Professione reporter di guerra: c'è ancora posto? Intervista a Fausto Biloslavo

(di Andrea Cucco)
05/10/15

Quello di fare il reporter di guerra è un sogno comune a molti, giornalisti e non. Per la distanza dalla realtà conosciuta, sperimentabile, può assomigliare a voler fare l'astronauta. Un salto nel buio. Questo perché poco si conosce delle tante incognite che si dovranno affrontare e perché ci sono tanti modi di fare quel lavoro: si può alloggiare in alberghi di lusso con guardie armate di scorta e sfoggiare una kefiah o qualcosa di simile al ritorno, oppure si può vivere, magari in topaie ma in mezzo ai locali, indossando quel "qualcosa di simile" per fondersi o confondersi meglio nell'ambiente che si vorrebbe raccontare.

La prima intervista di Difesa Online ad un giornalista di guerra la chiedo a Fausto Biloslavo. Nella storia del giornalismo del nostro Paese sono decine i grandi reporter che hanno informato - non solo l'Italia ma spesso il mondo intero - su quanto realmente accadeva in aree ad altissimo rischio, tuttavia sono pochi quelli "veri" ancora "in servizio". Biloslavo è tra questi.

Ha cominciato a rischiare la pelle a vent'anni con una macchina fotografica al collo assieme a due amici, Gian Micalessin ed Almerigo Grilz, ed è arrivato più o meno incolume ai nostri giorni.

Nel 1988, per un reportage, è stato ospite delle prigioni afghane ben per sette mesi. Tempi in cui per "certi" reporter non si scendeva in piazza e non si srotolavano striscioni dai municipi. Grazie anche all'intervento dell'allora presidente Cossiga, riuscì a rientrare in patria.

La stessa fortuna non ebbe Almerigo Grilz, colpito a morte nel 1987 mentre documentava la guerra in corso in Mozambico.

Buona visione!

(Nella foto qui sopra un giovanissimo Fausto Biloslavo assieme ad Almerigo Grilz nelle Filippine in mezzo a reparti antiguerriglia al tempo del dittatore Marcos. In apertura con un prigioniero talebano in Afghanistan nel 2009 e sotto al video, sempre nello stesso anno, a bordo di un elicottero italiano)