pessimistica la sua.

Non lo nego. Temo che dovremo abituarci a una tendenza politica nemica dei Bilanci militari e orientata verso campi di interesse più redditizi in un’ottica elettorale. Assistenzialismo e giro d’affari legato all’accoglienza. Conseguentemente dovremo continuare a contare sul più importante capitale delle Forze Armate: l’ignorato, poco amato e malpagato soldato, destinato a restare inserito in un contesto di carente capacità operativa e logistica. Ma prima o poi, e soprattutto prima che sia troppo tardi, il cantiere della grande opera della credibilità militare delle nostre Forze Armate dovrà essere aperto.

Foto: Esercito Italiano / autore