Una chiacchierata a tutto tondo con il generale di corpo d’armata Marco Bertolini su Patria, onore, valori condivisi e il suo nuovo impegno come presidente nazionale dell’ANPd’I.
"...La sezione ANPd’I di Roma? È molto attiva, ha un presidente (Adriano Tocchi, ndr) pieno di carisma e riesce quindi a essere di traino…"
Un po’ come lei, generale. Ci aspettiamo tutti grandi cose, come neoeletto presidente dell’Associazione nazionale Paracadutisti d’Italia
No, io gioco in un ruolo che non è il mio, per me è tutto da dimostrare.
È quindi anche una sfida?
Io infatti sono sereno da questo punto di vista, anzi, sono contento perché è un’esperienza nuova…
Marco Bertolini è un uomo con la schiena dritta, uno che ha un forte senso dello Stato e che ama la Patria, che vorrebbe vedere questo Paese pacificato sul serio e che gli italiani prendessero consapevolezza delle loro potenzialità e capacità, invece di accartocciarsi su loro stessi, autoestinguendosi ogni giorno di più.
Generale di corpo d’armata, incursore e paracadutista, Bertolini è stato comandante della brigata Folgore, del 9° Col Moschin e del COI (Comando Operativo di vertice Interforze), l’ultimo suo incarico in servizio attivo. Curriculum che parla da solo, nei 44 anni di servizio ha partecipato a moltissime missioni all’estero con i contingenti italiani, dal Libano dove nel 1982 è stato ferito e gli è stata poi conferita una Croce di Guerra al Valor Militare, alla Somalia, alla Bosnia, all’Afghanistan e al Kosovo. Gran parte dei militari lo amano da sempre per la rettitudine e il coraggio, in zone di guerra come a casa propria, anche quando esprime la sua opinione, mai scontata. Come i militari, molti tra noi “civili” che a vario titolo ci occupiamo di Forze Armate, lo avremmo voluto ancora in servizio attivo. Altri, forse, sono invece felici che se ne sia andato in quiescenza, anche se con la credibilità e il carisma che possiede non è certo un uomo che puoi tenere in soffitta, per nostra fortuna e gioia.
Marco Bertolini non fa politica, se ne frega di piacere per forza e dice quel che pensa, come ha sempre fatto, senza sconti. È stato in zona di guerra ma non è un guerrafondaio, ha esperienza, sa cosa vuol dire essere un soldato, averne la generosità. Soprattutto, è uomo libero di cervello, che prima di parlare pensa, in maniera lucida e autonoma, sa quel che dice e quel che fa. Per questo è da sempre un uomo politicamente scorretto. E anche per questo ci piace.
Ora il generale Marco Bertolini è il presidente nazionale dell’Associazione Paracadutisti d’Italia, ANPd’I, un incarico nuovo, dove lavorerà da par suo.
Io ho iniziato come paracadutista dell’ANPd’I, quindi come aggregato, quando era l’unica offerta in termini di paracadutismo. Chi voleva avvicinarsi a questa disciplina entrava nell’ANPd’I e faceva i lanci vincolati, mentre ora la situazione è molto diversa ed è possibile avere esperienze aviolancistiche con le scuole Enac, con gli aeroclub in generale, che sono qualcosa di diverso da noi per le finalità principalmente sportive che si ripromettono. Il nostro scopo, invece, non è insegnare a diventare degli ottimi volteggiatori, ma è quello di avvicinare a una attività di “taglio” militare che ha, anche, una esaltante componente sportiva, quella della caduta libera, che io consiglio a tutti di provare perché, effettivamente, è bellissima. Però, il fatto di arrivare a quell’attività dopo esser passati anche attraverso una scuola come può essere quella dell’ANPd’I, in termini morali, secondo me è una cosa che vale. Questa è la nostra missione, insieme a quella di collaborare con le Forze Armate.
