Il degrado ambientale è inevitabilmente legato all’insorgere di conflitti violenti. Non si tratta di una semplice teoria basata su coincidenze e supposizioni, l’argomento è infatti entrato ormai a pieno titolo nella lista delle maggiori preoccupazioni a livello non solo nazionale, acquisendo notorietà e credibilità scientifica dopo diversi anni di scetticismo.
Nel 2016, una ricerca pubblicata nel giornale accademico “Proceedings of the National Academy of Sciences” realizzata da accademici dell’Università di Potsdam, ha scoperto la preesistenza di un legame statistico tra guerre e disastri climatici; questi non provocano direttamente lo scoppio del conflitto, ma possono aumentare il rischio che si verifichi e si radichi in circostanze specifiche.
I ricercatori hanno utilizzato i dati della società di riassicurazione internazionale Munich Re, le cui informazioni sono state poi combinate con altri dati sui conflitti e un indice, utilizzato per quantificare come i Paesi in esame siano "etnicamente frazionati".
Globalmente c'è un tasso di coincidenza del 9% tra lo scoppio dei conflitti armati e le catastrofi naturali come siccità e onde di calore. Emerge inoltre che in Paesi che sono stati profondamente divisi etnicamente, questo stesso tasso è salito circa del 23%.
Non si tratta dunque di mere ipotesi, l’allarme è reale e ben circostanziato. Per fare chiarezza su un argomento tanto complesso quanto ricco, Difesa Online ha intervistato Grammenos Mastrojeni, tra i massimi esperti di geostrategia ambientale e precursore nel tracciare un legame tra conflitti e degrado ambientale.
In occasione dell’uscita a settembre 2017 del suo prossimo libro “Effetto serra, effetto guerra”, Mastrojeni ha commentato con noi il filo d’Arianna che unisce guerra e cambiamento climatico, al centro del suo lungo lavoro accademico e diplomatico, prendendo in esame il caso specifico siriano e l’influenza del contesto ambientale nel decorso del conflitto.
Dai primi anni novanta Mastrojeni ha infatti intrapreso con lungimiranza una riflessione critica e molte ricerche sull'allora incompreso legame fra tutela dell'ambiente, coesione umana, pace e sicurezza: ha pubblicato il primo articolo sull'interconnessione fra ambiente e stabilità sociale nel 1994, anticipando il primo allarme ufficiale emerso nel 1997 con il rapporto Geo-1 curato dal Programma delle Nazioni unite per l'ambiente.
Attualmente insegna geostrategia ambientale ed è co-presidente nel G7 del gruppo che si occupa di relazioni tra clima e conflitti, contribuendo alla sensibilizzazione e alla diffusione di informazioni preziose sul tema.
Occorre un doveroso preambolo per comprendere una tematica così sensibile: basti pensare in prima battuta che tra le maggiori minacce alla sicurezza internazionale, i conflitti violenti su larga scala godono dell’attenzione più alta sia da parte del mondo politico che dell’opinione pubblica.
Questo si traduce in una risposta economica; lo sviluppo della capacità militari di rispondere a eventuali scontri consuma da sempre grandi risorse: in tutto il mondo si stima che in media nel 2014 circa l’8,15% del PIL nazionale sia stato speso per la difesa (World Bank Data 2014, ultimi dati disponibili).
Sebbene il dato sia in decrescita rispetto agli anni precedenti, occorre considerare che i rischi alla sicurezza oggi vestono abiti differenti dal passato e si sono evoluti molto velocemente negli ultimi anni. Di fronte a nemici multiformi e di non facile identificazione sembra dunque prioritario trovare soluzioni alternative per la protezione dell’oggetto di riferimento principale: le persone.
Allo stato attuale le minacce maggiormente sentite su scala mondiale sono nell’ordine: conflitti civili, terrorismo, crimine organizzato, contrabbando di armi e questione climatica.
Una delle nuove sfide attuali è proprio il degrado ambientale, generatore di iniquità sociali, ingiustizie e strettamente correlato all’insorgere di conflitti violenti. La prima persona a teorizzare in modo sistematico che il cambiamento ambientale poteva costituire di per sé una security issue è stato Richard Falk, che nel 1971, quando il degrado ambientale era solo una preoccupazione nascente, descrisse quella che ha definito come "La prima legge della politica ecologica", estremamente rilevante per la questione dell'adattamento umano al cambiamento climatico.
Secondo Falk esisteva una relazione inversamente proporzionale alla durata dell’intervallo di tempo che intercorre tra un cambiamento climatico e la capacità di adattamento a esso: la probabilità che, in assenza di interventi programmatici, si verificassero conflitti intensi, traumi e coercizioni sociali nell’area interessata cresceva tanto più si viaggiava sul motto del laissez-faire.
