“Le caratteristiche del tipo di attività che i contractor fanno vanno interpretate e contestualizzate a seconda della nazione della quale si discute. Ad esempio, durante Enduring Freedom, quella che resta la missione in assoluto fino a oggi più estrema per quanto concerne il tipo di mandato ed il personale impiegato, vi operavano assetti che vedevano coinvolte anche società di security/military contractors, quindi Private military/security companies molto, molto spinte sia in termini di capacità offensive sia di missioni che svolgevano alcuni loro team. Credo sia ipotizzabile che tale personale facesse cose che non potevano essere fatte direttamente da uomini in divisa ed operassero in compagini quanto mai flessibili. Pero, sarà bene ricordarlo, quelli sono episodi più unici che rari nella storia di questa professione.
Molto più frequentemente, si è passati attraverso un mero calcolo economico-finanziario nel quale si è ragionato sul fatto che: impiegare i soldati distogliendoli per altro dalle attività operative ha un costo X, quindi per quale motivo, in termini di vantaggi operativi e risparmio sui costi, non utilizzare realtà private che di militare hanno però la preparazione e conoscono le attività da svolgere e le regole sul terreno per scopi e funzioni non direttamente combat?”.
Carlo Biffani, è oggi uno dei maggiori esperti di antiterrorismo e di sicurezza privata. Fondatore e Ceo di Security Consulting Group, conosce molto bene il mondo dei contractor, per il cui riconoscimento si sta battendo, da anni, perché anche l’Italia si doti di legislazione chiara e regole certe per inserire queste professionalità nel mondo del lavoro e nel nostro Paese. Perché, contraddizione tutta nostra, gli italiani devono andare spesso a lavorare in società di security estere, portando fuori Patria professionalità, lavoro e naturalmente l’indotto milionario che queste società sono capaci di produrre.
Lo abbiamo intervistato per chiarire alcuni punti sull’argomento.
L’opinione pubblica italiana ha conosciuto i contractors con la seconda guerra del Golfo, soprattutto quelli americani. Da noi invece si fa finta che non esistano…
Il ragionamento degli americani fu molto semplice: quando iniziò la seconda guerra del Golfo, gli Stati Maggiori americani ed i Dipartimenti di Stato e Difesa iniziarono ad affrontare un aspetto molto importante e probabilmente si dissero qualcosa come: noi impieghiamo i Marines ed altri reparti operativi per fare la difesa del perimetro delle basi, ma per quale motivo dobbiamo impegnare un terzo della nostra forza da combattimento per fare servizi di guardia ed altre attività logistiche? Perché non ci avvaliamo di qualcuno che conosca il mestiere, che abbia fatto questa vita ma che sia una inquadrato ora in una realtà privata, che per altro ci costerà meno, sul cui operato non abbiamo responsabilità diretta così da fare in modo che tutti gli operativi in uniforme vadano fuori a fare attività di ingaggio, cattura e contrasto del nemico, evitando di tenere personale operativo ed addestrato impegnato ad alzare e abbassare sbarre o controllare chi entra e chi esce dalle nostre basi.
In effetti…
Credo sia ipotizzabile che gli americani avessero già preparato la strada ad una simile soluzione creando gli assetti privati e poi contestualizzandone l’inserimento. In settori strategici come quello della Difesa è a mio modo di vedere, impensabile che non si sia creata l’offerta in tempi precedenti alla richiesta. E questa è una possibile prospettiva.
Per quanto invece riguarda le società di diritto anglosassone, assolutamente trasparenti e quotate in Borsa, beh queste esistono da decenni. Alcune fra queste nascono ai tempi dei riscatti in Sudamerica, in Colombia o Venezuela 20 o 30 anni fa. Il governo inglese mandava personale militare particolarmente qualificato a fare la negoziazione ed il pagamento del riscatto. Ad un certo punto una grandissima compagnia di assicurazioni deve aver fiutato il business perché inizia a sondare quegli stessi ambienti delle Forze Speciali e dell’Intelligence proponendo un ragionamento che potremmo provare a sintetizzare come segue: “voi fate questo mestiere complesso e pericoloso e siete i numeri uno, mentre noi potremmo avere tantissimi clienti interessati… e se vi congedaste e lavoraste per noi e creassimo insieme una realtà con la quale mettere tutto a sistema? Potremmo proporre l’accensione di polizze che abbattono il costo assicurativo se i clienti si attengono a una serie di procedure e se fanno fare valutazioni o si fanno accompagnare nelle loro attività da personale di società che creeremmo, o se anche accettano di essere formati in materia di sicurezza attraverso trainig che potremmo creare ad hoc venduti sempre dalle medesime società…”. È così che per più di una decina di anni, alcuni reparti di forza armata inglese soprattutto quelli delle Forze Speciali e quelli che lavoravano più a stretto contatto con l’Intelligence, hanno visto un po’ depauperarsi le loro fila perché questa gente andava a lavorare con società private in tutto il mondo. E ripeto: parliamo di società quotate in borsa ed assolutamente trasparenti che quindi nulla hanno a che vedere con il mondo dei mercenari.
