Gli Emirati Arabi verso lo spazio

(di Alexander Virgili)
23/07/20

Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) si stanno ritagliando, negli ultimi dieci anni, un ruolo autonomo di potenza di livello regionale ma con prospettive potenziali più ampie come dimostrato dalla presenza sulla scena internazionale in campo astronautico. Se l’opinione pubblica è rimasta forse sorpresa nell’apprendere che gli EAU partecipano all’esplorazione di Marte con la sonda Hope, agli osservatori dello scenario internazionale non era certo sfuggito l’attivismo crescente degli Emirati e la veloce crescita economica avvenuta nonostante le oscillazioni del prezzo del petrolio. Investimenti massicci nelle reti di trasporto e comunicazione internazionali, diversificazione produttiva interna per dipendere meno dal petrolio (specialmente il Dubai), investimenti edilizi ed infrastrutturali di grosso rilievo (aeroporto, aree industriali, ecc.) che però negli ultimi anni hanno fatto registrare un forte rallentamento. Non ultimo, investimenti nelle tecnologie ed attrezzature militari attraverso accordi internazionali del valore di molti miliardi di dollari per l’acquisto, tra gli altri, di missili Patriot terra-aria, di sistemi bellici terrestri e navali, di sistemi di telecomando e sensori, aerei, navi, armi tradizionali e mezzi corazzati.

Anni addietro, la fornitura di ben 80 esemplari di F-16 fu così consistente da suscitare preoccupazioni anche in alcuni parlamentari statunitensi. I fornitori di armi degli Emirati sono prevalentemente dell’area occidentale (Australia, Belgio, Brasile, Bulgaria, Corea del Sud, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Stati Uniti d'America, Svizzera, Sudafrica e Turchia), schieramento nel quale si inseriscono nonostante alcuni distinguo. Una parte delle armi è talvolta girata alle milizie che operano in Yemen o in altri Paesi, producendo periodicamente prese di posizione, smentite, polemiche, anche per le denunce di violazioni dei diritti umani e per l’uso diffuso di pratiche detentive illegali da parte dei corpi di sicurezza degli Emirati.

Non mancano investimenti diretti nelle fabbriche di armi, come nel caso dell’acquisizione della francese Société Chapuis Armes, acquistata dall’importante Emirates Defense Industries Company nel 2018. Secondo alcune stime, circa il 12% delle armi prodotte in Italia sono acquistate dagli Emirati.

I Paesi arabi del Golfo hanno da tempo rapporti consolidati con gli Stati Uniti in materia di sicurezza1, tuttavia alcune piccole crepe o incomprensioni sembrano talvolta aprirsi, anche per le modalità non di rado alquanto rozze della politica estera statunitense. In tale situazione, tenuto conto del forte espansionismo cinese e delle modalità mediamente più sofisticate degli strateghi cinesi non è da escludersi, in futuro, un progressivo distanziamento. La Cina, per esempio, importa la maggior parte del proprio petrolio dal Golfo Persico, e negli ultimi anni ha aumentato le importazioni anche di altri prodotti. Alla fine del millennio, secondo il Financial Times, il volume commerciale annuale tra Cina ed Emirati Arabi Uniti era di 2 miliardi di dollari, mentre ora ha superato i 50 miliardi e, prima dell’inizio della pandemia, i piani emiratini erano di arrivare fino a 70 miliardi. Nonostante a causa del coronavirus l’obiettivo non sia stato raggiunto, negli ultimi mesi la collaborazione tra i due paesi è comunque continuata. Gli Emirati hanno mandato guanti e mascherine alla Cina nelle prime fasi dell’epidemia, e la Cina ha condiviso con le autorità sanitarie degli Emirati alcune conoscenze a livello medico che hanno aiutato il Paese ad affrontare il coronavirus, una volta che l’epidemia era arrivata nel Golfo. I Paesi del Golfo e la Cina hanno anche avviato da tempo una proficua collaborazione nel campo della tecnologia. Le società di telecomunicazioni statali negli Emirati Arabi Uniti hanno assegnato i contratti per la rete cellulare 5G a Huawei, società cinese inserita nella “lista nera” del dipartimento del Commercio statunitense, ma la collaborazione si è estesa anche ad altri settori. Il laboratorio per analizzare i tamponi, per esempio, è stato realizzato tramite una joint venture tra la BGI, società cinese per l’analisi genomica, e il G42, gruppo che si occupa di intelligenza artificiale e che è legato alla famiglia reale di Abu Dhabi.