Cosa l’ha spinta, da ragazzo, a scegliere di diventare un paracadutista della Folgore, un pilota, un incursore? Pur nel rispetto delle regole che comporta indossare una divisa, tutto questo ha un senso estetico e sa di futurismo, nel senso “marinettiano” del termine…
Voglio accennare, prima di tutto, a cosa spingeva un ragazzo della mia generazione a scegliere le Forze Armate e in particolare la Folgore. Eravamo tutti figli di reduci della seconda guerra mondiale, nipoti di combattenti della prima e di tutte le imprese militari italiane del primo dopoguerra: gente che non era stata educata e condizionata a considerare gli Italiani incompatibili con la “militarità”, come a volte appare dalla vulgata obbligatoria e bugiarda corrente. Tutt’altro. Per questo, non era per noi una semplice ricerca di una possibile vita avventurosa, o di uno stipendio sicuro in un’Italia in pieno boom economico che offriva ben altre possibilità, ma una scelta di coerente continuità con i valori che avevano alimentato i nostri vecchi. Vivevamo un’epoca che aveva perso molte delle sue antiche seduzioni, ma l’idea di una vita spesa per qualcosa di nobile ed inimitabile come il nostro Paese, che non ci vergognavamo a chiamare Patria, attirava ancora. Eravamo certi, in altre parole, che ne valesse la pena.
Oggi la situazione è diversa. I ragazzi che entrano nelle forze armate hanno un rapporto molto indiretto con lo spirito della generazione che fece la guerra e non possono attingere alla sua voce, ai suoi racconti, per alimentare una traballante vocazione alle armi. Addirittura, in molte scuole e da molti “educatori” sono stati abituati a considerare il soldato come qualcosa di sbagliato, di pregiudizialmente cattivo. Nella migliore delle ipotesi, sono quindi portati a considerare l’impiego nelle forze armate come un’opportunità di cui usufruire, prima che come un dovere da assolvere. Da quest’approccio, che potremmo definire “opportunistico” e che è stato incoraggiato da alcuni importanti e sbagliati – a mio avviso - provvedimenti normativi, come quello che differenzia gli standard fisici di selezione per uomini e donne e quello che consente l’arruolamento per gli aspiranti più bassi di 1,60 m, derivano alcuni dei guai attuali. Tra questi, una eccessiva quantità di militari di truppa “in servizio permanente”, destinati cioè a rimanere sotto le armi fino all’età della quiescenza. È facile comprendere quanto ciò sia incompatibile con uno strumento militare che, soprattutto negli incarichi di maggior valenza “tattica” tipici della Fanteria, deve poter contare sull’energia fisica e sull’aggressività del proprio personale, qualità incompatibili con la “mezza età” di coloro che attendono speranzosi la pensione.
Detto questo, devo dire che grazie a Dio continua ad operare l’onda lunga della nostra tradizionale educazione civica e familiare, soprattutto familiare, che ancora sopravvive. Insomma, i giovani che indossano l’uniforme sono per lo più consapevoli del reale valore della stessa e delle grandi responsabilità che ne conseguono e lo dimostrano sistematicamente quando vengono messi di fronte alla prova più impegnativa, il combattimento, come spesso è accaduto in Afghanistan e in precedenza in Irak e Somalia.
Nel 362 a.C. nel Foro romano si aprì una voragine. Gli aruspici dissero che per richiuderla i Romani avrebbero dovuto sacrificare quel che avevano di più caro. Fu così che il cavaliere Marco Curzio chiese se vi fosse un bene maggiore delle armi, cioè del valore e si gettò nel baratro, con il cavallo e le stesse armi. È l’eroismo del singolo che si sacrifica per il bene della Patria comune. E nel sacrificio c’è anche un forte senso della bellezza, perché il sacrificio non fine a se stesso è estetizzante. Anche i samurai, come i templari, erano straordinari guerrieri che coniugavano l'arte delle armi con l'arte in genere, con la bellezza. Oggi, forse più che mai, servire lo Stato e amare la Patria può essere considerata l'Arte per eccellenza? Ha ancora un senso?