Ma perché gran parte di queste società di contractors sono in Inghilterra? Perché hanno una normativa che lo consente?
Perché c’è un sistema che funziona e che è teso a creare business. In quel Paese hanno creato la norma, hanno generato una serie di procedure per cui l’azienda che va a lavorare in aree a media ed alta conflittualità, sa che deve rispettare la legge e dotarsi di un assetto come quello. E che se non lo fa corre il rischio di pagare cifre esorbitanti di assicurazione se non addirittura di non poter proprio andare. Mentre, se va e fa le cose come previsto dalla norma, può invece avvalersi di una serie di sconti e di garanzie e vantaggi dal punto di vista della capacità e della possibilità di muoversi in un certo modo.
Quindi, loro hanno capito che questo è un business. Noi, invece, col politically correct perdiamo un sacco di soldi e mandiamo gli italiani a lavorare per gli stranieri che proteggono anche società italiane… quant’è l’introito che noi perdiamo come posti di lavoro e come soldi?
Non so se la colpa sia da individuarsi nell’approccio “politicamente corretto” però di sicuro perdiamo centinaia di milioni. Ma il paradosso vero è che le società italiane non negano che esista una richiesta e che ci sia bisogno di questo tipo di servizio. Però lo appaltano spesso a società terze inglesi. L’esempio più eclatante è quello di Eni che probabilmente comincerebbe da subito ad impiegare società italiane, ma che non può per problemi correlati ad una assenza di norma ed alla mancanza di interlocutori che possano garantire uno standard che richiede investimenti iniziali davvero impegnativi dal punto di vista economico. Perché il tipo di assetti che vengono richiesti nelle gare per la fornitura di servizi di protezione, sono assetti che prevedono esborsi iniziali che nessuno nel mio settore può affrontare in Italia, trattandosi di investimenti per milioni di euro.
Mi fa un esempio?
Mettiamo che una società X, italiana debba andare in Iraq a fare attività con diversi espatriati per un periodo prolungato. Ha bisogno di sei/otto team di protezione ravvicinata composti da circa 3/6 persone ciascuno, ed ha bisogno anzitutto di una società che sia di diritto locale, di una control room h24, di autovetture adeguatamente protette, di materiali, di strumenti per la geolocalizzazione, di assicurazioni e di una serie piuttosto complessa di assetti oltre che di personale in possesso di certificazioni internazionali. L’investimento richiesto per iniziare questo business come fornitori di servizi di security e di protezione sarebbe di diversi milioni. Non esistono, in Italia, società che siano in grado di investire tanto per partecipare a gare di quel tipo e per assecondare richieste così complesse ed articolate. Quindi la società X, forse suo malgrado, deve necessariamente rivolgersi agli altri che sono già sul mercato e sono sempre gli stessi.
