Nella giornata di lunedì, abbiamo avuto l’opportunità di avere un colloquio-intervista con il prof. Matteo Bassetti, Ordinario di Malattie Infettive dell’Università degli Studi di Genova, direttore della Clinica per Malattie Infettive dell’Ospedale Policlinico San Martino del capoluogo ligure e presidente della Società Italiana di Terapia Antinfettiva (SITA).
In un Paese in cui l’opinione pubblica nei mesi scorsi pendeva dalle labbra di laureati in economia, igiene e persino veterinaria per informarsi e farsi un’opinione sulla crisi da coronavirus, ci è sembrato a dir poco serio rivolgerci a un infettivologo, uno dei più autorevoli del nostro Paese. Ne è venuta fuori un’intervista che, per essere più fruibile, è stata divisa in due parti: la seconda sarà pubblicata domani e, credetemi, è persino più importante di quella di oggi.
Professore, in una sua recente intervista, che ha avuto una vasta eco internazionale, ha dichiarato che COVID-19 a marzo era una tigre “latrice di morte”, oggi è un gatto selvatico e a volte addirittura addomesticato. Potrebbe spiegarci che cosa è successo e secondo che modalità questa “tigre” ha ucciso tanto quando era assassina?
Quella che è cambiata è la presentazione dei malati: oggi sono completamente diversi rispetto a quelli che avevamo nel mese di marzo e aprile.
Perché sia capitato ha varie spiegazioni: qualcuno pensa che sia legato ad una minor carica virale ed è stato in qualche modo dimostrato che c'è meno virus nelle vie respiratorie. Qualcun altro parla di mutazioni benigne, cioè il virus avrebbe perso alcune delle caratteristiche di aggressività. Qualcun altro ancora dice che è perché in qualche modo ha falcidiato buona parte delle persone più fragili all’inizio. È evidente che, indipendentemente da queste tre o quattro ragioni, il risultato finale è che oggi abbiamo una malattia molto diversa da quella di marzo: siamo di fronte a persone che arrivano in ospedale con sintomi molto più blandi rispetto a quelli di allora.
A marzo un 10% dei pazienti che arrivavano in ospedale spesso finivano rapidamente in rianimazione, avevano immediatamente bisogno dell'ossigeno, avevano polmoniti che facevano veramente molti danni. Oggi, anche nella stessa tipologia di persone, cioè persone avanti con gli anni, queste forme non si vedono più.
Noti bene che la tipologia di soggetti rimane la stessa. Anzi, paradossalmente, in questo periodo vediamo più casi fra le persone più anziane le quali quindi dovrebbero essere quelle ancora più gravi se facciamo il paragone con quello che succedeva a marzo. Insomma, sono quelle che dovrebbero reagire peggio e morire di più.
Il virus è mutato, secondo lei?
Fondamentalmente, è proprio un virus che sta mutando e che si sta adattando probabilmente all’organismo. Non dimentichiamoci che se il virus uccide tutti gli ospiti che colonizza e che infetta finisce che anche lui muore. Insomma, non uccidere l’ospite è uno strumento di sopravvivenza per il virus.
Torniamo all’esempio della tigre. Lo si è visto come tale in Spagna, Regno Unito, Belgio, Italia, Stati Uniti e adesso in Brasile. La domanda che sorge è se questa tigre sia stata in qualche modo addomesticata in Germania, Russia, Portogallo, Israele, Arabia Saudita e in tutti i posti in cui la letalità è visibilmente più bassa.
Credo che bisognerà attendere qualche mese per vedere se i numeri che abbiamo riportato e che hanno riportato tutti questi paesi sono reali poiché abbiamo purtroppo fatto morire di COVID tutti. È mancato poco che fosse fatta di morire di COVID anche gente ammazzata per strada e, arrivata in ospedale, risultata positiva al tampone!
Bisogna fare un po' di attenzione perché la letalità non è una cosa così semplice da definire: un conto è che tu entri in ospedale perché ti viene la polmonite, vai in rianimazione ti fanno il tampone, il COVID risulta positivo e tu muori di quella polmonite. Su un caso come questo non c'è dubbio: questa è la morte per coronavirus ovvero nell’accezione medica morte attribuita, cioè una morte che è certamente legata a una causa conosciuta. Un conto che tu vieni in ospedale per un infarto, per un ictus o per una frattura del femore e per le complicanze dell'ictus, dell'infarto o del femore muori e durante il tuo percorso ospedaliero incidentalmente ti viene fatto un tampone che risulta positivo. Allora, quello che muore per le complicanze dell'infarto senza la polmonite con il tampone positivo come lo classifichiamo? Per me, è morto di infarto; per il modo di calcolare italiano è morto di COVID.