Certo che ha un senso. E per quanto apprezzi il riferimento all’etica del samurai, non c’è bisogno di attingere al Bushido per trovarvi conferma. Dai tempi dell’antica Roma che lei ha citato, l’Italia è stata disseminata di tracce di una tradizione militare incomparabile, nella quale la ricerca dell’efficienza andava di pari passo con una grande sensibilità valoriale ed artistica. Per fare un esempio, si può citare Leonardo Da Vinci, capace di accomunare a livelli di eccellenza assoluta grande spirito innovativo in campo bellico a capacità artistiche che ancora oggi risultano ineguagliate.
Quanto al sacrificio, non può che essere il prodotto di una vita all’insegna del dovere, che al contrario del diritto guarda a quanto l’individuo deve agli altri, anziché a quello che da questi si pretende. Ma chi ne parla più? Nelle parrocchie stesse, l’idea di “fioretto” quale mezzo elementare di autoeducazione alla rinuncia in nome di qualcosa di trascendente l’individuo, trova pochi catechisti disposti a spendersi con l’esempio e con le parole. E il risultato è l’attuale proliferazione di innumerevoli e fantasiosissimi “diritti” che non si arresta neppure di fronte al grottesco di talune delle più recenti rivendicazioni. Eppure, i nostri ragazzi non si risparmiano, né in operazioni, né nella spesso avvilente routine delle nostre unità in guarnigione, affetta da una mancanza di risorse da dedicare all’addestramento addirittura umiliante. E sono loro, quindi, a dare dimostrazione di una continuità di dedizione alla Patria che potrebbe sembrare sorprendente, per i motivi spiegati precedentemente. Insomma, ci fanno sempre onore.
Gli incursori del 9° Col Moschin grazie a lei, che ne è stato anche comandante, dal 2015 sono tornati in possesso del fregio con la daga tra rami di quercia e alloro. Ci sono voluti settant’anni, ma possiamo dire che uno dei simboli degli Arditi è finalmente tornato a casa? Può spiegarne brevemente il motivo per cui c’è voluto così tanto?
Gli Arditi furono l’espressione più pura dello spirito combattivo e combattentistico dell’italiano di cento anni or sono. E credo debba far pensare, e sperare, il fatto che una Nazione da poco riconosciutasi in uno Stato unitario, e quindi in condizioni di estrema precarietà, sia riuscita allora ad attingere ad un tale patrimonio di disperata disponibilità al sacrificio assoluto, da parte di operai, studenti e contadini prestati alle armi per far fronte all’atto conclusivo del Risorgimento. Ma ciò che accomuna gli Arditi di allora agli Incursori del 9° di oggi è anche il percorso storico di unità che, da semplice selezione del meglio dell’Arma Base (la Fanteria allora e i paracadutisti in questo dopoguerra) si è trasformata in qualcosa di originale ed autonomo, non più finalizzato semplicemente ad aprire la strada alle unità di manovra convenzionali. Ciò accadde sul Monte San Gabriele nel primo conflitto, quando si toccò con mano la differenza tattica e di mentalità tra i reparti d’assalto e i reggimenti di fanteria, assolutamente non in grado di procedere con la stessa velocità operativa. E lo stesso è avvenuto - anche se in contesti meno drammatici - negli ultimi 40 anni, avendo dimostrato che gli incursori possiedono caratteristiche proprie che solo in parte sono riconducibili a quelle apprezzabilissime dei paracadutisti, per non parlare delle altre specialità della Fanteria. Considerazioni alle quali seguì la decisione di impiegare queste unità autonomamente, senza alcuna finalità “ancillare” nei confronti delle altre destinate a compiere lo sforzo principale. E tale divaricazione capacitiva, in un caso come nell’altro, non si verificò per una scelta consapevole dei livelli ordinativi superiori, ma per “spinta dal basso”, seppur mediata e guidata da comandanti di grande coraggio fisico ed intellettuale. Insomma, furono gli Arditi di ieri e gli Incursori di oggi i veri ideatori ed artefici di se stessi.