Faccio un altro esempio: Aegis era la società che ha vinto il contratto con Eni e anche con la nostra cooperazione internazionale. Hanno vinto questa gara ed io, quando andai in commissione Difesa al Senato, ormai 8 anni fa, a parlare di pirateria marittima, spiegai loro che la cosa paradossale era che il nostro personale diplomatico e della Cooperazione o che comunque lavorava alla Diplomazia italiana, era messo su macchine di quella società con equipaggi inglesi che ascoltavano, tuti i giorni, le telefonate che queste persone facevano, che sapevano a quali appuntamenti andavano e sapevano chi incontravano. Ora, certamente parliamo di persone, di professionisti molto seri e leali però, la domanda che feci loro è: ma voi ce li vedete gli inglesi ad affidare il personale diplomatico e della Cooperazione ad un dispositivo di protezione che non sia inglese? La loro risposta fu che, per prima cosa, alla commissione Difesa del Senato non lo sapevano, glielo raccontai io ed il compianto generale Ramponi mi guardò come per dire, “ma davvero”? È tutto registrato e agli atti e non racconto nulla che non possa essere verificato. E la cosa assurda è che viene considerato come normale il fatto che non ci sia, da questo punto di vista, la messa in sicurezza delle informazioni che circolano. Perché, ripeto, per quanto ci si possa fidare di un alleato come l’Inghilterra, è evidente che all’interno di quella dinamica hanno circolato informazioni che riguardano l’interesse nazionale. E non ha nessun senso che siano affidate alla protezione di nazioni terze. È a mio parere un controsenso inconcepibile.
Ma questo in Italia perché non viene recepito? È una questione di mentalità troppo politicizzata, quella che assimila un uomo armato, divisa o no, a uno da limitare a prescindere?
Non saprei come rispondere ma quello che so è che per certi aspetti siamo indietro di cento anni. Basti pensare alla battaglia che abbiamo combattuto sul tema della creazione della Legge che consentisse alle navi di bandiera italiana di difendersi dalla pirateria marittima, alla cui genesi, per quanto mi è stato possibile, ho contribuito. Però, è evidente che la sicurezza privata in Italia è legata al concetto degli istituti di vigilanza, che hanno la loro utilità ma sono qualcosa di completamente avulso dallo scenario internazionale per competenze e per totale inesperienza.
In Italia c’è ancora l’idea che i contractor siano "mercenari". In realtà parliamo di gente preparata che segue delle regole.
Secondo lei ha un senso parlare di mercenari riferendosi a società quotate in borsa che devono attenersi a codici etici ed a comportamenti regolati da convenzioni internazionali? Allora… durante il periodo 2004-2007 in Iraq sono successe cose indiscutibilmente terribili. La tanto osannata società americana Blackwaters, che assurse, purtroppo, agli onori della cronaca in tutto il mondo visto che lavorava direttamente per il Dipartimento della Difesa e si occupava di protezione diplomatica scortando addirittura l’incaricato americano Paul Brenner, privati che proteggevano un’entità statale, fece in alcuni casi cose inqualificabili ed alcuni suoi operatori vennero accusati di omicidio ed è vero, in effetti successero cose molto brutte. Quindi, quel tipo di atteggiamento contribuì alla creazione di una “mitologia negativa” rispetto alla figura del security contractor. Però, da lì in poi, le cose sono cambiate radicalmente. Oggi non è neanche possibile andare in giro con tatuaggi in evidenza, e le società vogliono operatori in camicia abbottonata con le maniche lunghe, le armi non possono essere palesate, ci vogliono controlli di ogni tipo sull’addestramento, sui protocolli, sulle procedure e sulle regole di comportamento. È veramente qualcosa di molto ben regolamentato, a tutela di chiunque e quindi anche della popolazione civile, che vive in mezzo a quel contesto e nel quale ha già i suoi bei problemi.
A noi cosa manca?
Quello che manca qui da noi è, da un lato, la sensibilità politica per capire l’importanza del business e dall’altro una norma chiara che induca le aziende a dotarsi necessariamente di questa struttura. Sta per uscire una sentenza rispetto a quando è accaduto in Libia all’azienda Bonatti (nel luglio 2015 i tecnici Fausto Piano, Salvatore Failla, Filippo Calcagno e Gino Pollicardo furono rapiti a Sabrata da militanti del Daesh. Piano e Failla morirono il 3 marzo del 2016, in un conflitto a fuoco durante un trasferimento. Calcagno e Pollicardo tornarono liberi il giorno dopo, ndr) perché aveva disatteso una serie di disposizioni in merito a come mettere in sicurezza il personale che viaggia in certe aree del mondo e gli aspetti di travel security sono fondamentali, noi ci lavoriamo tantissimo. E il fatto che sarebbero state disattese queste norme ha creato una vulnerabilità ed una responsabilità diretta dei vertici di quella azienda che rischiano una grave condanna penale. Quindi, qualcosa sta cambiando anche per via di situazioni drammatiche come quella appena descritta, ma siamo molto lenti rispetto alle leggi di mercato. È una questione di mentalità e di investimenti. Noi siamo abituati alla “sicurezza demandata” agli apparati dello Stato e qualunque cosa accada ci deve pensare la realtà statuale, il poliziotto, il carabiniere e la guardia di finanza o Forza Armata nei casi più estremi. Oggi però il mondo funziona in un altro modo…
Ci sono stati episodi in cui i nostri governi hanno fatto operare contractor al posto dei militari?
