Jeremy Rubenstein
Ed. La Dècouverte, 2022
pagg.336
Questo libro di Jérémy Rubenstein (Terreur et Seduction. Une histoire de la “guerre révolutionnaire”, La Dècouverte), si inserisce molto bene nel clima del rinnovato interesse venuto ad emergere in Francia, e non soltanto, per la DGR, la “dottrina della guerra rivoluzionaria”, cui stiamo assistendo da qualche decennio.
Dopo un periodo di oblìo, seguito all’esplosione e alla rapida affermazione di questo nuovo pensiero strategico in Francia negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, con una “coda” nei primi anni Settanta nelle nazioni del Sud America rette da regimi dittatoriali, si registra la rinascita di questa dottrina all'inizio degli anni Duemila con lo scoppio dei conflitti irregolari in Iraq ed Afghanistan. Grazie alla rielaborazione di alcuni principi fondamentali della DGR, variamente declinati nella dottrina militare statunitense della COIN (Counterinsurgency).
Il libro è strutturato in due parti principali e si articola in 14 capitoli.
L’autore ripercorre la storia della DGR partendo dalle origini, che poggiano sull’esperienza di più di un secolo delle pratiche contro-sovversive impiegate dall’esercito coloniale francese, dalla conquista dell’Algeria del 1830 fino all’apogeo della Repubblica imperiale, coincidente con l’anno dell’ Esposizione coloniale del 1931. Ed è proprio nell’esercito coloniale che Rubenstein rintraccia i “fondamentali” della dottrina contro-rivoluzionaria: concezione del ruolo dell’esercito, della guerra e delle relazioni con la popolazione civile e con il nemico. Temi questi, relativamente estranei all’esercito metropolitano.
Così vengono prese in esame le strategie messe in campo nei territori d’Oltremare da una triade di generali : Bugeaud, Gallieni, Lyauteney. Secondo Rubenstein la vulgata storiografica che presenta i tre militari come protagonisti di tre fasi successive della colonizzazione francese: conquista, pacificazione e costruzione della nazione è una rappresentazione storicamente falsa (p.18). Tutti e tre questi militari infatti hanno sostenuto e praticato una occupazione militare fondata sulla repressione, per imporre il terrore ricorrendo all’uso della forza, della tortura, degli omicidi e delle sparizioni forzate. Tali pratiche erano tuttavia associate ad una politica tendente alla “conquista dei cuori e delle menti”, perseguita attraverso strumenti di coinvolgimento e partecipazione delle élite indigene alle attività amministrative.
Successivamente Rubenstein analizza i “due elementi centrali” (p.44) che la seconda guerra mondiale apporta all’elaborazione della futura dottrina della guerra rivoluzionaria: la guerra psicologica e i commandos.
Strumento centrale della guerra psicologica è la propaganda, che utilizza tutti i media (allora) disponibili, giornali, radio, cinema. Ma la guerra psicologica non si riduce tuttavia alla sola propaganda, essa dispone di un più vasto arsenale di metodi di disinformazione e di “intossicazione”: rumors, false notizie, ecc. Münzemberg, Goebbels e Bernays — rispettivamente al servizio dell’Internazionale comunista, della Germania nazionalsocialista e del sistema capitalistico degli Stati Uniti —, sono i tre maestri della manipolazione dell’informazione che “fissano i principali metodi della propaganda di massa”, successivamente elaborati e affinati, ma che non saranno mai messi in discussione (p.47).
Nel terzo capitolo Rubenstein prende in esame la nascita nel corso della seconda guerra mondiale, all’interno della forza armata britannica, di piccole unità militari che prendono il nome di commandos, poi definite “forze speciali”, quali SAS (Special Air Service) o SOE (Special Operation Executive), incaricate delle operazioni clandestine nell'Europa occupata. Queste unità speciali vengono prese a modello dai militari francesi. Altri strumenti della cooperazione tra le forze alleate, sempre su impulso dei britannici, sono le STS (Special Training School) e le squadre Jedburgh. Unità formate da un ufficiale inglese, da un ufficiale francese e da un ufficiale americano, dei quali uno doveva essere necessariamente uno specialista in radio trasmissioni. Da queste forze di élite proviene un gran numero di coloro che hanno poi svolto un ruolo importante nei successivi conflitti irregolari.