Adesso abbiamo 35000 morti che ovviamente rappresentano un dato importante per l'opinione pubblica; ma quanti sono realmente morti di COVID? Io ho qualche dubbio. Questa modalità di conteggio è stata utilizzata in molti dei paesi che lei ha nominato. In altri, invece, come la Germania, se muori di infarto sei morto di infarto, anche se positivi al COVID.
Sui giornali c'è una grande polemica su tanti tamponi che nella pratica rimangono positivi per mesi senza che il soggetto, prigioniero a casa propria, sia né contagioso né tantomeno sintomatico.
Bisogna fare un po' di attenzione perché qui c'è gente che muore per una causa qualsiasi ma con un tampone positivo e viene ancora oggi classificata come morta di COVID. Abbiamo fatto morire qualcuno di COVID in Lombardia o in Liguria col tampone fatto post mortem.
Io non so bene neanche perché sia stato fatto e francamente non mi interessa saperlo, ma diciamolo seriamente: qui sono andati tutti i criteri della medicina!
Concordo. Che cosa è successo invece nella pratica in Italia?
In Italia abbiamo affidato il compito di riportare il numero dei morti a chi normalmente si occupa di terremoti o di ponti che cadono e ci stupiamo? Io non mi stupisco, il report serale non lo faceva un medico; lo faceva il capo della protezione civile che non mi risulta essere un medico.
È facile classificare i morti di una guerra: il combattente a cui hanno sparato, quello che è morto perché colpito da una bomba ma anche il civile che è deceduto nel crollo di un palazzo. Siamo tutti d'accordo che sono tutti morti "in guerra". Questa non è stata una guerra e non si possono raggruppare tutti in un'unica categoria.
Insomma, è successo un po’ come col novantenne che muore avendo un cancro alla prostata muore di vecchiaia: muore COL cancro alla prostata ma non PER il cancro.
Sì, ma noi la gente che è morta col cancro alla prostata sa come l'abbiamo classificata in questi tre mesi??? Morti di COVID. Questo è successo nei nostri ospedali perché eri obbligato da parte dell’ISTAT a indicare nel modulo di morte il COVID perché le salme andavano trattate in un certo modo cioè andavano cremate. Tu potevi riportare il cancro ma la scheda veniva automaticamente considerata come "morte per COVID".
Perché tante cremazioni?
Perché si è deciso di fare un protocollo secondo il quale i cadaveri dovevano venir bruciati, fondamentalmente per evitare il problema infettivo. È stata una decisione, secondo me, un po' ardita: oggi forse andrebbe riconsiderata.
Bisogna tuttavia sempre pensare al momento in cui questa decisione è stata presa. Oggi è facile discutere, io a marzo ho preso tanti schiaffi da questo virus ed ero molto più terrorizzato e preoccupato più di quanto lo sia adesso.
Oggi abbiamo conoscenze diverse, la situazione è molto più tranquilla e ci ti permette di fare alcune osservazioni "a bocce ferme". In quel momento si è ritenuto di farlo per evitare che le salme rappresentassero un eventuale problema per chi le trattava. È chiaro oggi - col senno del poi - che avremmo potuto fare più autopsie.
L’aver proibito - di fatto - le autopsie ha avuto delle conseguenze?
Una prima conseguenza è che non abbiamo imparato un granché. Forse avremmo potuto anche trattare in maniera diversa le salme: si sarebbero potute fare cose diverse. Diciamo che in un momento emergenziale le scelte sono state tutto sommato corrette…
Tornando al tampone, molti ne hanno fatto un totem. Non ci rende una foto veritiera della situazione del paziente?
Ormai siamo diventati maniaci dell'esecuzione dei tamponi: sembra diventato l'unico indicatore possibile del Sistema Sanitario in Italia. Quanti tamponi fai? Se ne fai 1.000 sei uno sfigato; se ne fai 5.000 sei un campione, se ne fai 10.000 sei un fenomeno.