Recentemente non lo so, ma so che in passato è successo qualcosa di simile. So che la dott.ssa Barbara Contini, ad esempio, che tra l’altro conosco, è stata protetta da personale inglese quando era in Iraq, anche se nell’ambito di una missione internazionale a “regia” angloamericana. E lei, ne sono quasi certo, avrebbe preferito personale italiano piuttosto che inglese.
E il governo italiano? Non pervenuto?
Ci sono atteggiamenti molto prudenti legati, anche alla paura che si creino situazioni come quella, drammatica, riferita alla tragedia del povero Fabrizio Quattrocchi, vicenda che oltre ai suoi evidenti aspetti tragici, ci ha forse anche bollati, per un certo periodo, ed ingiustamente a mio avviso, come poco affidabili. Lì si è creata una situazione davvero molto complessa dalla quale siamo lentamente usciti grazie alla professionalità degli operatori e dei professionisti che, malgrado condizioni generali e di contesto non favorevoli, sono riusciti a trovare impiego in progetti di security di respiro internazionale e si sono fatti valere con il lavoro sul terreno, giorno dopo giorno, per anni.
Questo accadeva all’estero?
Sì. E credo sia possibile immaginare che vi fossero una ferma volontà politica e diplomatica tese a scoraggiare l’impiego di risorse italiane in questo specifico settore professionale. Però, l’altra cosa, secondo me molto importante e che provai a spiegare in commissione Difesa, è stata che gli inglesi, che sono tutt’altro che ingenui, secondo me hanno aperto in maniera così convinta, concreta ed importante alle società che si occupano di sicurezza fuori dai confini nazionali anche per un altro motivo, per una ragione che io condivido pienamente, cioè per l’enorme indotto d’intelligence, che sapevano di poter ottenere agendo in questo modo. Il poter disporre di operatori qualificati che arrivano quasi sempre dalla struttura militare e che sono poi impiegati in ambito civile nelle zone più remote del mondo determina un enorme vantaggio nella capacità di raccogliere informazioni.
Mi spiego: se io fossi stato un sottufficiale od un ufficiale, di un qualsiasi reggimento inglese e stessi lavorando per una delle grandi Security Firm anglosassoni in un posto come ad esempio la Nigeria, e ci fosse un problema intorno alla zona di mia competenza che riguarda gli interessi del mio Paese, non crede che mi sentirei coinvolto a pieno titolo e che farei ciò che posso per aiutare gli interessi della mia Bandiera? Il fatto che la mia nazione sappia di poter contare su di me per quanto riguarda l’eventuale necessità di raccogliere informazioni, significa non solo avere dislocati in area e poter contare su un determinato numero di operativi appartenenti dell’apparato di intelligence governativa, ma di averne molti, molti di più che a vario titolo possono contribuire all’ottenimento del risultato ampliando a dismisura la propria capacità di moltiplicare le antenne presenti sul terreno. Il ritorno in termini di prodotto di Intelligence sul quale possono contare stati e governi che hanno centinaia di ex militari che operano in zone a media ed alta conflittualità è enorme, e questa roba non ha prezzo.
Ma noi lo stiamo capendo?
Noi non solo non facilitiamo la creazione di strutture come quelle di cui si parla, ma poi non siamo neanche in grado di aumentare laddove necessario e possibile la raccolta di informazioni così come invece riescono a fare alcuni Stati semplicemente perché hanno un tot di risorse ufficiali dislocate, alle quali alla bisogna si possono sommare ex appartenenti a Forza Armata che sono lì a lavorare in ambito civile.