Come si arriva alla presenza nello spazio? La svolta e l’accelerazione avvengono nell’ultimo decennio, nel 2014 viene costituita la Emirates Defense Industries Company (con maggioranza di capitale di Abu Dhabi) la quale nel 2019 diventa la EDGE Group, che ha un fatturato annuo di oltre 5 miliardi e comprende cinque aree di sviluppo: Piattaforme e sistemi, Missili e armi, Cyber Defense, Electronic Warfare & Intelligence, Mission Support. Di fatto scopo dell’EDGE Group è rendere sempre più autonomi da forniture esterne gli Emirati e creare un proprio mercato di settore, come testimoniato già dall’accordo di forniture per il Kenya. Il gruppo, nelle parole del suo amministratore delegato, è proiettato verso il futuro di nuove frontiere per nuove tecnologie, nella consapevolezza che le tecnologie giocheranno nel breve e nel medio periodo un ruolo essenziale. Sempre nel 2014 viene costituita la Agenzia Spaziale degli EAU. Tra i principi alla base della costituzione dell’Agenzia ci sono il benessere della popolazione, il supporto agli interessi nazionali degli EAU, il contributo alla crescita e diversificazione dell’economia, promuovere lo status degli Emirati a livello regionale ed internazionale, garantire il libero accesso ed utilizzazione dello spazio. I massicci investimenti hanno quindi consentito di acquisire ed utilizzare tecnologie di alto livello in tempi brevi.

Questa fase coincide con una serie di eventi bellici nella regione. Giova ricordare che dieci anni prima, nel 2004, era iniziato il conflitto civile nello Yemen, esploso poi nel 2015, causando molta apprensione negli Stati vicini perché esempio di destabilizzazione interna basato sul molteplice settarismo islamico e sulla storica divisione tra sciiti e sunniti. Gli EAU fanno parte della coalizione militare, a guida Saudita, che appoggia una delle fazioni in lotta nello Yemen.

Gli Emirati sono anche presenti nel conflitto libico, sia appoggiando Haftar, con forniture di armi, che cercando comunque di avere un ruolo con le Nazioni Unite per la soluzione del conflitto. La presenza di terminali petroliferi e la collocazione della Libia nel Mediterraneo hanno un peso strategico ampio che non è sfuggito all’attenzione del governo degli Emirati. Forte interesse degli Emirati anche in Sudan, dove una società del Dubai sta cercando di gestire il principale terminale portuale del Sudan, dopo aver intessuto connessioni per il controllo di vari altri porti del corno d’Africa. E non sono queste le uniche operazioni di presenza in aree anche geograficamente abbastanza distanti dal proprio territorio. Certamente il timore di instabilità interna alimentata da fazioni e gruppi religiosi è una costante, nel tempo, per molte delle monarchie (e delle dittature militari) dell’area, ma la strategia degli Emirati appare di più ampio respiro. Un uso attento e massiccio dei mass media, moderate ma simboliche liberalizzazioni sociali e culturali interne, gli ampi investimenti nelle tecnologie sono il frutto, a detta di molti osservatori, dell’efficace lavoro di regia di Mohammed bin Zayed Al Nahyan, principe reale dell’Emirato di Abu Dhabi comandante supremo delle forze armate degli Emirati e, a causa dei problemi di salute del presidente Khalifa bin Zayed (che è suo fratello), considerato da molti una sorte di presidente ombra degli Emirati. Diplomatosi a 18 anni nell’accademia militare inglese di Sandhurst, influente amico di molti politici statunitensi, Al Nahyan ha orientato gli Emirati con indubbia capacità ma negli ultimi anni, nonostante le sue aperture in tema di tolleranza e progresso sociale, sembra sempre più condividere posizioni belliciste ed alcuni osservatori cominciano a nutrire qualche dubbio sulla sua affidabilità politica futura. Situazione delicata considerato l’enorme potenziale militare del quale sono stati dotati gli Emirati nel corso degli anni.

Questo il contesto geopolitico e militare nel quale si inserisce la missione spaziale Hope del luglio 2020, con una sonda degli Emirati lanciata da un vettore giapponese della Mitsubishi dal centro di Tanegashima, nel Sud del Giappone. La sonda dovrebbe raggiungere l’orbita marziana in circa 5 mesi e restarvi per un paio di anni. La sonda è stata realizzata da una squadra congiunta degli emirati e di due università dell’Arizona e costruita presso il laboratorio dell’Università del Colorado. La prima missione spaziale di un Paese arabo sta consentendo quindi agli Emirati di acquisire velocemente alta tecnologia, di consolidare il ruolo di guida tecnologica nell’area (o nel mondo islamico), di proiettarsi in un settore strategico cruciale dal peso crescente, di accrescere il proprio potere politico e militare.

1 Gli Stati Uniti hanno varie basi navali ed aeree in Quatar, negli Emirati, in Oman, in Kuwait, ed un gruppo di battaglia associato ad una portaerei.

Foto: Hope Mars Mission / Xinhua / EDIC / Emirates News Agency