In Cile è in atto un processo costituente, deciso per la pressione delle proteste socio-economiche del 2019-2020. Per cambiare costituzione e con essa la pelle, forse l’anima, del Paese; per conquistare una democrazia più compiuta, oppure per “mascherare” meglio quella “nei limiti del possibile” attuale, come la battezzò nel 1990 l’ex primo presidente post-dittatura (1973 – 1990), Aylwin, dopo averla ereditata dalla dittatura militare di Pinochet.
Le proteste sono solo l’ultima parte di un fiume, fatto di contraddizioni storiche, che il Cile, e tutto il continente cui appartiene, continua a stentare a risolvere e che nasce ben prima della stessa dittatura. Tra queste, il rapporto con i militari.
Incarnare la Nazione oppure servirla? E incarnarla come? Servirla come? Che senso hanno e hanno avuto questi concetti nell’autocoscienza delle forze armate cilene? Per pensarti correttamente, devi essere prima pensato da qualcun altro, confrontarti e scontrarti con il progetto altrui, in questo caso il potere civile, solo dopo si potrà essere parte in equilibrio nel sistema.
Come per ogni Paese dell’America latina, il Cile ha visto innumerevoli guerre civili, colpi di stato militari, fragili istituzioni democratiche vissute all’ombra o del ricordo o della presenza della minaccia militare.
Comprendere perché la forza sia stata cronicamente più fattore critico, che moltiplicatore di potenza in Cile, impone uno sguardo all’indietro e esteso al continente di appartenenza. All’indietro, cioè alla storia dell’identità delle forze armate cilene, che è più profonda del Cile stesso. Perché in Cile la forza sorge prima del diritto, ovvero l’esercito prima della nazione. Sorgere prima, cioè sorgere senza la nazione. Ma, senza nazione, la forza non crea la nazione, ma il diritto della forza medesima, ovvero il diritto assoluto degli eserciti di farsi nazione, indipendentemente da qualunque esistenza effettiva di un progetto nazionale, che ne sorregga le dinamiche.
L’indipendenza di inizio ottocento contro la Spagna non è altro che una prima guerra civile tra spagnoli, neppure subito contro quelli peninsulari (della Spagna), ma tra gruppi di creoli (spagnoli nati in Cile) più o meno aderenti al mantenimento del progetto imperiale-assolutista spagnolo, fino a che entrambe le fazioni non capiscono che per l’assolutismo le colonie sono colonie, esistono sotto forma di risorse, di banchetto alla tavola Spagna. Tavola a pezzi ormai, e infatti le élites cilene, emancipandosene, non fanno altro che riprodurre il patto coloniale, questa volta però con loro a capotavola. Per i ceti che invece erano esclusi e sottomessi, (indigeni amerindi, schiavi importati, meticci) non cambia nulla, rimangono sotto e fuori.
Sono gli eserciti ad aver creato lo stato, ne incarnano ogni valore. La classe politica civile parla la lingua del modello impresso da quest’origine. Sono classe dominante, non dirigente, perché non c’è una società, ma élites e sottomessi da sfruttare. È l’era del caudillismo, della guida militare, dei valori militari come paradigma di qualunque cosa voglia dire essere nazione. È un processo analogo agli altri Paesi, che si emancipano dalla Spagna ricalcando una miriade di stati costruiti sui confini solo amministrativi dell’impero spagnolo. Ovvero convenzionali.
L’indipendenza siffatta non spegne le contraddizioni, piuttosto le distribuisce orizzontalmente. Ecco infatti che gli stati sudamericani quei confini vogliono ampliarli o almeno consolidarli. Riscriverli con il sangue. Le forze armate dei rispettivi Paesi, e del Cile stesso, hanno l’occasione, con le guerre di frontiera, di mobilitare la popolazione, costringerla a unità per affrontare il pericolo. Costruiscono così un embrione di coscienza nazionale, ma appunto tramite la guerra, che riproduce l’idea che la patria sia tale solo grazie al fattore militare e ai suoi valori, forza, gerarchia, compattezza. Creano identità di frontiera, ma ancora non l’unità progettuale nazionale intrinseca.
Sono guerre in realtà limitate, perché è gigante la natura da attraversare in cui vengono combattute. Le Ande, i deserti, l’Amazzonia etc...