Che quindi il 9° reggimento si riappropriasse, dopo la Bandiera, anche degli altri simboli dei vecchi Arditi è logico sotto il profilo storico e giusto da un punto di vista etico. Non è stato un processo facile, comunque, essendo l’eredità degli Arditi un fardello pesante per un Paese che sembra rifiutare di fare i conti col suo passato, quasi avesse paura che si scoprisse che la nostra storia non è cominciata semplicemente settant’anni fa. Al contrario, siamo il frutto di una storia molto più complessa e profonda, della quale non abbiamo il diritto di dimenticare o ripudiare nulla.
Perché in Italia c’è questa paura dei simboli che si rifanno al passato, peraltro glorioso? Perché festeggiamo le sconfitte al posto delle vittorie, Caporetto più del Piave, come se fossimo malati di Sindrome di Stoccolma?
L’Italia è al centro del Mediterraneo, in condizioni di esercitare in tutto il bacino un’influenza assoluta, sia da un punto di vista culturale ed economico che politico. Ma il Mare Nostrum è da sempre anche al centro degli appetiti di altri, ai quali non ha quindi mai fatto comodo un’Italia ambiziosa, impegnata nella tutela di suoi originali interessi strategici. Da qui, lo sforzo eterodiretto a convincerci che non abbiamo interessi nostri che si discostino da quelli della “comunità internazionale” (fatto smentito ad esempio dall’intervento “occidentale” in Libia e da quello minacciato in Siria). L’effetto è stato quello di smorzare ogni nostra velleità di “potenza”, vale a dire di proiezione all’esterno di una “sovranità” nazionale, quindi interna, a sua volta ridotta ad un anacronismo da buttare. Insomma, ci devono pensare gli altri a individuare e tutelare i nostri interessi. Da qui a convincerci che il nostro ruolo in campo internazionale deve essere quello della vittima innocente delle congiunture internazionali più che del protagonista delle stesse, passa poco. E c’è da dire che questo ruolo piace molto a molti nostri maître à penser, convinti per atavica diseducazione ideologica che sia una nostra supposta criminalità genetica e non la nostra inimitabilità artistica, culturale e anche politico-militare l’elemento fondamentale col quale fare i conti.
Molti nostri maître à penser dicono che i giovani che si arruolano lo facciano più per uno stipendio fisso che per amor patrio, salvo poi doversi complimentare quando li vedono operare, ma lo fanno obtorto collo. È anche vero che molti giovani sono diseducati al sacrificio per il proprio Paese. Le Forze speciali, possono avere un appeal maggiore per le nuove generazioni?
L’attribuzione di una supposta natura burocratica e impiegatizia degli attuali giovani che scelgono le Forze Armate è ingiusta. E non è corretto pensare che chi si arruola non lo debba fare anche per una soddisfazione professionale ed economica. Non c’è niente di male nel ricercare un impiego che consenta di “tirare su” una famiglia e di vivere decorosamente. Se mi consente, è un’affermazione che definirei demagogica, più o meno come quelle che vorrebbero i politici ridotti alla fame, o comunque con gratificazioni economiche poco significative, per essere considerati onesti.
Non c’è dubbio, insomma, che con l’attuale crisi economica e lavorativa, molti che un tempo non avrebbero optato per l’arruolamento lo trovino oggi auspicabile, magari anche conveniente, ma questo accadeva anche in passato e accade oggi in molti Paesi. Per lo stesso motivo, molti dei vecchi soldati di leva che nel passato, pur avendone la possibilità, rifiutavano la “firma” per tornare invece al paesello lo facevano per lo stesso motivo.
Quello che invece è certo è che molti ragazzi che magari hanno scelto le Forze Armate come sbocco principalmente occupazionale, trovano in esse motivazioni che magari prima non potevano immaginare e si lasciano coinvolgere in un sistema valoriale importante. E questo non riguarda soltanto le Forze Speciali, per usare un termine che personalmente detesto, ma tutte le Forze Armate, segno che nonostante un martellante condizionamento ideologico di segno contrario, per l’Italiano il mestiere delle armi continua ad essere congeniale.
