Parlare di Repubblica di Cina (ROC), o semplicemente Taiwan, è anche comprendere come la storia si sarebbe potuta evolvere nella Repubblica Popolare Cinese (PRC), se i comunisti di Mao non avessero vinto, nel 1950, la guerra civile contro i nazionalisti di Khiang Kai-shek.
Da una parte, una moderna democrazia, economicamente avanzata e basata sullo stato di diritto; dall’altra un’autocrazia, in cui l’apparato del partito comunista decide sulla vita di 1 miliardo e trecento milioni di cittadini.
È questa una delle impressioni che Difesa Online ha tratto dall’incontro con il capo dell’Ufficio di Rappresentanza di Taipei in Italia, amb. Andrea S.Y. Lee, svoltosi nei giorni scorsi, a margine della serata a lui dedicata dal Club Atlantico di Bologna.
Ambasciatore, è venuto per parlare anche delle opportunità economiche che Taiwan offre all’Italia e al mondo.
Taiwan è un paese di alta tecnologia, con una grande capacità di ricerca e sviluppo (R&S), in continua innovazione tecnologica e con una grande capacità di risposta alle sfide del presente. Si pensi solo alla efficienza con cui abbiamo risposto al problema del Covid. Siamo, in sintesi, un paese che crede al potere dell’innovazione.
Ha fatto cenno al Covid. L’esperienza della SARS nel 2003 vi ha di sicuro agevolato nella conoscenza delle procedure da adottare, però siamo tutti rimasti colpiti dalla velocità con cui avete contenuto la pandemia, dimostrata dai soli 500 individui positivi su una popolazione di 23 milioni di abitanti.
Certamente, pensi solo che dei 500 casi, 8 su 9 degli individui positivi provenivano dall’estero. Lei ha ragione, abbiamo avuto sette morti in sette mesi, il che equivale a un morto ogni tre milioni di abitanti. Da voi, in Italia, si sono finora registrati un morto ogni duemila italiani, e parliamo di uno dei paesi al mondo che meglio ha affrontato la pandemia.
Taiwan però ha dimostrato di saper mettere a frutto l’esperienza passata, con senso di disciplina e facendo ricorso alla tecnologia. Anche la conoscenza delle poco trasparenti modalità di azione cinesi ha avuto un ruolo nella nostra vittoria contro questo terribile flagello.
Un successo ottenuto malgrado l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) non vi abbia fornito i dati di cui avevate bisogno.
L’OMS ha omesso l’importanza di informare Taiwan e ci ha costretti ad agire da soli. E cosi abbiamo fatto, giocando d’anticipo. Solo per citare un esempio, con oltre trenta linee di assemblaggio, siamo riusciti ad aumentare, in un mese, la produzione di mascherine da 300mila pezzi al giorno, a oltre 20 milioni.
Un bene prezioso che è diventato anche d’esportazione.
Pensi che abbiamo donato ben 15 milioni di mascherine alla UE, di cui 500mila all’Italia, a ulteriore dimostrazione di come i taiwanesi sono in grado di coniugare disciplina con l’innovazione e la rapidità di reazione. E abbiamo prodotto mascherine di qualità, a differenza delle tante in circolazione fornite da qualche altra "nazione donatrice”, che si sono rivelate poi di dubbia fattura. La nostra è stata un'azione umanitaria coordinata, a livello europeo, con l’UE. Con ciò, non vorrei che si parlasse di una nostra “diplomazia delle mascherine”.
Quando all’inizio all’emergenza il nostro governo ha chiuso i collegamenti aerei con la Cina ha incluso anche Taiwan e Hong Kong: questa decisione vi ha creato dei problemi?
Le dirò, l’inclusione di Taiwan ha avuto solo una motivazione di natura politica, che noi abbiamo subito contestato. Dal nostro punto di vista è stata, da parte di Roma, una non corretta valutazione di politica sanitaria.
Ritornando al tema economico, siete una grande potenza economica regionale, una delle quattro tigri asiatiche, che come poche altre sta cavalcando la rivoluzione digitale in atto, e, al tempo stesso, siete un importante partner economico della Cina, paese in cui avete numerosi siti produttivi. Come riuscite ad armonizzare gli alti e bassi delle relazioni politico diplomatiche con Pechino, con le esigenze di natura commerciale che richiedono tempi di decisione e familiarità con il cliente?