Per questo le guerre in America latina sono più guerre civili che convenzionali, perché, o sono di fatto fra “spagnoli” di altri Paesi, o sono guerre civili interne, nell’impossibilità, causa natura, di scaricare le contraddizioni suddette all’esterno, come dinamica imporrebbe.
La guerra civile è parte stessa del paradigma nazionale iberico-americano. Forgia le società… ma dividendole. Perché il modello rimane impositivo-coloniale. Alcuni sopra, altri sotto, entrambi sempre gli stessi.
I capi militari, prima emancipatori, ora sono anche creatori dei nuovi confini. La patria l’hanno liberata, difesa e, difendendola, costruita. La patria sono loro. Qualunque potere civile sorge per concessione, perché non ha coscienza propria, non essendo depositario di alcun valore nazionale.
In Cile il potere civile sarà sempre a rischio inconcludenza per debolezza intrinseca e come tale esposto a fallimenti che lo portano a vedere legittimo l’intervento del patrono militare. Se invece tenta di liberarsi dal progetto militare e di cambiare quel modello sociale tutto, includendo i sottomessi, limitando il potere di industriali proprietari terrieri, lo fa con la fragilità di chi, nazione, non riesce a credere del tutto di poterlo essere. Allora i militari intervengono. Soffocano. La nazione sono ancora loro. Qualunque fenomeno al di fuori di questa grammatica è disordine, tradimento.
Verso la fine dell’800 le forze armate vivono un processo di istituzionalizzazione e professionalizzazione. Difendere il Paese significa proteggerlo, garantire la pace, per difendere un benessere che, più è luminoso, più copre disuguaglianze. Non si confonda questo processo: le forze armate credono ancora che il Paese sia “loro”, ma la crescita economica ha generato una stabilità che appare solidità. Non lo è intrinsecamente.
Non appena le faglie della società riemergono, non appena un certo Allende (i tentativi precedenti falliscono) nel secondo 900 cerca di dare una risposta socialista radicale alla crisi, cioè un progetto nazionale alternativo all’originario, e lo cerca di fare durante una fase storica, la guerra fredda, dove ogni cambiamento è sinonimo, per il referente statunitense, di comunismo, ecco che i militari irrompono, convinti di lottare in difesa della nazione, dove il nemico è interno, è esteso ai civili, è comunista.
La dottrina della sicurezza nazionale non è altro che la pratica militare di un’idea di origine franco-statunitense di contro-insurrezione al pericolo comunista, tradotta in Cile con una dittatura spietata.
Le forze armate credono di incarnare la nazione. Prendere il potere è salvare, redimere. Sono i militari stessi a scrivere la costituzione cilena del 1980, una democrazia “protetta” con cui riconsegnare con ipoteca il potere ai civili, al declinare dell’appoggio nordamericano e della guerra fredda.
In Cile la democrazia attuale nasce al buio di questo pensiero dittatoriale. Dal 1990 ad oggi ha eliminato molti filtri autoritari di quella costituzione, ma rimane la grammatica che ne sta alla base. Una democrazia nei limiti del possibile. Con l’implicito formalmente espunto, che ciò che è possibile è un concetto in mano alla fantasia militare.
Cambiare costituzione significa fare i conti con la cancellazione simbolica di questa origine e, ipso facto, irrobustire l’integrazione del fattore militare in una tela di poteri partecipati e dunque democratici.
Ma i militari sono pronti al trapasso di una cultura bicentenaria? Oggi il Cile è sì una democrazia solida, ma in fieri. La stessa reazione della classe governativa alle proteste, immaginandole guerra, e la risposta delle forze armate, istintivamente chiamate a difendere il Paese dal nemico interno (il popolo), con relativo numero di morti a certificarne la mentalità, non deve però far credere che il pendolo oscilli di nuovo verso quella cultura.
La scrittura della nuova costituzione è un passo di risoluzione di problemi socio-economici, che non possono essere veramente risolti senza capire cosa sia la nazione e il suo braccio militare.
Certo, rafforzare la società civile, renderla sempre più essa stessa stato e nazione equilibrerà con maggior efficacia anche la sua forza armata, affinché difenda e proietti la democrazia invece di minacciarla. È un dialogo tra progetti nazionali che dovrà trasformare l’integrazione legale in intreccio sostanziale.
Dopo due secoli, la nuova costituzione può essere l’occasione in cui sia il diritto a declinare la forza. Per compiersi democrazia... e soprattutto nazione.
Foto: Ejército de Chile / web / Biblioteca del Congreso Nacional