Oggi le nostre Forze Armate sono impiegate in molte missioni all’estero, “contingenti di pace” almeno finché non si cambia quell’articolo della Costituzione che dice “L’Italia ripudia la guerra”, che suona un po’ ipocrita oltre che antistorico, se non altro perché se attaccati bisogna reagire. La verità è che siamo in guerra contro il terrorismo, islamico e no. Dalla sua esperienza, come dovremmo difenderci, seriamente, dentro e fuori i confini nazionali?
Quello del terrorismo è un grosso problema. Personalmente non credo che si tratti di uno scontro di religione, se non altro per il semplice fatto che le nostre non sono più società religiose come in passato. Anzi, quelle occidentali sono società che si compiacciono di sbandierare la loro “laicità” come cifra di una autoreferenziale superiorità rispetto a quelle islamiche che personalmente non mi convince. Eppure, per quel che ci riguarda, non è da pochi anni che il nostro Stivale galleggia nel Mediterraneo a diretto contatto con società diverse dalla nostra con le quali in passato abbiamo avuto trascorsi non solo burrascosi. Ma non c’è dubbio che il rischio esiste, e non può essere ignorato. Si tratta di un argomento difficile da trattare con una semplice intervista, ma è certo che la soluzione non può ridursi all’applicazione di pur indispensabili misure “preventive” di carattere giudiziario o investigativo. Chi decide di perdere, non solo di rischiare, la propria vita per attaccare il suo nemico, infatti, non si lascia intimidire da alcuna misura di deterrenza. Sa che nella peggiore delle ipotesi potrà sottrarsi all’arresto con un semplice “click”, coinvolgendo comunque molti innocenti nella sua azione.
Gode quindi di un vantaggio enorme dato anche dalla sua scelta del luogo, del momento e della modalità d’azione che solo in parte possono essere previsti. Per questo, ci si deve preparare soprattutto a reagire a queste azioni, dopo il loro verificarsi, impiegando le unità militari per controllare, isolare o rastrellare il territorio. E per far ciò sarà necessario coinvolgere tutta la linea di comando militare, in modo da non sfruttare semplicemente la disponibilità di uomini da disseminare nel territorio nel passivo ruolo dei piantoni, come spesso accade, ma per poter sfruttare le capacità di pianificazione e di manovra delle forze che solo i Comandi militari garantiscono. Lo strumento militare, a tale proposito, offre molteplici possibilità di soluzione, per disponibilità di strumenti tecnici e per modalità di pianificazione ben interiorizzate, che sarebbe un peccato non sfruttare.
A proposito di perdere la vita in azione, i paracadutisti della Folgore celebrano spesso i caduti durante le guerre, gli avvenimenti, in primis El Alamein. Forse sono tra coloro che lo fanno maggiormente…
Lo fanno anche gli altri, ma noi abbiamo una storia molto più breve, nati con la seconda guerra mondiale, quindi gli eventi da ricordare sono relativamente pochi. Ed El Alamein è stata una delle più grandi battaglie della seconda guerra mondiale alla quale abbiamo partecipato ed è stata anche un punto di svolta di quella stessa guerra. È stato il momento in cui noi abbiamo perso il controllo dell’Africa settentrionale, quindi l’impossibilità di arrivare al Medio Oriente. E la sconfitta di El Alamein, insieme a quella di Stalingrado, sono quelle che hanno poi dato il via alla sconfitta della seconda guerra mondiale…
E al nostro “cambio di casacca”, come anche all’inizio della guerra civile?
Devo dire che noi, anche nei confronti di questa cosa, rischiamo a volte di cospargerci troppa cenere sul capo. Nel senso che è stata una cosa veramente brutta però, a conti fatti, non siamo gli unici ad avere l’esclusiva dei cambi di casacca. La Francia, tanto per dire, è stata divisa in due con un governo Petain e una parte direttamente occupata. E poi anche adesso, il cambio di strategia di Trump, ad esempio, rispetto a quello che aveva detto all’inizio. Quindi, noi abbiamo le nostre magagne, ma non siamo la quintessenza della malvagità e dello spirito del tradimento, anche se abbiamo sicuramente i nostri difetti.