I capitoli quarto, quinto, sesto e settimo rappresentano la parte centrale del libro, in cui viene analizzata in profondità l’emergere e la istituzionalizzazione della DGR all’indomani della seconda guerra mondiale, a seguito della formalizzazione di questo nuovo pensiero strategico da parte degli ufficiali francesi impiegati in Indocina.
Con la guerra d’Indocina la Francia sperimenta l’impiego di gruppi di resistenza (maquis) ed invia circa sessanta uomini provenienti dalle forze speciali, principalmente Jedburghs e SAS. Il programma fa parte della “Force 136”, unità asiatica del SOE britannico.
Oltre l’esperienza delle tecniche di commando e della guerriglia e l'apprendimento di elaborati strumenti di azione psicologica, una terza fonte d’ispirazione, essenziale a nutrire le riflessioni dei teorici della DGR durante la guerra d’Indocina, è la conoscenza del comunismo. Ma si tratta di una lettura molto superficiale dei testi di Mao Zedong o GIAP (p.98). È principalmente l’esperienza maturata nei campi di prigionia ad offrire ai militari francesi le basi della conoscenza della ideologia comunista. Per costoro, in realtà, il comunismo è l’universo concentrazionario del campo di prigionia, “è la società del campo”(p.99).
Un intero capitolo è poi dedicato a tre figure fondamentali di teorici della DGR, Charles Lacheroy, Roger Trinquier e David Galula. Secondo Rubenstein, è centrale nella elaborazione della dottrina della guerra rivoluzionaria il concetto di “gerarchie parallele”, espressione coniata da Lacheroy, che designa l'insieme della triplice rete, professionale, territoriale e partitica, che ingabbia il popolo; e attraverso cui la minoranza rappresentata dal partito comunista è in grado di esercitare il controllo totale sull’intera popolazione (pp.103-104).
Ma la DGR sarebbe incomprensibile se il concetto delle gerarchie parallele non fosse associato al cosiddetto "scenario delle cinque fasi", anch'esso utilizzato da Lacheroy e ripreso con lievissime variazioni da Trinquier e Galula. Per questi tre teorici, la guerra rivoluzionaria si svolge in cinque fasi. La prima fase può essere rilevata solo da esperti : personale militare, di polizia, giudiziario o politico specializzato in guerra sovversiva. Essa è caratterizzata da “agitazioni”, che sono di fatto manifestazioni normali in ogni regime democratico, essenzialmente, scioperi e manifestazioni di piazza. A questa fase iniziale seguono inevitabilmente altre quattro per arrivare alla presa del potere da parte del partito insurrezionale.
Per i teorici della DGR, il susseguirsi delle fasi è “ineluttabile” (p.114), per cui è logicamente necessario impedire la guerra sovversiva nella sua prima fase, anche per ragioni umanitarie, poiché le fasi successive saranno necessariamente più violente. Da tale assunto, secondo Rubenstein, ne deriva che dal momento in cui i militari credono di sapere cosa sta per accadere, entrano in una logica preventiva, per cui è sempre preferibile annientare l'avversario prima ancora che abbia mostrato la minima violenza (p.114). Il che implica uno stato di guerra permanente che giustifica uno stato di polizia.
Si tratta di un’analisi critica del “cuore” della dottrina della guerra rivoluzionaria, da cui emerge che i suoi principi portano logicamente alla soppressione di ogni forma di opposizione e dissenso nei confronti dei detentori del potere.