Io, quello che so per certo, è che un certo interesse da parte degli apparati governativi per il nostro settore vi è sempre stato, prova ne sia il fatto che quando era presidente del Copasir il senatore Francesco Rutelli, mi fu chiesto di fare una valutazione sulla riduzione del rischio rapimento per i cooperanti e per i turisti e io scrissi che si potevano fare una serie di cose, ma che l’aspetto fondamentale era ed è creare regole, norme e procedure per cui a nessuno venga in mente di andare in giro liberamente come è stato fatto fino a oggi. Perché esistono governi che non solo ti creano difficoltà se decidi di andare in posti pericolosi, ma che se poi “inciampi” e debbono venire a tirati fuori dall’impaccio, ti mandano il conto da pagare. Ad esempio, i giapponesi se vai a scalare una vetta ritenuta pericolosa, quindi sconsigliata e devono venire a riprenderti con assetti di montagna specializzati, vengono senza problemi, ma poi ti mandano il conto delle spese sostenute. Questo per provare a spiegare che in termini di azioni e situazioni nelle quali sarebbe possibile ridurre i rischi e mettere in maggiore sicurezza i propri cittadini, ci sarebbe davvero moltissimo da fare per quanto attiene alla sinergia fra pubblico e privato.
Per quanto riguarda i Cooperanti che bisogna scortare anche per portare il latte in polvere in zone pericolose, ma c’è anche il caso di contractor che sono dovuti andare a salvare dirigenti di Ong rapinati, picchiati e prigionieri in qualche bordello di qualche posto remoto del pianeta…
Il ragionamento, lo ripeto, sostanzialmente è molto semplice: si potrebbe fare molto di più, si potrebbe creare un indotto importante, si potrebbero impiegare un sacco di ragazzi che sono senza impiego, ma che arrivano da esperienze militari di una certa valenza e che hanno voglia di fare questo lavoro, si potrebbero creare percorsi di certificazione di un certo tipo come esistono in Inghilterra, dove le società devono rivolgersi a fornitori titolati, i fornitori titolati devono poter impiegare personale che abbia delle certificazioni che lo mettano in condizione di poter operare con perizia e professionalità in giro per il mondo. Ci sarebbero molti più soldi per l’erario, molta meno gente a spasso e, soprattutto, una fondamentale capacità di prevenire incidenti. Perché se l’incidente avviene, c’è una ricaduta enorme da un punto di vista dell’immagine, del rischio, dell’impatto che ha sulle attività che quella azienda sta svolgendo oltre che sullo Stato ed i suoi apparati. Quindi, perché gli inglesi hanno deciso di farlo? Perché hanno capito che in termini di costo/beneficio, conveniva. Non sono più avanti di noi per capacità tecniche, sono più avanti di noi in quanto a capacità di guardare realmente alle soluzioni. E la soluzione non è affidarsi alle società di Stati che già fanno questo. La soluzione sarebbe, a mio avviso e lo dico da almeno quindici anni, creare i presupposti perché nasca una norma chiara e perché la gente sia messa in condizione non di scegliere se fare o no una certa cosa, ma che vi sia obbligata. Creare un percorso virtuoso che consenta loro di avere accesso a società fornitrici che fanno le cose secondo norma, a personale che sa fare quel che deve fare ed a un sistema che genera buste paga, iva, Inps, versamenti, in buona sostanza benessere oltre che sicurezza. Tutto sarebbe alla luce del sole. E non ci sarebbe più spazio per iniziative che quando va bene possono essere rischiose perché fatte male.
Il grosso di queste società è a Londra?
Non solo. Ci sono società nell’est europeo, ci sono in Francia, in Germania. E ci sono molte società a Londra, alcune straordinariamente importanti. Ad esempio Aegis è stata venduta qualche anno fa a Gardaworld, il numero uno del trasporto valori e nella sicurezza aeroportuale in nord America. Questa società non faceva questo tipo di business, ha fiutato l’affare ed è andata a comprare Aegis in Inghilterra, acquisendone i contratti e creandosi una branca che si occupa di protezione ravvicinata.
Ci sono realtà del genere che stanno nascendo, in Italia?