Questo rientra sempre nel fatto che noi italiani abbiamo la cultura dell’autocrocefiggerci…
È uno sport nazionale che non ci fa assolutamente bene, perché adesso noi dovremmo fare esattamente il contrario, dovremmo aggrapparci a quello che di positivo abbiamo, ed è tanto. I nostri padri, i nostri nonni, sono stati gli artefici del Paese più bello al mondo, più ricco di beni artistici, dove è nata la cultura “occidentale” anche se è un termine che non amo molto perché si presta a essere interpretato in maniera che a me non piace. Effettivamente, noi siamo qualcosa di molto importante e a questo dovremmo aggrapparci.
Da poco tempo è il nuovo presidente nazionale dell’Associazione paracadutisti d’Italia, ANPd’I...
Beh, come ho detto nel mio intervento a Cecina (quando ha accettato la presidenza, nda), per me non è stata una scelta che ho fatto a cuor leggero, perché si tratta proprio di un cambio radicale di prospettiva, nel senso che operare nell’ambito di una meccanica, direi democratica, è una cosa alla quale non sono abituato. Quindi, questo è sicuramente un passaggio per me importante. Però è anche una cosa che faccio molto volentieri perché, intanto, ho scoperto personaggi di altissimo spessore: tante persone che danno veramente con estrema generosità il loro tempo libero per far funzionare un’associazione che è molto difficile, è molto articolata, molto complessa. Mio padre è stato uno dei primi iscritti dell’ANPd’I, come tutti i paracadutisti, i reduci di allora, che avevano sui trenta, trentacinque anni quando è nata. Quindi, in un certo senso, continuo a rimanere su una strada che sento mia, quella dei paracadutisti.
Ha già avuto modo di vedere quali sono i limiti, come e dove intervenire?
La nostra è un’associazione d’Arma con la missione di essere collaborativa nei confronti delle Forze Armate. E parlo delle Forze Armate, non parlo solo dei paracadutisti, che sono una delle loro componenti delle F.A, seppur molto importante. Noi dobbiamo essere collaborativi con le Forze Armate perché svolgono una funzione fondamentale per la nostra sicurezza ma soprattutto perché sono l’indicatore principale della nostra sovranità, della nostra indipendenza.
Le faccio un paio di esempi: il Kosovo, questo Paese che è stato creato dal nulla dall’intervento della Nato per imporsi come Stato sovrano, a fronte delle resistenze di alcuni Paesi europei che non ne riconoscono l’indipendenza, vuole trasformare il KSF, la Kosovo Security Force, che è una forza di polizia con qualche capacità di protezione civile, in esercito. E la vuole trasformare in esercito semplicemente per dire: “guardate, sono un Paese indipendente”. Analogo, è il desiderio di sempre dei palestinesi, per questo contrastato decisamente dagli israeliani. Perché, riconoscendo loro il fatto di avere un esercito, ne dovrebbero riconoscere automaticamente l’indipendenza, la sovranità. Quindi, l’esercito è l’indicatore più certo del fatto che noi siamo un Paese indipendente, in un momento in cui si parla di sovranità sempre storcendo il naso, come se fosse diventato un disvalore.
Non è un caso che il presidente della Repubblica in Italia sia anche Comandante Supremo delle Forze Armate, e non ad esempio Capo Supremo della Polizia o della Protezione Civile, proprio per l’elevatissimo valore simbolico che hanno i militari nell’indicare il livello di libertà ed indipendenza di uno Stato. Per noi, essere consapevoli di questo ruolo è fondamentale.
Insisterà su questo?
