Ad un occhio incuriosito dalle molteplici prospettive, accedere alla visione mediorientale equivale ad entrare nella NY Subway lasciandosi prendere dal fluire del valzer che sta danzando Henry Sagan, l’improbabile Re Pescatore di Terry Gillian; immaginare che in questi attimi possa già essere in volo la rappresaglia israeliana, fa sì che il tempo si sospenda, che non ricominci ma inizi finendo, perché non c’è un prima o un dopo ma un’immediatezza subitanea, c’è un qui sospeso e fermo, inevitabile.
L’ultimo lancio balistico iraniano ha dato corpo ad una rappresaglia non delegabile, pena la perdita di fiducia da parte di proxy finora pronti all’esecuzione diretta degli ordini di Teheran. Difficile tuttavia credere che non sia stato considerato che il pur nutrito lancio non darà la stura ad una rivalsa analogamente intensa.
Nella preghiera del venerdì, rafforzata da un kalashnikov opportunamente in vista, l’Ayatollah Khamenei ha pronunciato una verità di fede affermando che Israele combatte per la sopravvivenza, offrendo a Tel Aviv ragione di rivalsa legittimando l’eccidio del 7 ottobre e proclamando la fine della pazienza strategica farsi, finalizzata ad aumentare influenza politica, diplomatica e militare.
Se la vendetta è un piatto che va servito freddo, sarà interessante vedere chi dovrà sorbirselo, visto che le resistenze all’attacco, in seno all’apparato teocratico, non sono state poche. Se è vero che il neo presidente Pezeshkian, pur preoccupato per incontrollabili escalation, è di fatto uscito sconfitto dal confronto con lo stato nello stato Pasdaran, è però altrettanto vero che in ambito internazionale questo ha rimarcato un confronto che indebolisce l’apparato teocratico di Teheran, ammesso che teocratico sia aggettivo ancora utilizzabile.
Il copione, in una situazione politica che riflette un’anarchia incontrollabile, dove ormai i tradizionali dòmini contano sempre di meno, è imprevedibile. Il coup de théâtre è in agguato, specie laddove si consideri il fatto che, al di là dell’ovvia censura, risulta statisticamente impossibile che l’ondata balistica di saturazione non abbia prodotto effetti, come è del resto puerile dar credito ad una propaganda che dà per scontato che sistemi d’arma da superiorità aerea come gli F35 siano stati lasciati concentrati in un unico sito.
Come giudicare un regime che, prima di attaccare, informa i canali diplomatici ufficiali per non eccedere in rischi incontrollati a meno che non tenti di ristabilire una complessa deterrenza? E soprattutto, come valutare l’ammonimento a lasciare invendicato un attentato all’altrui sovranità?
Il primo risultato tangibile, di fatto, è stato quello di aver lasciato piena capacità proiettiva israeliana a lungo raggio verso i proxy, colpiti duramente in Libano, dove il mandato di Hashem Safieddine, successore di Nasrallah, ha battuto ogni record di durata in quanto a brevità, e in Yemen, a Rai Issa e Hodeidah, a lungo in fiamme. Mentre il tempo rimane sospeso ed il valzer continua a risuonare, non si possono escludere attacchi sia agli impianti di produzione petrolifera sia alle strutture nucleari iraniane, vero quid strategico per un paese che, per la difesa aerea, allinea aviogetti decisamente obsoleti; non c’è dubbio che uno scontro frontale produrrebbe gli stessi effetti di praying mantis del 1988.
È giunto davvero il momento di un nuovo ordine, come invocato da Netanyahu, che ha fruito dell’appoggio dell’ex antagonista Gideon Saar, funzionale a diminuire il potere di veto parlamentare?