La particolarità della DGR tuttavia è che essa non si contenta solo di voler abbattere il suo avversario, ma essa si prefigge di rimpiazzare o di creare ex nihilo una nuova articolazione delle strutture statuali: esercito, sistema di partiti politici, sistema giudiziario. La contro-insurrezione inoltre necessita di un principio positivo, di un’idea attorno al quale strutturare la propaganda e conquistare i cuori e le menti (p.115).
Insomma la DGR ha bisogno di una ideologia. Non una in particolare, ma quella che meglio si adatta alla popolazione che si intende controllare. Tuttavia, contestualmente alle pratiche soft di controllo sociale è previsto il ricorso a metodi forti per separare “il grano dal loglio” (p.116), e cioè per discriminare quella parte della popolazione che collabora con il potere da quella che dissente e si oppone. Da qui il ricorso al censimento e alla deportazione in massa della popolazione in aree reticolate e compartimentalizzate controllate dai militari.
Dalla parte della seduzione della popolazione, si registra anche la “singolare esperienza”(p.127) dei “commandos noirs” del generale Bollardière, così chiamati perché indossavano un copricapo nero di foggia araba. I commandos neri, che talvolta giravano disarmati, dovevano rappresentare l’esercito della “mano sinistra”, con il compito di conquistare i cuori e le menti attraverso la realizzazione di programmi sociali, la costruzione di infrastrutture, ospedali e scuole.
Con il capitolo sulla “Battaglia di Algeri”, l’autore approfondisce la questione dell’utilizzo indiscriminato della tortura, praticata largamene dai militari francesi ad Algeri, non solo per ottenere informazioni ma allo scopo di terrorizzare la popolazione. Naturalmente i teorici della DGR non hanno mai riconosciuto esplicitamente di fare ricorso alla tortura, ma hanno insistito sulla necessità del ricorso a degli “specialisti” per far parlare ad ogni costo il prigioniero, il quale viene paragonato (negli scritti di Trinquier, ad esempio) al combattente sul campo di battaglia che sa di dover affrontare sofferenze ed anche eventualmente la morte.
Rubenstein demistifica le argomentazioni fallaci dei militari francesi tese a presentare la tortura come una forma di combattimento e, dunque, il torturato come un soldato regolare sul campo di battaglia (p.145). Né il ricorso alla tortura può essere giustificato attraverso il famoso “scenario della bomba a orologeria". Secondo il quale un prigioniero che conosce il luogo e l’ora in cui scoppierà una bomba, sotto tortura fornirà l’informazione che consentirà di salvare molte vite innocenti (p.146).
In realtà, la pratica della tortura non ha come obiettivo principale il fine dichiarato di estorcere informazioni. Rubenstein sostiene la tesi che fondamentalmente la tortura rappresenta uno dei molteplici strumenti utilizzati dai sostenitori della DGR allo scopo di terrorizzare e controllare la popolazione, e solo incidentalmente uno strumento di intelligence (p.148). Qui Rubenstein polemizza apertamente con quei ricercatori, come Élie Tenenbaum (autore dell’eccellente Partisans et Centurions. Une histoire de la guerre irréguliere au XX° siecle, Perrin, 2018)*, i quali ritengono essere il ricorso alla tortura una “deviazione” nell’applicazione della dottrina contro-insurrezionale (p.163).
La seconda parte del libro si apre con un capitolo dedicato a una ricostruzione della storiografia della DGR nel mondo universitario francese durante gli anni Novanta, scaturita principalmente a seguito del “rinnovamento della storiografia sulla guerra d’Algeria” e all’apertura di nuovi archivi (p.159)
Gli studi si possono dividere in funzione di una divergenza fondamentale: una parte concepisce la contro-insurrezione come uno strumento essenzialmente tecnico che usa il potere politico per annientare i suoi nemici; l’altra parte, invece, ritiene la contro-insurrezione essenzialmente uno strumento politico che inesorabilmente trasformerà lo stato di diritto in un regime antidemocratico (p.163).