Io, una delle cose che ho fatto finora, è stata quella di cercare imprenditori che avessero questa lungimiranza, ovvero la capacità di capire che se uno crea assetti di un certo tipo, poi il lavoro arriva. In Italia comunque, realtà che abbiano capacità economico finanziarie (attenzione, non operative perché quelle di certo non ci mancano!!!) come quelle delle società di cui discutiamo non ci sono. Noi, ad esempio, con la mia società, ci consideriamo come una sorta di piccola sartoria, un atelier. Pensiamo a noi come ad una bottega che fa, per fare un esempio, ottimi vestiti su misura, in piccole quantità, con una buona maestria, ottimi tessuti, un buon risultato, a prezzi di fascia medio-alta ma sappiamo qual è la qualità che siamo in grado di produrre. Ma se venisse domani mattina, ad esempio, uno dei grandi gruppi industriali nazionali e mi dicesse che dobbiamo partire e che l’attività vuole farla per forza con noi, nel posto X, noi non avremmo milioni da mettere sul tavolo per acquistare i materiali che occorrono, per mettere in piedi gli assetti che servono e per progettare secondo le richieste di un cliente come quelli dei quali si discute. Non abbiamo risorse economico finanziarie così importanti anche se aspiriamo ad arrivare ad essere player di questo livello e sappiamo che con investitori adeguati potremmo certamente giocarcela alla pari con le grandi Firm inglesi. Abbiamo fatto e facciamo attività per grandi gruppi industriali, ma si tratta di progetti diversi ed in ogni caso sviluppati attraverso la sinergia con società locali. Altra cosa è essere aziende delle dimensioni e del volume di Control risk group od essere Aegis/Gardaworld. Queste company hanno dietro di loro non solo imponenti attività di lobbing governativa, ma soprattutto norme certe. Così si crea il volano, che è difficile far partire senza questi prerequisiti.
È vera la questione del calibro, cioè che uno dei problemi per l’Italia è il non poter portare armi pesanti?
No. Questo è un tema che si è risolto in buona misura con il contratto sulla pirateria marittima. È evidente che nei tavoli di discussione, all’inizio, si pensava di dotare il personale che andava sulle navi dello stesso tipo di dotazioni che ha chi sta davanti a una banca. Io mi permisi di far notare che se ti sparano con un’arma che ha un range di 400metri, tu con una pistola fai fatica a rispondere ed a dire la tua. Fu abbastanza complicato far capire queste cose a persone che non le capivano non perché fossero stupide, ma, semplicemente, perché non si erano mai dovute confrontare con questo tipo di situazioni. C’era Confitarma e anche un avvocato che loro avevano coinvolto in queste tematiche e io, nel mio piccolo cercai di fornire il contributo tecnico che riuscii a dare: fatto sta che capirono che non si poteva fare in nessun altro modo. Quindi il discorso ed il vulnus non è sulle armi o sul calibro perché spesso si agisce con società di diritto locale su terra straniera, quindi il paragone con la legge sulla pirateria marittima non va neppure così bene. E mi consenta di farle una piccola confessione: il 90% delle attività che svolgiamo è disarmata. In certi Paesi e per certi incarichi devi poter operare con strumenti tali da consentirti di essere realmente un deterrente. Ma oltre che con le armi, si va, ad esempio, anche su livelli di blindatura che qui sarebbero visti come una follia e che invece lì sono requisiti minimi. Cioè, con quella che è una macchina blindata con coefficiente B4 e che va bene, qui, ad esempio per l’imprenditore di un certo tipo o per il politico anch’esso a medio rischio, lì neanche ci esci dal garage. Perché lì, se ti sparano, usano un’arma da guerra. Parlo dell’Iraq, parlo dell’Afghanistan, parlo della Libia, parlo di alcuni Paesi del nord Africa, di alcuni Paesi nell’est Europa o del sud America. Lì, se arrivano, lo fanno con armi e munizionamento da guerra e quini non ha senso uscire con macchine blindate con meno di coefficiente B6.
Sono quelle blindature che usano anche le nostre Forze Speciali o i Nocs della Polizia di Stato?
Esatto. Quindi: è una questione di esperienza, di prospettiva, di conoscienza e di consapevolezza rispetto a quello che vai a fare. Che poi, in buona sostanza, una gran parte di questi servizi, al di là dell’immaginifico e di quel che si crede, sono un qualcosa che somiglia moltissimo a quelli delle società di guardie giurate che scortano i valori, solo molto più complessi rischiosi e di alto profilo. Il personale impiegato è addestrato ad utilizzare tecnologia di diversi tipi, ed è abituato a lavorare con satellitari e con geolocalizzatori, a utilizzare sistemi di comunicazione complessi ed è abituato a procedure diverse e complesse, come anche a lavorare in team in maniera differente da quanto non accada nei servizi che vengono espletati nel nostro Paese. Ma, alla fine, si parla comunque di sicurezza privata. Sono tutte cose che già esistono. Quando ne parlai in Commissione Difesa del Senato per la questione della pirateria marittima, dissi che non c’era da inventare niente, e che bastava guardare ai modelli normativi ed attuativi già in atto da parte di altri Stati. Quindi, suggerii, guardiamo a quello che esiste, cerchiamo di vedere cosa si è fatto in termini di norma e di giurisprudenza, ad esempio in Inghilterra, a livello di interazione tra società di industriali, aziende e fornitori, oppure per quanto attiene ai percorsi di certificazione di chi deve svolgere questo tipo di attività, ed ancora in termini assicurativi. Copiamo e miglioriamo se possibile quei modelli virtuosi.