Di fatto, per il premier israeliano si tratta della possibilità di mutare l’equilibrio del potere regionale per gli anni a venire, assestando all’asse della resistenza una serie di colpi di maglio, nella consapevolezza che tale sviluppo troverebbe tacito gradimento da parte saudita ed emiratina, sull’onda pragmatica degli Accordi di Abramo. Attenzione però all’economia: il declassamento del rating israeliano da A2 a Baa1 con outlook negativo stilato da Moody’s evidenzia l’aumento del rischio geopolitico con ricadute sull’affidabilità creditizia1, sulla difficoltà di attivare una rapida ripresa come in passato, sul contenimento dell’impatto sul debito pubblico, cominciando a valutare come e quanto possa incidere l’aspetto migratorio.
Ma come gestire tutti questi limites? Come gestire un fronte interno quanto mai instabile, come dimostrano i continui attentati?
La risposta armata di Tel Aviv sarà determinante per comprendere se la tutta la regione si sta avviando verso un conflitto con un aumento delle vulnerabilità, visto che al momento la situazione a Gaza e Beirut non indica alterazioni negli equilibri neanche dopo l’attacco di Teheran; di fatto Hamas ha iniziato una guerra che Israele ha trasformato in un assalto a Hezbollah con la distruzione delle linee di comando. Va ovviamente dato per inteso che anche per l’Iran il fronte interno ritorni ad essere un punto di faglia, vista l’opposizione dell’opinione pubblica all’appoggio ai delegati arabi. Una guerra vera contro Gerusalemme, automaticamente estesa contro l’Occidente, innescherebbe disordini tali da compromettere la stabilità della Repubblica Islamica2. Ricapitolando, i possibili scenari vedono il diffondersi di una guerra regionale; poi un conflitto per procura con guerra asimmetrica; una difficile de escalation diplomatica; da ultimo una rivalutazione strategica iraniana ispirata dallo sfruttamento dello status nucleare. Di fatto, attaccando direttamente obiettivi israeliani, l'Iran ha cercato di scoraggiare future aggressioni, stabilendo linee invalicabili e prevenendo perdite come quelle subite in Siria, tutte linee rosse oltrepassate da Gerusalemme, con l’eliminazione prima a Beirut di Fouad Shukr poi, poche ore dopo l'insediamento del presidente Pezeshkian, a Teheran, di Ismail Haniyeh. L’astensione da una immediata risposta ha rappresentato il tentativo iraniano di ottenere per via diplomatica quel che militarmente avrebbe rappresentato un rischio, ovvero fermare l’offensiva di Gerusalemme contro l’asse della resistenza; un intento frustrato dall’annichilimento di Nasrallah prima e dall’eliminazione del generale pasdaran Nilforoushan poi, che hanno posto in luce i limiti di Teheran.
Evidente il dilemma farsi: proiettarsi contro Israele rischiando una guerra totale contro avversari particolarmente ostici, comprendendo con ciò anche gli USA, oppure cedere alla moderazione erodendo tuttavia la credibilità ed alimentando il timore per offese dirette?
Ecco dunque il clima da conflitto inevitabile o, meglio, da guerra preventiva. Il problema è che la strategia iraniana si è ritorta contro, visto che il lancio missilistico, di per sé, non ha creato deterrenza ma l’inderogabilità di una severa risposta israeliana mirata o agli impianti nucleari di Natanz e petroliferi di Isfahan e Abadan, capace di paralizzare l’economia, oppure di fiaccare la capacità produttiva bellica evitando così clamori internazionali. In sintesi, True Promise 2 ha mostrato una dipendenza iraniana quasi assoluta dai sistemi missilistici, insufficiente però a bilanciare la forza israeliana laddove non accompagnata dall’arma atomica, alla base di una più ampia strategia di sicurezza basata su un’ambiguità nucleare foriera di inevitabili ed ulteriori attacchi preventivi. È chiaro che la simmetria di attacchi e rappresaglie evidenzia limiti tecnologici iraniani tali da spingere Teheran a correre maggiori rischi pur di raggiungere una credibile deterrenza.
