David Conati
Ed. Cosmo Iannone, Isernia 2019
Pag.272
Inquadrabile nel genere romanzo storico, questo libro racconta di un fatto avvenuto tra il 1438 e il 1440, quando la Repubblica di Venezia, che si stava espandendo verso la terraferma, incontrò un ostacolo nel Ducato di Milano, che si stava espandendo verso est.
La città di Brescia, amica di Venezia, fu causa dello scontro in quanto Filippo Maria Visconti, duca di Milano, decise di assediarla con il capitano di ventura Niccolò Piccinino e Venezia, con il capitano di ventura Erasmo da Narni, meglio noto come Gattamelata, decise di liberarla.
La voce narrante è quella di un garzone, Menico che, alle dipendenze dello scudiero Mercuzio, seguiva l’esercito del Gattamelata. “Il nostro nemico ritiene che la via dei monti, fra gole impervie, col rischio di valanghe e massi che ostruiscono le strade, sia impraticabile per un esercito come il nostro, abituato alle grandi pianure. […] Ebbene, noi gli mostreremo che si sbaglia. Risaliremo la valle del Ledro, aggireremo il Garda o Benaco, se preferite, da nord, passeremo per la valle di Loppio e quindi scendendo per la val Longarina raggiungeremo la pianura di Verona, dove un’armata del piano come la nostra si ritroverà di nuovo a suo agio”. Questo il piano che il Gattamelata espose al suo staff e che fu ascoltato anche da Menico entrato nel salone, dove si stava svolgendo la riunione, per portare delle brocche.
La notte del 24 settembre 1438, lasciato a difesa della città Detesalvo Lupi, un esercito di 4.000 uomini - di cui faceva parte anche Bartolomeo Colleoni - al comando del Gattamelata, eludendo la sorveglianza del Piccino, partì da Brescia con l’intento di tornare e liberarla, alla volta di Verona.
Nei pressi del fiume Sarca ci fu uno scontro con gli uomini di Visconti. Durante lo scontro Menico perse conoscenza e, al suo risveglio, si accorse di aver perso il suo esercito con il quale, però, dopo una serie di peripezie, egli riuscì a ricongiungersi a Venezia, dove Gattamelata e Colleoni avevano chiesto, al Maggior Consiglio, di finanziare un’impresa militare che prevedeva, nel giro di un mese, la costruzione di una flotta. L’Arsenale di Venezia, d’altronde, era in grado di fornire una nave al giorno, fatto che permetteva, agli arsenalotti, di essere tenuti in una considerazione tale da essere le uniche persone non nobili a non doversi inginocchiare davanti al Doge.
“I primi giorni del mese di gennaio dell’anno del Signore Millequattrocentotrentanove la flottiglia del Gattamelata comandata da Bartolomeo Colleoni è pronta a salpare”: trentatrè imbarcazioni in tutto risalirono il fiume, imboccando l’Adige dalla foce, vicino Chioggia, fino ad arrivare a Legnano e poi a Verona, mentre il grosso dell’esercito seguì il Gattamelata via terra. Venne, quindi, messo in atto il piano ideato, precedentemente, da quest’ultimo, vale a dire trascinare la flotta su per i monti trentini fino ad arrivare nel Garda del nord e poi scendere in pianura in direzione di Brescia. Per fare ciò vennero tirate in secco le imbarcazioni, per poi fare scorrere gli scafi su dei rulli di legno chiamati scalandroni.
“A forza di buoi, braccia e rulli le navi raggiungono il passo di San Giovanni”. La scalata, fino al monte Altissimo di Nago, durò due settimane. Per la discesa furono spiegate le vele che, gonfiate dal vento, frenavano le imbarcazioni.
Vicino Torbole, sul lago di Garda, in un porticciolo allestito rapidamente alla foce del Sarca, tutta la flottiglia venne ricomposta e armata. Fu un’impresa rischiosissima e molto costosa, celebrata in tutta Europa per la tecnica ingegneristica militare, che permise di portare rifornimenti agli assediati di Brescia.
“Siamo degni di Annibale e Scipione l’Africano! – esclamò il Gattamelata quando tutte le navi furono fatte scendere dal monte”.
Gianlorenzo Capano