Sono convinto che saremmo in grado dal punto di vista tecnico e operativo di fare meglio, perché non siamo di sicuro meno bravi di loro, lo dimostriamo ogni giorno in giro per il mondo nel lavoro che facciamo. Noi ci confrontiamo ogni giorno con Paesi ed operatori che sono considerati fra i migliori al mondo come gli inglesi, i tedeschi, gli americani ed in un tipo di attività che è molto complessa e spesso tanto operativa quanto intellettuale, perché è sulle procedure, sugli aspetti che riguardano l’approccio, l’assesment, sull’intelligence o sulla travel-security che si gioca spesso la partita più importante. E lavoriamo al loro fianco senza mai sfigurare anzi, spesso con responsabilità operative ed organizzative di vertice rispetto ai progetti che seguiamo. In questi 25 anni abbiamo sempre, costantemente, portato risultati, conoscenze, modestia, umiltà ma anche consapevolezza. Il bello del sistema anglosassone, la cosa che apprezzo di più, è che ti si misura ed apprezza sulla base di quello che sai fare davvero, sulla meritocrazia. Nessuno ha pregiudizi e se sai fare il tuo lavoro sei uno di loro. Una sconfitta che derivi dal nostro modo di operare, io, in 25 anni da che faccio questo lavoro, non l’ho mai vissuta e sono stato ovunque, compresa la Somalia. A Mogadiscio eravamo gli unici civili a dormire in città, nel 2014 con un gruppo di imprenditori italiani.
Quindi l’arma è relativa?
Quello dell’uomo col fucile è l’ultimo anello di una catena che prevede tutta una serie di altre necessita e risorse. Noi, come dicevo in precedenza, otto-nove volte su dieci, facciamo servizi non armati. Adesso stiamo andando a fare una attività in nord Africa, per conto di un grande consorzio che deve costruire un’infrastruttura importante in un Paese che si affaccia sul Mediterraneo. I servizi armati li fornirà una milizia locale. Ma tutto il resto, cioè intelligence, procedure, valutazione del rischio, formazione delle persone che opereranno in teatro, degli autisti e di tutti quelli che avranno a che fare con il progetto, individuazione di partner locali, travel security, tutta questa montagna di cose si fa senza armi ed è, ti assicuro, molto complicata. E senza questa roba così complessa, non vai da nessuna parte.
Devi sapere con chi parlare e con chi no, cosa fare e cosa no, a chi fai riferimento secondo il tipo di problema che ti si presenterà, come devi telefonare, quando e ogni quanto, cosa devi fare quando ti stai spostando, cosa devi guardare, cosa devi chiedere al tuo autista e cosa non devi fargli fare. Ci sono montagne di informazioni. Poi, ripeto, l’uomo con l’Ak47, addestrato, collegato via radio con la centrale operativa, è uno degli aspetti ma non è il primo o l’unico. Altrimenti sarebbe tutto molto semplice. E invece se lavoriamo, è perché evidentemente c’è qualcos’altro che si deve vendere che interessa alle aziende e che non è così facile mettere a sistema. Quando capita che ci manchi il pezzo che riguarda la protezione armata spesso siamo costretti ad acquistarlo da società locali. Perché, va anche detto che una cosa è che io vado in Libia (cito un Paese a caso e solo per fare un esempio) tre volte l’anno e questa cosa non giustificherebbe il fatto che io debba aprire lì una società controllata. Altra cosa sarebbe se ci dovessi andare per periodi prolungati e solo a quel punto cercherei di capire come funziona e quanto complesso sarebbe aprire una società in loco titolata a svolgere un determinato tipo di servizi. Ma se io ho clienti che vanno tre volte l’anno per 15 giorni, mi conviene costruire e fare affidamento su di un network locale e quindi di fronte all’esigenza, chiedo ad attori locali di aiutarmi a preparare un progetto competitivo e performante.