Questo atteggiamento è molto “italico”: definiamo come abbiamo gestito un’infezione sulla base di quanti tamponi abbiamo fatto, non sul fatto se siamo stati in grado di ridurre la mortalità delle polmoniti o di quanta gente abbiamo intubato o di quanta gente abbiamo trattato con antibiotici.
E cosa andiamo a cercare nei tamponi? Tracce di Virus morto probabilmente tre mesi fa, cosa che non abbiamo mai fatto per nessun altro virus nella storia. Un tampone oggi non indica la quantità di virus ma esclusivamente la presenza... Si Immagina se noi facessimo la stessa cosa nei confronti di altri virus?!!! Diciamo che c’è il virus della HIV ma non quanto ce n’è nel sangue. Che significato ha? Zero!
Se nemmeno so se quel virus è vivo o morto che significato ha? È come fare una urinocoltura senza dire quante unità di Escherichia coli ci sono in quelle urine: quell'esame è ininterpretabile! Ecco, noi stiamo facendo degli esami che sono non interpretabili. E infatti, ognuno fa a suo modo: chi resta isolato a casa sei mesi. Io ho della gente che non ha sintomi da ormai 2 mesi e mezzo eppure risulta positiva, senza che il tampone gli dica quanto positivo. Perché un conto è avere cento coppie, mille coppie, un milione, dieci milioni o dieci miliardi… è chiaro che se avessi dieci miliardi sarei molto contagioso... ma sei hai dieci coppie non sei per niente contagioso!
A proposito di sintomi, gli italiani riescono a dividersi anche sul tema “asintomatici contagiosi” o “non contagiosi”. Che cosa sono esattamente gli asintomatici?
Ci sono quattro categorie. La prima sono gli asintomatici che rimarranno tali per sempre e questi è probabile che abbia una bassissima carica virale e probabilmente non trasmettono il virus; poi abbiamo quelli che stanno per diventare sintomatici. Questi sono i peggiori: oggi sono asintomatici, tra una settimana hanno i sintomi. Hanno una carica virale molto alta. Poi, abbiamo quelli che sono da oggi paucisintomatici e che non si accorgono di essere sintomatici perché hanno dei sintomi talmente lievi che non riescono neanche a riferire. Per esempio, hanno un giorno di stanchezza o una brevissima congiuntivite. Nella realtà, questi hanno probabilmente una carica virale simile a quelli che hanno i sintomi più importanti. Infine, ci sono gli ultimi asintomatici, che oggi rappresentano il problema più grande, cioè quelli che sono guariti. I guariti, come dobbiamo considerarli? L’OMS dice che dopo tre giorni dalla fine dei sintomi sono negativi. Oppure dobbiamo proseguire a fare il disastro che stiamo facendo l'Italia continuando a fare migliaia di tamponi, isolando questa gente a casa per settimane, mettendo in ostaggio interi reparti di ospedale? Dobbiamo continuare a chiuderli in casa, a bruciarne i vestiti e a mettere scafandri solo perché hanno un tampone debolmente positivo? Ecco questo dobbiamo chiarirlo perché qua il mondo ci ride dietro!
Il COVID non è arrivato in Italia né il 31 gennaio con i simpatici cinesi, né il 21 febbraio con il paziente numero 1 che magari era in realtà il paziente 200.001. Il COVID si riesce a tracciarlo in modo scientifico almeno fino a dicembre e lo si traccia con metodi da giornalismo investigativo, come abbiamo fatto, fino a settembre-ottobre, rilevando un po’ di casi. La domanda è: come mai comincia tutto ad un tratto a uccidere in quel modo?
È successo che noi abbiamo visto crescere piano piano il numero dei casi. A dicembre è verosimile che in Italia avessimo qualche caso magari anche molto lieve con una bassa carica virale. Lo dimostrano i test sierologici fatti per esempio dei donatori di sangue in alcuni centri in Liguria, ma anche in Piemonte e Lombardia.
A gennaio c'è stato un incremento progressivo del numero di casi fino a febbraio: dopodiché, abbiamo raggiunto il picco che avviene tipicamente in ogni epidemia influenzale intorno alla terza quarta settimana di marzo dove sono venuti fuori i numeri spaventosi legati a una carica virale impressionante che stava circolando, con tantissime persone contagiate.