Questo è oggi un vero e proprio aspetto della ricerca contemporanea sul cambiamento climatico: più rapidamente si verifica il mutamento, meno tempo abbiamo a disposizione per adattarci a esso, e diventa più probabile il verificarsi di impatti climatici pericolosi per la sicurezza e lo sviluppo di un sistema Paese.
I processi fisici come l’aumento del livello dei mari, la siccità, l’assenza di biodiversità, influiscono prepotentemente in materia di sicurezza nazionale, definita nell’ambito di una sovranità territoriale specifica, che nel suo mutare deve essere costantemente monitorata per assicurare benessere e sostenibilità a lungo termine.
Di sfide future, percezione comune sul tema, soluzioni e molto altro abbiamo discusso con Mastrojeni. Di seguito l’intervista rilasciata dal Professore a Difesa Online.
C’è scetticismo circa il legame tra cambiamento climatico e conflitti. Ritiene che tale atteggiamento diffuso presso l’opinione pubblica derivi dalla difficoltà di individuare il degrado ambientale come una security issue prioritaria al pari di altre emergenze?
È un legame complesso e in passato c’erano delle perplessità in merito. A partire dal 2006-2007 è diventata una concezione accolta, tant’è che è una linea studiata e considerata dal G7, nel quale io sono co-presidente del gruppo che si occupa del rapporto tra clima e conflitti. È dottrina assodata. Sul sito web del Pentagono si trova la definizione dei cambiamenti climatici come “threat multiplier”, succede la stessa cosa sul sito web della NATO. La questione non è la diffidenza, ma è un legame che deve essere spiegato e il vero ostacolo è la mancanza d’informazione. La circostanza che uno degli aspetti maggiormente influenti in questa questione è l’accelerazione dei flussi migratori sta aumentando l’interesse per la questione.
Il caso siriano è un esempio chiaro di come l’emergenza idrogeologica dell’area abbia generato conseguenze sociali, economiche e politiche rilevanti. Dal suo punto di vista le misure adottate dal governo di Assad per combattere il fenomeno sono state fallimentari? Quanto hanno influito in seguito?
Nel momento in cui sono state adottate le misure per far transitare l’agricoltura dal sistema di sussistenza a quello di reddito (per portare maggiori introiti ai farmers con la coltivazione del cotone) non c’è stato dolo o malizia, di per sé non è una scelta politica giudicabile, ma una linea condivisibile. Nessuno poteva prevedere l’alterazione del clima che ha comportato un esodo dalle campagne alle città di 1,5 milioni di persone. Mi sentirei di invitare a imparare dall’esperienza siriana: l’agricoltura che il governo di Assad ha voluto “modernizzare” ha i suoi limiti, ma anche una specifica forza: la resilienza. Trattandosi di un’agricoltura autarchica in cui la fattoria produce il fabbisogno familiare e si vende solo il surplus, ha una produzione differenziata e di fronte ala cambiamento climatico resiste di più, in quanto alcune coltivazioni saranno compromesse da eventuali disastri, mentre altri sopravvivranno.
Il cambiamento climatico potrebbe avere impatti geopolitici significativi in tutto il mondo, contribuendo alla povertà, al degrado ambientale e all'ulteriore indebolimento dei governi fragili. È plausibile pensare che l’incapacità di reagire con proposte programmatiche mirate possa aprire la strada a nuove fratture politiche e a derive autoritarie? Che nesso esiste tra questi fattori?
Un nesso complesso e molto semplice al tempo stesso: il degrado ambientale diventa pressione socio-economica in governi fragili per motivi ovvi. Se per esempio la porzione rurale della produzione Paese di sistemi poveri entra in uno stato di difficoltà – considerando sempre le condizioni difficili delle aree prese in esame -, è probabile che la popolazione reagisca in forme illegali, di fluidità sociale e contrasto. La tentazione di una deriva autoritaria in contesti simili si ripropone sempre.
Nel suo nuovo libro in uscita a Settembre 2017 con Chiarelettere “Effetto serra, effetto guerra” viene ampiamente esplorato il legame tra conflitti e degrado ambientale, generatore di iniquità economiche e sociali. Qual è la soluzione? Un approccio multilaterale e integrato di varie discipline? Chi sono gli attori principali a dover dare avvio in modo significativo a questo processo di cambiamento?
Io credo che la responsabilità spetti a tutti coloro che siano in grado di fare qualcosa: governi, strutture sovra nazionali e ONG, bisogna correre per salvare Paesi che sono al collasso ambientale. I metodi ci sono e sono anche poco costosi e semplici: un approccio tematico incentrato sul recupero delle terre o della biodiversità, il segreto è ricordare che tra mitigazione e adattamento noi stiamo ponendo l’accento sulla prima, ovvero lavoriamo sulla diminuzione delle cause dell’effetto serra. Dobbiamo però prima aiutare i Paesi in via di sviluppo, affinché partecipino a questo sforzo, ad adattarsi alle condizioni che cambiano.
(foto: Grammenos Mastrojeni)