Nel capitolo nono l’autore prende in esame gli anni Sessanta, che segnano l’eradicazione ufficiale della DGR in Francia dopo appena due anni dalla conclusione della battaglia di Algeri (“vinta militarmente ma perduta politicamente”, secondo la vulgata dei militari), che ha segnato il punto più alto dell’affermazione della dottrina. Tanto da essere ufficialmente codificata nel manuale d’impiego “TTA 117” dell’esercito francese.
Mette fine al dominio di questo pensiero strategico, che da dottrina ufficiale dell’esercito diventa una minaccia politica, il governo gollista (p.179). Ufficialmente, perché De Gaulle aveva fatto la scelta dell’arma nucleare, nell’ottica della nuova dottrina della “force de frappe”, cioè della "dottrina della deterrenza". Tuttavia, secondo l’autore, de facto la dottrina contro-rivoluzionaria continuava ad essere impiegata nei territori delle ex colonie (p.182).
I successivi due capitoli del libro sono dedicati in particolare alla circolazione della DGR, a partire dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti e in Argentina. Grazie alla diffusione di scritti teorici all’interno di scuole e di istituti di istruzione militari. Così tra le applicazioni dei principi della DGR negli Stati Uniti va annoverata la “dottrina della sicurezza nazionale” o DNS (p.207). Hanno contribuito inoltre alla diffusione della dottrina, i mercenari, nell’Africa della decolonizzazione (p. 185), l’OAS, i barbouzes gollisti (p.187), e i grandi istituti di ricerca "statunitensi (p.206).
Nel capitolo dodicesimo Rubenstein ritorna sulle applicazioni statunitensi della DGR, declinata come dottrina contro-insurrezionale, nel conflitto vietnamita. Come il Programma Phoenix, teso a distruggere le infrastrutture politiche dei Viet Cong, che portò all’eliminazione di oltre 26mila civili vietnamiti.
Gli ultimi due capitoli sono dedicati alla evoluzione dei principi della contro-insurrezione dagli anni Settanta in poi, attuata sia dagli stati, sia dalle imprese e organizzazioni private. Nicaragua, Rwanda, Algeria, Iraq e Afghanistan diventano il campo di battaglia dove si praticano nuove tecniche contro-insurrezionali mutuate dalla DGR. Ma anche le forze di polizia in tutto il mondo adottano i metodi della contro-insurrezione contro il cosiddetto “nemico interno” (p.257). Mentre il ricorso da parte del mondo imprenditoriale ai metodi controrivoluzionari, si manifesta attraverso il ricorso al mercenariato e all’arma psicologica.
Negli ultimi due decenni si registra anche la riabilitazione dei principi della DGR nell’esercito francese, poi ufficializzata con la stesura di una nuova dottrina anti-insurrezionale e la relativa produzione di manuali operativi, che in alcuni punti richiamano proprio lo “scenario delle cinque fasi” (p.292).
Infine, nel suo epilogo, l’autore spiega la ragione della attuale “pericolosa proliferazione” della DGR con l’essere la dottrina della guerra rivoluzionaria un pensiero strategico che “pone il conflitto in termini di sovranità”(p.290). Di conseguenza, afferma Rubenstein, “da un impero a un piccolo feudo, tutti i poteri trovano nei suoi metodi un’utile cassetta degli attrezzi per affermare la propria autorità” (p.290).
In conclusione, il libro di Rubenstein ci offre una ottima ricostruzione della dottrina della guerra rivoluzionaria — anche se in talune parti appare ripetitivo — e della sua diffusione ed utilizzo non solo in ambito militare, con un particolare focus sulla questione della tortura. Offrendo così un contributo notevole al dibattito tra gli specialisti non solo sulle guerre non convenzionali ma anche sulle nuove forme di controllo sulla popolazione che i detentori del potere (sia esso statuale o di organizzazioni private e persino di organizzazioni criminali) vanno esercitando in un’epoca, come la nostra, contrassegnata dalla “banalizzazione dell’iperviolenza” (p.286).
Nicola Festa