Oggi abbiamo dati della provincia di Brescia e di Bergamo raccolti dall'Istituto Mario Negri che parlano di un 50% della popolazione che è venuto in contatto con il virus: vuol dire che in alcune aree del nord Italia noi abbiamo un territorio di un milione di abitanti in cui c'erano 500.000 persone in quel periodo così breve positive rimaste infette, in modo sintomatico, asintomatico o paucisintomatico.
È chiaro che se su 500.000 persone anche soltanto l‘uno per cento va in ospedale, parliamo di numeri i significativi perché vuol dire avere 5.000 in ospedale contemporaneamente. E avere 5.000 casi in ospedale contemporaneamente nel picco manda in collasso qualunque sistema sanitario soprattutto se di quell’uno per cento arrivato in ospedale magari nel 20% dei casi ha bisogno di andare in rianimazione.
Non eravamo attrezzati per avere migliaia di posti in rianimazione in una regione di dieci milioni di abitanti come Lombardia. Se va a vedere, l'epidemia ha interessato praticamente cinque regioni: le altre nemmeno se ne sono accorte. Parlo di Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna e Veneto. La Toscana ha avuto poche migliaia di casi su quasi quattro milioni di abitanti, numeri decisamente diversi di quelli che hanno avuto singole città come Bergamo e Brescia. Genova stessa ha avuto un'incidenza molto vicina a quella della Lombardia.
Il picco di marzo ricorda quindi quello dell’influenza, ma su scala ben maggiore?
Credo che quello che ha rappresentato sia quello che manifesta ogni anno un'influenza quando raggiunge il picco. La situazione è tranquilla a dicembre: a gennaio si inizia a parlarne, quando arriva il picco a febbraio-marzo abbiamo migliaia di anziani in ospedale e buona parte di loro che muoiono. Perciò, quello che è successo non è nuovo nel senso che è l'evoluzione tipica di un’epidemia che arriva un picco poi inizia a scendere progressivamente fino a qui arriviamo alla coda come adesso poi scompare.
Ecco, appunto: l’apparente “scomparsa” del virus da buona parte d’Italia. Secondo lei in autunno ci sarà una seconda ondata?
Guardi questo virus è arrivato e non credo che così facilmente se ne andrà: ormai, è in tutto il mondo. L'ultima grande pandemia di un virus simile è stata quella della H1n1, la così detta "influenza Suina" del 2009.
Oggi, si ha la percezione che quella pandemia fosse stata più “blanda” di quella attuale.
Allora, il virus della Suina ha fatto molti più morti di quanti ne ha fatti oggi il COVID. È rimasto con noi e ancora oggi ci fa compagnia come uno dei virus dell'influenza stagionale. Quindi, allo stesso modo, anche il COVID rimarrà. Questo vuol dire che ci dovremo convivere. Tuttavia, dire che avremo una seconda ondata simile a quella di marzo secondo me è come prevedere la temperatura ci sarà il 15 di agosto. Come fai a saperlo?
I politici, per capirci qualcosa, sembrano affidarsi a modelli matematici…
Allo stesso modello matematico con cui qualcuno prevedi che avremmo avuto 100.000 persone in terapia intensiva?
Bisogna andare molto cauti: i modelli matematici hanno fallito in tutto e per tutto nel nostro paese. Uno dei modelli matematici che è stato portato all’istituto superiore della sanità - e meno male che non lo hanno ascoltato! - parlava di 151 mila ricoveri in terapia intensiva potenziali se non si fosse fatto il lockdown. Neanche nel Paese messo peggio, neanche tutto il mondo ha ricoverato 150mila persone in terapia intensiva tutte insieme! Quindi bisogna andare molto cauti sulle previsioni.
Io credo che in autunno avremo sicuramente dei casi: però, un conto è che si presentino come questa coda cioè simil-influenzali. Un altro conto è se si ripresenterà con le caratteristiche di marzo, cosa che io credo che non sarà possibile. Sono molto fiducioso che arriveranno dei casi li sapremo gestire: siamo più bravi e il sistema è ora organizzato meglio. Quindi, mi sento tranquillo. Abbastanza tranquillo.
(continua)
Immagini: Difesa Online / Sky News / web