Alla base, la domanda è: perché ci devono guadagnare solo gli stranieri?
Non ha a mio avviso, alcuna giustificazione il fatto che il mercato sia appannaggio nella stragrande maggioranza dei casi di realtà straniere. Anche perché le cose le sappiamo fare. Con noi (il gruppo di Biffani, ndr) lavorano operatori che sono ex incursori, gente ancora giovane, che si è congedata a 50 anni e che ha esperienza e capacità. Parlo di gente che era al in Reparti di Elite come il Tuscania, ad esempio. Arrivano anche persone che non hanno questo tipo di esperienza ma che però hanno fatto un percorso civile, da privati, che li vede impegnati in attività operativa e di formazione da più di 20 anni. E va bene ugualmente, anche perché noi non agiamo da militari, veniamo mandati in giro per il mondo e siamo in pochi speso soli od in coppia e se c’è un problema te lo devi risolvere da solo. Quindi, è meglio avere una persona che sia un vero problem solver, poi che lo sia diventato facendo l’incursore, perché sia stato al San Marco, od in Legione o perché ha fatto un percorso di studi e di attività operativa privata, per me cambia poco. L’importante è che funzioni.
Del resto, meglio che i militari non vengano mandati a interfacciarsi con i privati perché, nel caso di problemi, accade quel che è successo in India con i nostri Marò…
Su quella vicenda ho scritto anche un libro sulla pirateria marittima con Guido Olimpio e Massimo Alberizzi, quando di questo non parlava nessuno. È stata una vicenda scandalosa.
Se al posto di soldati italiani ci fossero stati quelli americani?
Non sarebbe potuto succedere ma questa è ormai acqua passata. Guardiamo al futuro, che è secondo il mio parere determinato dalla necessità di dotarci di una norma chiara e dal creare presupposti perché ci sia un volano di lavoro per una eccellenza che già esiste: c’è gente che va in pensione a 55/60 anni, è ancora giovane ed ha un bagaglio di esperienza enorme. Quando sono stato a Bagdad la prima volta, nel 2004, c’era un fiorire di opportunità per chi avesse un determinato tipo di esperienza, che era incredibile. Miei colleghi di altre società erano ufficiali di forza armata americana, neozelandese, australiana, tedesca, francese, inglese. Ufficiali di rango. Che si erano congedati e si erano messi a lavorare in privato, anche se quella è stata una situazione unica per tanti aspetti e irripetibile. In Libia, oggi, ci sarebbe tanto da fare per le aziende italiane. Però i libici son particolari e hanno emanato delle norme, dal punto di vista di queste società, molto restrittive, É impossibile replicare il modello iracheno e ci sono solo un paio di società che hanno titolarità rispetto ai servizi armati. Fanno tutto le compagini libiche, le milizie o personale legato a forza armata. Sono Paesi particolari, con approcci e sensibilità particolari dove se non sei più che preparato è facile fare una stupidaggine. Anche gli algerini, ad esempio, che conosco abbastanza bene, sono straordinari, perché hanno creato un sistema che funziona e grazie al quale hanno messo in ginocchio il fondamentalismo e di cui sono, giustamente, orgogliosi.
Per concludere, la mentalità sta cambiando anche in Italia?
Io credo che in un periodo tra i cinque e i dieci anni, qualcosa accadrà. Basterebbe andare a vedere cosa è stato fatto in quei Paesi dove queste situazioni funzionano e fare accordi chiari tra Governo, Confindustria, fornitori e assicurazioni, per cui tutti dovrebbero dotarsi di una certa struttura. Ormai, anche in Italia, penso che manchi davvero poco per recepire l’importanza ed il valore dei temi discussi in questa intervista. Ma ci vuole un respiro temporale di almeno quattro, cinque anni per capire a quale modello guardare ed ispirarsi, per cambiare alcune cose che magari possono andare bene in Austria o in Svizzera ma non in Italia e fare una mediazione, una sintesi, per poi elaborare su un modello che sia giusto per il nostro approccio e le nostre necessità. Ma si può fare. È una questione, prevalentemente, di volontà.
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