Questa è la nostra missione. Che non è fare i lanci, né quella di coltivare la nostalgia. Certo, i lanci sono la nostra caratteristica, anche la nostra vocazione, ma a noi servono soprattutto per mantenere un forte legame fra i nostri associati e per non disperdere i valori acquisiti durante il servizio militare e i contatti con le nostre Forze Armate. Tra queste, ovviamente, hanno per noi un’importanza particolare i paracadutisti, con i quali abbiamo dei contatti continui, sia durante le cerimonie ma anche con le attività aviolancistiche che organizziamo, spesso col loro generoso supporto. Quindi, l’attività aviolancistica è un’attività peculiare nostra che ci contraddistingue, nonché una complicazione che altri non hanno. Però ripeto, è anche un’opportunità, perché ci dà la possibilità di fare incidere positivamente nei confronti dei giovani e degli aggregati che non hanno fatto il servizio militare, dandogli la possibilità di avvicinarsi al paracadutismo di tipo militare e, soprattutto all’impianto valoriale che lo contraddistingue.
In molte associazioni d’Arma a volte capita che ci sia gente che, finché è stata in servizio, aveva il suo ruolo e faceva squadra mentre ora che non lo è più litiga, ognuno proietta il suo ego e magari ci si boicotta a vicenda E poi c’è l’altro aspetto, quelli in servizio che guardano gli ex con sufficienza. C’è anche da voi questo problema?
Il paracadutista è un individualista che, all’interno di una struttura militare, quindi “imbrigliato” dalla disciplina militare, mette la sua voglia di fare e il suo spirito di iniziativa al servizio dell’unità. E la caratteristica dei paracadutisti militari, rispetto agli altri, è stata ed è ancora adesso questa aggressività nei confronti di quello che hanno intorno, questa grande voglia di trovare strade nuove e così via. La sfida consiste proprio nel fare in modo che questa loro individualità non si trasformi in una ricerca continua di “smarcamento” dagli altri quando, all’interno dell’ANPd’I, dove non c’è questa disciplina formale, nasce la tentazione di “fare da soli”. È a questo che si deve la proliferazione, caratteristica “geneticamente” paracadutista, di differenziarsi per i distintivi, o per i copricapo, come nel caso dei baschi verdi, giustamente autorizzati dal generale Fantini.
Se questo desiderio rappresenta un modo migliore per ancorarsi allo spirito col quale si era venuti a contatto durante il servizio militare, si tratta di una cosa ottima, ma se dovesse diventare il modo per marcare una differenza comportamentale o, peggio spirituale, tra giovani e non più giovani che hanno fatto la stessa scelta, si tratterebbe di qualcosa di molto pericoloso. Devo dire che, da quel che vedo invece, baschi amaranto e baschi verdi (o alpini paracadutisti col loro nobilissimo Bantam) continuano ad evidenziare un’identità di spirito bellissima. Insomma, devo dire che ho trovato grande attenzione e grande condivisione da un punto di vista etico, da un punto di vista delle ragioni dell’associazione, da parte di tutti, nonostante le differenze formali tra fanti, artiglieri, carabinieri, incursori, acquisitori, alpini o addirittura incursori di Marina del nostro sodalizio.
Di cosa ha bisogno oggi l’Italia, nel campo militare?
Ha certamente bisogno di maggiore attenzione per l’Esercito in generale, quindi anche per i paracadutisti spesso invece invisi ad alcuni settori iper-ideologizzati dell’opinione pubblica. Certamente, un settore molto critico sono le Forze di manovra, le forze pesanti, con particolare riferimento alle unità corazzate. Certo, i paracadutisti sono indispensabili, ma solo se integrati in uno strumento credibile che assicuri le risorse necessarie a tutti. Quindi dobbiamo avere il massimo rispetto degli altri e devo dire che, ormai, questo è acquisito da parte di tutti perché, appunto, la realtà in operazioni ci ha portato a toccare con mano l’importanza di tutte le componenti delle Forze Terrestri, tra cui ci sono anche i carabinieri. Se l’Arma, infatti, ha acquisito il ruolo di Forza Armata, ciò non ne fa un’entità a se stessa, capace di operare indipendentemente in combattimento e il suo inserimento nello strumento terrestre (aeroterrestre per il Tuscania assieme alla Folgore) è naturale.