Questo accade per due motivi. Il primo è che la Cina riconosce l’importanza di avere gli investimenti e l’apporto tecnologico di Taiwan, e quindi ricevere i nostri prodotti è nei suoi interessi. I taiwanesi hanno apportato la loro esperienza nell’organizzazione delle linee di produzione e nell’ambito delle relazioni con i clienti esteri. Se è vero che la Cina produce l’Iphone per tutto il mondo, è altrettanto vero che lo fa grazie a industrie taiwanesi, come la Foxconn, dislocate sul suo territorio.
Pertanto è importante, per Pechino, avere buoni rapporti con noi: è nel suo interesse. Ecco perché accoglie ogni anno milioni di turisti e di studenti provenienti da Taiwan. Chiudere questo flusso non avrebbe senso e sarebbe contro gli interessi nazionali cinesi. D’altro canto, anche per noi la Cina è importante in quanto rappresenta il nostro mercato più grande. I cinesi comprano la nostra tecnologia e i nostri prodotti. Solo per fare un esempio, noi - non loro - siamo in grado di produrre microprocessori di alta tecnologia.
Non ci si deve allora meravigliare, se la Cina non ha mai chiuso i collegamenti con la nostra Repubblica, anche quando a Taipei si sono insediati governi e presidenti, come gli attuali, che si battono per l’autonomia e l’indipendenza di fatto. Segno che a entrambi gli Stati conviene che una tale situazione rimanga invariata.
I romani parlavano di “status quo”, mi sembra di capire che sia proprio questo l’auspicio di ambo le parti.
Certamente, è lo stesso motivo per cui la Cina non ha chiuso Hong Kong nonostante i dissidenti e le forze centrifughe presenti. Non gli conviene perché la città è troppo importante a livello economico e finanziario, e Pechino non può privarsi dei frutti che tale apertura produce.
L’attuale presidente di Taiwan, una donna, da poco riconfermata con un grande consenso popolare, sta spingendo sulla linea politica dell’indipendenza. L’agenzia Reuters, tempo fa ha annunciato una importante acquisizione di armamenti ed equipaggiamenti militari dagli USA. Le chiedo allora se l’autonomia e l’indipendenza rimangano per il suo Paese l’unica prospettiva possibile nel quadro dei rapporti con l’ “ingombrante” vicino.
Vede, come le ho detto, noi auspichiamo lo status quo. Siamo cioè convinti che in realtà vi sia un’unica Cina, storica, culturale, etnica. Pensiamo che esista una sola civiltà cinese, ma che, al contempo, sussistano due realtà politiche. Questo accade non per colpa di Taiwan, che anzi si riconosce come la vera Cina, il cui nome ufficiale è ancora “Repubblica di Cina”, quella originaria. D’altronde, occorre essere pratici: la realtà dei fatti costituisce l’unica verità possibile, che mai può e deve essere trascurata.
La Cina e Taiwan sono due Stati, questo è un dato di fatto. Occorre allora trovare una formula che permetta una convivenza pacifica e prospera tra la Repubblica di Cina e la Repubblica Popolare.
Noi non pretendiamo certo di riconquistare la terraferma cinese, ma, d’altro canto, loro non possono pretendere che noi apriamo le porte di casa nostra e ci si “arrenda” al loro volere, diventando una loro provincia. Noi abbiamo una nostra repubblica, con un nostro presidente, un nostro parlamento, una nostra politica estera e un sistema giudiziario basato sullo stato di diritto.
Non vogliamo cambiare il nostro nome, noi siamo la Repubblica di Cina, libera, democratica, prospera, che rispetta lo stato di diritto, e che sinora ha esercitato il suffragio universale diretto per ben cinque volte.
Pretendiamo di essere rispettati e trattati per quello che siamo: un Paese orgoglioso della sua storia, del suo presente e del proprio sistema paese, con una economia che ha ripreso a crescere del 2%, quando il resto della UE sta crescendo in negativo di dieci punti.
Taiwan lavora per il dialogo, ma la Cina non vuole dialogare. Noi pensiamo che la formula “un paese, due sistemi” non funzioni: si pensi solo al Tibet o a Hong Kong...
Questo perché l’autonomia è vista da Pechino come un pericolo. E noi alla nostra autonomia e indipendenza non possiamo rinunciare.
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