L’atomo è dunque importante; lo è però anche per Israele, una volta che avrà stabilito come e se abbandonare la politica di ambiguità nucleare comunicando l’entità e la capacità di patrocinare una minaccia circoscritta e credibile; ad oggi, la politica di deliberata ambiguità è meno facilmente sostenibile, ammesso che intenda mantenere alto ed autorevole un livello di deterrenza temuto e riconosciuto ex ante in modo da evitare tragici errori di valutazione ovviabili solo con un attento rilascio di informazioni su capacità ed intenzioni. Teoricamente, la diminuzione dell’ambiguità consentirebbe di segnalare che Tel Aviv è pronta ad oltrepassare la soglia della rappresaglia nucleare per punire tutti gli atti di aggressione, dominando qualsiasi escalation a fronte di un’attuale asimmetria che costringerebbe Teheran a ricorrere all’alleato nucleare nordcoreano. Inevitabile dover prendere in considerazione due prospettive sul futuro mediorientale; la prima vede l'Iran ed i suoi alleati impegnati nel prosieguo di conflitti violenti finalizzati alla distruzione di Israele con l’insorgere definitivo di un radicalismo estremista ; la seconda considera la necessità di contrastare le aspirazioni di Teheran degradandone il potenziale militare, favorendo la stabilizzazione di una regione più integrata e con vincoli economici e securitari fondati sugli Accordi di Abramo.
In Israele Swords of Iron del 2023-2024, ha condotto a riconsiderare l’assunto di von Clausewitz, per cui la guerra è una continuazione della politica con altri mezzi, laddove l’affermazione è diventata base per attaccare Netanyahu, leader non chiaro su quale strategia intenda adottare per agevolare la fine delle ostilità ed affrontare the day after, tenuto conto che il conflitto clausewitziano3 ora altro non è che una guerra di conquista a cui assimilare l’assalto russo in Ucraina e quello di Hamas del 7 ottobre.
A livello internazionale, con un valzer ormai alle battute finali, si attende sia l’esito delle presidenziali di Washington, chiamata ad una nuova impostazione della sua politica estera, magari riprendendo con altro stile una nuova diplomazia della navetta, strumento di pressione da usare con perizia e discernimento tra i vari attori, sia il nuovo difficile ruolo delle NU, il cui segretario generale è stato dichiarato persona non grata dal ministro degli esteri israeliano, un unicum storico istituzionale. A più ampio spettro, mentre da un lato l’Iran si trova in una condizione di affanno per l’indebolimento dell’asse di resistenza, per la necessità di evitare a qualsiasi costo scontri diretti e prolungati con egemoni più potenti e per un’intrinseca vulnerabilità interna, dall’altro il 7 ottobre è assurto a simbolo pari a quello degli aerei che l’11 settembre 2001 si sono schiantati su Manhattan; un simbolo che non può scolorire per un Paese che ha fatto della memoria collettiva il suo credo.
1 Sono diminuiti gli investimenti e si sono quasi azzerati gli introiti derivanti dal turismo, nel 2022 e nel 2023 pari a circa 5,5 miliardi di dollari. È aumentata la spesa pubblica, sia per finanziare i costi diretti della guerra, sia quelli indiretti, come la gestione dei circa 60 mila sfollati che hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni nel nord di Israele.
2 Da considerare la posizione dell’ISIS circa il conflitto tra Israele e le forze sciite regionali, inquadrato come uno scontro tra non credenti, utile per giustificare attacchi contro ebrei e sciiti. Per l’ISIS si tratta di un'opportunità per affermare la supremazia in ambito musulmano. Gli attacchi agli sciiti in particolare sono visti come una purificazione dall'apostasia.
3 In Libano nel 1982 Israele tentò di combattere una guerra clausewitziana, dato che l'obiettivo politico era quello di instaurare un nuovo ordine politico in MO imponendo il governo falangista cristiano.
Foto: IDF