Nelle varie versioni del Libro bianco della Difesa si insiste sempre più sulla necessità di far collaborare tra loro le varie forze Armate. Che ne pensa?
Si tratta della cosiddetta "interforzizzazione", parola orribile che però indica un’esigenza sentita in tutti i Paesi e da tutte le Forze Armate.
Fino alla Bosnia, quindi parliamo intorno alla metà degli anni ’90, le operazioni venivano condotte dallo Stato Maggiore dell’Esercito. Cioè, il capo di stato maggiore dell’Esercito conduceva le operazioni con Aereonautica e Marina che erano “supporting” nei suoi confronti. Stesso discorso è avvenuto prima in Libano e poi in Somalia, dove il comandante delle operazioni era il generale Canino, il capo di stato maggiore dell’Esercito, con una componente aerea e navale in rinforzo. Questo non è più sufficiente. Prima il capo di stato maggiore della Difesa era un primus inter pares rispetto a Esercito, Marina ed Aereonautica, non aveva l’autorità di dare ordini, piuttosto coordinava. Ora, con la riforma dei vertici, chi comanda è il capo di stato maggiore della Difesa, in questo momento il generale Graziano. E il generale Graziano le operazioni le conduce tramite il COI, il Comando Operativo di vertice Interforze e, per le operazioni speciali, il COFS. Quello che il libro bianco si prefigge, ora, è di aumentare questa capacità di gestione interforze, in modo che le operazioni militari vengano gestite con una visione univoca e condivisa, non dai singoli Alti Comandi Operativi di Forza Armata ma dal Comando Operativo di Vertice Interforze, (COI) o dal Comando per le Operazioni delle Forze Speciali (COFS), alle dirette dipendenze del capo di stato maggiore della Difesa, responsabile unico dell’impiego delle forze.
Quindi, quello che il Libro bianco si ripromette, è di dare al capo di stato maggiore della Difesa uno strumento credibile e profondamente affiatato con cui poter utilizzare le varie Forze Armate in maniera armonica. Ma con l’attuale penuria di risorse economiche non è un compito da poco.
Lei è stato in molti fronti caldi del mondo, spesso come comandante. Vicino a noi ci sono nostre ex colonie dove siamo presenti con i nostri militari. A parte la Libia, che ha ancora una situazione fluttuante, come vede i rapporti dell’Italia con la Somalia?
Noi siamo lì perché, evidentemente, quando è partita questa missione, che è della stessa Unione Europea che alcuni utilizzano per giustificare gli aberranti provvedimenti di legge di cui si fanno promotori, ci siamo sentiti in dovere di non chiamarci fuori e di riproporci come leader: siamo noi infatti che mettiamo la componente principale. Ai somali farebbe molto piacere una maggiore presenza italiana, soprattutto ai più anziani che parlano ancora la nostra lingua, a differenza dei più giovani. Ma ormai l’Italia è scomparsa quasi completamente da quel bellissimo Paese, se si eccettuano i nostri pochi militari, ed è un peccato: sarebbe bello fare di più, e se solo ricordassimo quanto quelle popolazioni ci hanno dato, assolutamente ricambiate dai nostri coloni, qualche altro sforzo lo faremmo. Ma ci sono memorie molto scomode da coltivare, purtroppo.
La solita sindrome da senso di colpa? Sindrome che invece non hanno i Paesi ex colonialisti come Inghilterra, Francia, Spagna, Olanda…
Ma si, noi eravamo potenza coloniale e credo che avremmo dei doveri nei confronti di un Paese che ricorda la nostra presenza con rispetto, riconoscenza ed affetto, direi. L’ho frequentemente toccato con mano durante le molte visite in quel Paese e per questo sono molto addolorato nel vedere la difficoltà con la quale corrispondiamo alle loro speranze. Ho incontrato a Mogadiscio molti miei compagni di corso d’Accademia che ricordano un’Italia che forse non c’è più, e mi sono sentito spesso umiliato nel non essere capace di aiutarli come mi sarebbe piaciuto.